3.8.15

Vita e morte della “Domenica del Corriere” (Nello Ajello)

La “Domenica del Corriere” chiude, e si sarebbe tentati di dire che è un pezzo d' Italia che se ne va. Quell'Italia di cui il settimanale milanese, nato nel 1899 come illustrato domenicale del “Corriere della sera”, era stato specchio e interprete fedele, s' era dileguata, in verità, da almeno un quarto di secolo. Eppure, investita dalla trasformazione della stampa italiana, e di quella periodica in particolare, la resistenza del vecchio settimanale dei Crespi era apparsa, a partire dall'indomani della seconda guerra mondiale, tenace e a suo modo eroica. Il paese cambiava, i rotocalchi dall'“Europeo” alla “Settimana Incom”, da “Oggi” ad “Epoca” ne riflettevano gli umori, ma la “Domenica” non mollava. Anzi, cercava a volte di inturgidire i suoi vecchi muscoli.
Per sincerarmene sono andato a ripescare un articolo di fondo con il quale il direttore del glorioso periodico, Eligio Possenti, volle celebrare il Natale del 1955. “Restìa alla frivolità e allo scandalismo oggi di moda - scriveva Possenti - seria e serena, ispirata a quel buon senso che è guida sicura nel caotico e disordinato vivere attuale e a quella nobiltà d' animo che è valido alimento del progresso, la Domenica del Corriere è, per i suoi lettori, non soltanto una compagna, ma una consigliera”. Era la rivendicazione, sia pure anacronistica, (va ricordato che a quei tempi era già nato, da pochi mesi, “L'Espresso”) di una filosofia editoriale cui il settimanale aveva obbedito con orgoglio per quasi sessant'anni.

Una dignitosa vecchiezza
Ancora per un po' la Domenica del Corriere avrebbe prolungato senza cedimenti la sua dignitosa vecchiezza; anzi, dal 1957 al 1963, quando ne assunse la direzione un giornalista di grande temperamento, Dino Buzzati, sembrò che le sue antiche glorie potessero ancora suggestionare il pubblico, come accade a certi celebrati film del passato, ripescati nelle cineteche e rimessi in circuito. Anche la tiratura s'impennò, e firme di notevole prestigio non disdegnarono di figurare nelle stesse pagine in cui si continuavano ad esaltare le virtù domestiche delle massaie della Valle Padana. Ma fu (oggi possiamo dirlo) l'ultimo guizzo. La “Domenica del Corriere” che abbiamo trovato fino alla settimana scorsa in edicola rappresentava, rispetto al modello dei tempi d'oro, qualcosa di meno d'un discendente che traligna. Sembrava uscita da uno strano alambicco in cui “Sorrisi e canzoni” si mescolasse con “Gente” e “Stop” con il “Radiocorriere”. Un'altra cosa, insomma. O, forse, niente.
Per ritrovare il tempo in cui il settimanale di via Solferino era stato tutto per un pubblico largo e sociologicamente ben individuato, occorre risalire al primo trentennio del secolo. Dopo aver lottato vittoriosamente con la “Tribuna illustrata” (il più antico settimanale del genere famiglia, nato nel 1890 a Roma, a fianco del quotidiano La Tribuna), esso divenne ben presto l'ebdomadario popolare più diffuso in Italia. La sua diffusione negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra si parlava di un milione e novecentomila copie era, per l'epoca, strabiliante. Il suo ambiente d'elezione era quello della cultura medio-inferiore, ai limiti dell'analfabetismo; la fascia sociale su cui faceva perno dalla borghesia minuta al mondo contadino appariva anagraficamente sconfinata. Il tipo di approccio con il lettore era volutamente interclassista; il linguaggio scorrevole, disadorno.
E tuttavia non si trattava di un giornale stupido, se non altro perché la sua ambizione divulgativa non arretrava di fronte ad alcun ostacolo. Le due categorie dell'Edificante e dell'Utile vi si mescolavano senza residui. L'introduzione del colore nelle tavole di copertina e poi, gradualmente, anche all' interno (sull' esempio della Tribuna Illustrata) allontana definitivamente la sua formula da quella dei primi periodici post-unitari, reinventati da un Pomba o da un Treves sempre sulla scia del vecchio Monde Illustré. La testata si raccomanda alla fedeltà e si propone al diletto della gente minuta che popola un paese giovane, al quale è opportuno instillare il senso della nazionalità attraverso richiami spiccioli e insistenti.

