La “Domenica del
Corriere” chiude, e si sarebbe tentati di dire che è un pezzo d'
Italia che se ne va. Quell'Italia di cui il settimanale milanese,
nato nel 1899 come illustrato domenicale del “Corriere della sera”,
era stato specchio e interprete fedele, s' era dileguata, in verità,
da almeno un quarto di secolo. Eppure, investita dalla trasformazione
della stampa italiana, e di quella periodica in particolare, la
resistenza del vecchio settimanale dei Crespi era apparsa, a partire
dall'indomani della seconda guerra mondiale, tenace e a suo modo
eroica. Il paese cambiava, i rotocalchi dall'“Europeo” alla
“Settimana Incom”, da “Oggi” ad “Epoca” ne riflettevano
gli umori, ma la “Domenica” non mollava. Anzi, cercava a volte di
inturgidire i suoi vecchi muscoli.
Per sincerarmene sono
andato a ripescare un articolo di fondo con il quale il direttore del
glorioso periodico, Eligio Possenti, volle celebrare il Natale del
1955. “Restìa alla frivolità e allo scandalismo oggi di moda -
scriveva Possenti - seria e serena, ispirata a quel buon senso che è
guida sicura nel caotico e disordinato vivere attuale e a quella
nobiltà d' animo che è valido alimento del progresso, la Domenica
del Corriere è, per i suoi lettori, non soltanto una compagna,
ma una consigliera”. Era la rivendicazione, sia pure anacronistica,
(va ricordato che a quei tempi era già nato, da pochi mesi,
“L'Espresso”) di una filosofia editoriale cui il settimanale
aveva obbedito con orgoglio per quasi sessant'anni.
Una dignitosa
vecchiezza
Ancora per un po' la
Domenica del Corriere avrebbe prolungato senza cedimenti la sua
dignitosa vecchiezza; anzi, dal 1957 al 1963, quando ne assunse la
direzione un giornalista di grande temperamento, Dino Buzzati, sembrò
che le sue antiche glorie potessero ancora suggestionare il pubblico,
come accade a certi celebrati film del passato, ripescati nelle
cineteche e rimessi in circuito. Anche la tiratura s'impennò, e
firme di notevole prestigio non disdegnarono di figurare nelle stesse
pagine in cui si continuavano ad esaltare le virtù domestiche delle
massaie della Valle Padana. Ma fu (oggi possiamo dirlo) l'ultimo
guizzo. La “Domenica del Corriere” che abbiamo trovato fino alla
settimana scorsa in edicola rappresentava, rispetto al modello dei
tempi d'oro, qualcosa di meno d'un discendente che traligna. Sembrava
uscita da uno strano alambicco in cui “Sorrisi e canzoni” si
mescolasse con “Gente” e “Stop” con il “Radiocorriere”.
Un'altra cosa, insomma. O, forse, niente.
Per ritrovare il tempo in
cui il settimanale di via Solferino era stato tutto per un pubblico
largo e sociologicamente ben individuato, occorre risalire al primo
trentennio del secolo. Dopo aver lottato vittoriosamente con la
“Tribuna illustrata” (il più antico settimanale del genere
famiglia, nato nel 1890 a Roma, a fianco del quotidiano La Tribuna),
esso divenne ben presto l'ebdomadario popolare più diffuso in
Italia. La sua diffusione negli anni immediatamente precedenti la
Grande Guerra si parlava di un milione e novecentomila copie era, per
l'epoca, strabiliante. Il suo ambiente d'elezione era quello della
cultura medio-inferiore, ai limiti dell'analfabetismo; la fascia
sociale su cui faceva perno dalla borghesia minuta al mondo contadino
appariva anagraficamente sconfinata. Il tipo di approccio con il
lettore era volutamente interclassista; il linguaggio scorrevole,
disadorno.
E tuttavia non si
trattava di un giornale stupido, se non altro perché la sua
ambizione divulgativa non arretrava di fronte ad alcun ostacolo. Le
due categorie dell'Edificante e dell'Utile vi si
mescolavano senza residui. L'introduzione del colore nelle tavole di
copertina e poi, gradualmente, anche all' interno (sull' esempio
della Tribuna Illustrata) allontana definitivamente la sua formula da
quella dei primi periodici post-unitari, reinventati da un Pomba o da
un Treves sempre sulla scia del vecchio Monde Illustré. La
testata si raccomanda alla fedeltà e si propone al diletto della
gente minuta che popola un paese giovane, al quale è opportuno
instillare il senso della nazionalità attraverso richiami spiccioli
e insistenti.
