La poltrona sulla
copertina del De otio di Seneca a cura di Stefano Costa (La
Vita Felice), indurrebbe a pensare al significato dispregiativo che
comunemente diamo alla parola «ozio». Quello di cui parla Seneca -
difficile tradurlo con un unico termine - è il disporre del proprio
tempo per la meditazione, per la conoscenza di sé, la ricerca della
verità e della saggezza; è attività dello spirito, spazio
dell'anima, libertà interiore. Punto di riferimento per pensatori di
ogni età, soprattutto per anime inquiete, che hanno trovato nelle
sue parole sollievo al sopravvenire del pensiero della morte, Seneca
affronta qui il problema della scelta tra otium e negotium,
cioè tra vita contemplativa e attiva, come opposizione tra la
dottrina stoica e quella epicurea. Secondo Epicuro il sapiente non
deve partecipare alla vita pubblica, a meno che gravi condizioni non
lo obblighino a intervenire per evitare mali ancora peggiori. Lo
stoicismo invece prevede la partecipazione del saggio alla vita
politica per operare in prima persona a favore della collettività;
ma pur ribadendo il valore del negotium come scelta del
cittadino romano, riconosce la legittimità dell'otium, inteso
come vita dedita alla riflessione, al perfezionamento morale,
soprattutto qualora lo si voglia obbligare a tradire la virtù.
Seneca cerca di
conciliare le due scuole filosofiche: l’epicurea aspira alla vita
ritirata per principio, la stoica per una qualche causa che impedisca
la vita attiva. Nel De otio, accusato dal suo interlocutore di
essere diventato epicureo, Seneca si difende citando lo stoico
Zenone: «Il saggio si occuperà dello Stato a meno che qualcosa lo
impedisca», e rafforza il concetto con un'affermazione pienamente
coerente con le massime fondamentali della morale stoica rispetto
all’impegno politico: «Se non si trova quello Stato che noi ci
prefiguriamo, la vita ritirata comincia a essere obbligatoria per
tutti». La rinunzia di Seneca all'impegno politico è dovuta alla
necessità di allontanarsi da un potere iniquo, il suo ritiro dalla
vita pubblica avviene dunque per una causa esterna: «se lo Stato è
più corrotto di quanto dovrebbe essere per potervi collaborare, se è
invaso dai mali, il saggio non si sforzerà verso l'inutile».
Lontano da impegni politici, Seneca tuttavia non si dà per vinto:
«L'isolarsi gioverà per se stesso: da soli saremo migliori»,
precisando che le sue riflessioni nate durante l’otium
potranno giovare a tutta l'umanità, l’otium è dunque una
scelta pienamente legittima: quando non è possibile dedicarsi alla
politica, il ritiro ha comunque una giustificazione sociale perché
migliorare se stessi significa poter giovare agli altri.
Ma per Seneca
l’allontanamento dalla scena pubblica è un implicita confessione
del fallimento del progetto di creare in Nerone il modello dell’
imperatore filosofo. Nella sua vita ritirata non raggiungerà pace
interiore e sarà piuttosto un uomo inquieto che s interroga e
ripiega su se stesso. Nonostante continui a ribattere che l’otium
dello stoico non può essere inazione (i maestri stoici Zenone e
Crisippo, nel loro ritiro, furono più utili all’umanità che se si
fossero impegnati come comandanti militari o politici), Seneca,
osserva Costa, «non riesce a spiegare come sciogliere il nodo
paradossale dell’attivismo contemplativo, ma dimostrerà di aver
risolto tale paradosso nei suoi scritti seguenti o contemporanei al
De otio». Riuscirà a medicare i mali dell’anima e si
mostrerà profondo conoscitore delle debolezze umane e austero
maestro di precetti etici. (il «Seneca morale» di Dante). Pregio
del libro è l'accurata traduzione del testo filosofico, che viene
presentato al lettore con una chiara introduzione e alleggerito delle
consuete note filologiche e interpretative.
“Alias-talpa-il
manifesto”, 28 giugno 2015
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