Il carabiniere come eroe
La differenza, ad esempio, dall' “Illustrazione Italiana” è visibile ad occhio nudo. L'iconografia della “Domenica” elegge come suo eroe preferito il carabiniere in luogo del corazziere, e ciò sintetizza il passaggio verso tempi meno aulici. Fra la “Domenica del Corriere” e il Carabiniere c' era un tramite fisico, costituito da un nome, un cognome e una professione: Achille Beltrame, pittore (si direbbe oggi con generosa approssimazione) iperrealista. Nato ad Arzignano, nei pressi di Vicenza, nel 1871, Beltrame disegnò per quasi quarant'anni le tavole a colori per la prima e l'ultima pagina del settimanale. Spuntando fuori dalla sua tavolozza, l'onnipresente Carabiniere diventava come ha scritto Sergio Zavoli su “Epoca” una sorta di arcangelo antropomorfo. Non c'era gesto eroico che non lo vedesse protagonista, disastro nazionale nei cui flutti o bagliori non riuscisse a penetrare, torto o abuso che non corresse a punire. Sempre pronto, sempre in alta uniforme (Beltrame, infatti, non gli concedeva altra mise).
Una gara ingaggiata, in materia di sciagure, fra gli attuali telegiornali della sera e quelle antiche tavole di gusto naif si concluderebbe con un pareggio: da noi i fiumi non hanno perso l'abitudine di straripare, i boschi d' incendiarsi, i lattanti di precipitare dalle finestre. L'unico a diradare la sua presenza e non lo diciamo certo per fargliene una colpa è il Carabiniere. Meno presente, meno altruista, meno ubiquo. E, soprattutto, meno pubblicizzato. Se mai si facesse un monumento ad Achille Beltrame, l' iniziativa dovrebbe ragionevolmente partire dall' Arma Benemerita.
Anche se la proposta del monumento rimane inascoltata, un certo revival di Beltrame sembra ugualmente profilarsi: ho notizia che le sue tavole a colori riscuotono interesse fra gli amatori di un particolare modernariato che si libra a mezz'aria tra il kitsch e lo chic. L' arco tematico delle tavole di Beltrame (che morì nel 1945) e del suo successore Walter Molino si estendeva, con il passare dei decenni, da Tripoli bel suol d' amore (e qui rifulgeva di preferenza il Bersagliere) alle trincee del Carso, da Bruneri e Canella al delitto Cuocolo, da Salvo D' Acquisto a Bartali e Coppi arrampicati sul Tourmalet.
Minori varianti presentava, sulla “Domenica del Corriere”, un nucleo di rubriche e rubrichette che collaboravano con le casalinghe italiane in una svariatissima gamma di mansioni, dal togliere le macchie dagli abiti al somministrare purganti ai neonati. S' intitolavano La parola del medico, E' stagione, In cantina, Quinto peccato, Idee per la casa. Il settimanale si assumeva poi un altro compito non meno importante: quello di istruire, dilettandolo, il lettore desideroso di sapere e non pettegolo (come si leggeva in un articolo autopubblicitario degli anni Cinquanta: e qui un' altra profluvie di rubriche, da Giochi e passatempi a Piccole cronache di casa nostra, da Notizie curiose a Catalogo delle novità, da Come sta l' ortografia a Un po' di galateo.

Quei lettori romantici
La Domenica era convinta di riscuotere il consenso di gente amica del riso e meno del sarcasmo: e giù Cartolina del pubblico e Spigolature d'ilarità. Ai lettori del genere romantico-immaginoso (oggi si definirebbero, forse, i creativi) spettava di tuffarsi nella Realtà romanzesca, nel Film della vita, o di sognare Sotto la guida degli astri. E così via. Un immaginario lettore cui fosse toccata la fortuna di seguire per una sessantina di anni i temi e i linguaggio della “Domenica del Corriere” non avrebbe notato, nella sua composizione editoriale, bruschi salti di qualità fra lo scadere del secolo scorso e i primi governi di centro-sinistra.
Dal punto di vista politico, c'era un'opacità del tutto intenzionale, che abilitava la testata a sorvolare i regimi senza cambiare visibilmente uniforme. Sotto l'aspetto tecnico, la venerazione per l'antica veste tipografica diventava un anacronismo quasi compiaciuto, in maniera da sfruttare anche una componente sentimentale che, a giusto titolo, si riteneva presente sul mercato. Ma in realtà (come capita spesso nei prodotti riusciti) intenzioni politiche e tecniche editoriali facevano tutt'uno. Il messaggio del settimanale si risolveva in un cauto tradizionalismo adattato alla misura psicologica di un Paese come il nostro sul quale era passato un soffio di socialismo umanitario che neppure il fascismo riuscì del tutto a soffocare: delle due facce di Edmondo De Amicis per ricorrere a un nome simbolico alla “Domenica del Corriere” si addiceva meglio quella, nobile e rugiadosa, di Cuore che l' altra, elegante e svagata, dell'inviato speciale. Ora, comunque, una storia di novant'anni è finita, e la “Domenica” scompare, come quei vecchietti che si spengono in una cerchia di familiari che, sia pure addolorati, se l'aspettavano. Le onoranze si svolgeranno forse in sordina. Nessuno potrà tuttavia rifiutare a quell'antica testata un posto di riguardo nella storia del giornalismo.


"la Repubblica", 7 ottobre 1989  

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