Il carabiniere come
eroe
La differenza, ad
esempio, dall' “Illustrazione Italiana” è visibile ad occhio
nudo. L'iconografia della “Domenica” elegge come suo eroe
preferito il carabiniere in luogo del corazziere, e ciò sintetizza
il passaggio verso tempi meno aulici. Fra la “Domenica del
Corriere” e il Carabiniere c' era un tramite fisico, costituito da
un nome, un cognome e una professione: Achille Beltrame, pittore (si
direbbe oggi con generosa approssimazione) iperrealista. Nato ad
Arzignano, nei pressi di Vicenza, nel 1871, Beltrame disegnò per
quasi quarant'anni le tavole a colori per la prima e l'ultima pagina
del settimanale. Spuntando fuori dalla sua tavolozza, l'onnipresente
Carabiniere diventava come ha scritto Sergio Zavoli su “Epoca”
una sorta di arcangelo antropomorfo. Non c'era gesto eroico che non
lo vedesse protagonista, disastro nazionale nei cui flutti o bagliori
non riuscisse a penetrare, torto o abuso che non corresse a punire.
Sempre pronto, sempre in alta uniforme (Beltrame, infatti, non gli
concedeva altra mise).
Una gara ingaggiata, in
materia di sciagure, fra gli attuali telegiornali della sera e quelle
antiche tavole di gusto naif si concluderebbe con un pareggio: da noi
i fiumi non hanno perso l'abitudine di straripare, i boschi d'
incendiarsi, i lattanti di precipitare dalle finestre. L'unico a
diradare la sua presenza e non lo diciamo certo per fargliene una
colpa è il Carabiniere. Meno presente, meno altruista, meno ubiquo.
E, soprattutto, meno pubblicizzato. Se mai si facesse un monumento ad
Achille Beltrame, l' iniziativa dovrebbe ragionevolmente partire
dall' Arma Benemerita.
Anche se la proposta del
monumento rimane inascoltata, un certo revival di Beltrame sembra
ugualmente profilarsi: ho notizia che le sue tavole a colori
riscuotono interesse fra gli amatori di un particolare modernariato
che si libra a mezz'aria tra il kitsch e lo chic. L' arco tematico
delle tavole di Beltrame (che morì nel 1945) e del suo successore
Walter Molino si estendeva, con il passare dei decenni, da Tripoli
bel suol d' amore (e qui rifulgeva di preferenza il Bersagliere)
alle trincee del Carso, da Bruneri e Canella al delitto Cuocolo, da
Salvo D' Acquisto a Bartali e Coppi arrampicati sul Tourmalet.
Minori varianti
presentava, sulla “Domenica del Corriere”, un nucleo di rubriche
e rubrichette che collaboravano con le casalinghe italiane in una
svariatissima gamma di mansioni, dal togliere le macchie dagli abiti
al somministrare purganti ai neonati. S' intitolavano La parola
del medico, E' stagione, In cantina, Quinto
peccato, Idee per la casa. Il settimanale si assumeva poi
un altro compito non meno importante: quello di istruire,
dilettandolo, il lettore desideroso di sapere e non pettegolo (come
si leggeva in un articolo autopubblicitario degli anni Cinquanta: e
qui un' altra profluvie di rubriche, da Giochi e passatempi a
Piccole cronache di casa nostra, da Notizie curiose a
Catalogo delle novità, da Come sta l' ortografia a Un
po' di galateo.
Quei lettori
romantici
La Domenica era convinta
di riscuotere il consenso di gente amica del riso e meno del
sarcasmo: e giù Cartolina del pubblico e Spigolature
d'ilarità. Ai lettori del genere romantico-immaginoso (oggi si
definirebbero, forse, i creativi) spettava di tuffarsi nella Realtà
romanzesca, nel Film della vita, o di sognare Sotto la
guida degli astri. E così via. Un immaginario lettore cui fosse
toccata la fortuna di seguire per una sessantina di anni i temi e i
linguaggio della “Domenica del Corriere” non avrebbe notato,
nella sua composizione editoriale, bruschi salti di qualità fra lo
scadere del secolo scorso e i primi governi di centro-sinistra.
Dal punto di vista
politico, c'era un'opacità del tutto intenzionale, che abilitava la
testata a sorvolare i regimi senza cambiare visibilmente uniforme.
Sotto l'aspetto tecnico, la venerazione per l'antica veste
tipografica diventava un anacronismo quasi compiaciuto, in maniera da
sfruttare anche una componente sentimentale che, a giusto titolo, si
riteneva presente sul mercato. Ma in realtà (come capita spesso nei
prodotti riusciti) intenzioni politiche e tecniche editoriali
facevano tutt'uno. Il messaggio del settimanale si risolveva in un
cauto tradizionalismo adattato alla misura psicologica di un Paese
come il nostro sul quale era passato un soffio di socialismo
umanitario che neppure il fascismo riuscì del tutto a soffocare:
delle due facce di Edmondo De Amicis per ricorrere a un nome
simbolico alla “Domenica del Corriere” si addiceva meglio quella,
nobile e rugiadosa, di Cuore che l' altra, elegante e svagata,
dell'inviato speciale. Ora, comunque, una storia di novant'anni è
finita, e la “Domenica” scompare, come quei vecchietti che si
spengono in una cerchia di familiari che, sia pure addolorati, se
l'aspettavano. Le onoranze si svolgeranno forse in sordina. Nessuno
potrà tuttavia rifiutare a quell'antica testata un posto di riguardo
nella storia del giornalismo.
"la Repubblica", 7 ottobre 1989
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