Pazienti in attesa della visita odontoiatrica in piazza San Francesco a Ripa, a Roma, il 30 giugno 2015 (Foto di Raffaele Petralla per Internazionale) |
All’inizio era un
normale mal di denti, poi è diventato un ascesso e piano piano è
salito al cervello. Quando il ragazzo è arrivato in ambulatorio, non
c’era quasi più niente da fare. Ascesso cerebrale, il corpo
bloccato da una semiparesi. Persa la funzione della parola. È
successo a Roma, che un giovane di ventisei anni sia rimasto
semiparalizzato per non aver curato un mal di denti. Fosse stato
italiano, il caso sarebbe esploso come emblema di malasanità. Ma
Jovan Firlovic, 26 anni, è un rom. Uno dei pochissimi del suo campo
– quello di via di Salone, a Roma, un grande insediamento steso tra
la via Prenestina e il raccordo anulare – che ce l’aveva fatta, a
finire le scuole medie e a frequentare anche due anni di istituto
tecnico. Inutile, perché adesso è afasico, e immobilizzato.
Lo racconta con rabbia
Lucia Ercoli, che l’ha visto arrivare, troppo tardi,
nell’ambulatorio di medicina solidale di Tor Bella Monaca. Un
piccolo fabbricato che sta tra la strada e il cavalcavia della
ferrovia, e che da undici anni arriva dove il servizio sanitario
pubblico e universale non arriva: ai margini estremi, dentro i quali
la povertà non è solo il contesto ma diventa essa stessa una
malattia. Classificata anche dall’Organizzazione mondiale della
sanità, con un codice: Z59.5, povertà estrema. “Il maggior killer
al mondo”, scrive l’Oms.
“Attenzione: non la
povertà come una determinante sociale della malattia, ma come
malattia in sé”, ci tiene a precisare Aldo Morrone, direttore
dell’Istituto mediterraneo di ematologia.
Morrone è un medico da
sempre attivo nella medicina per i poveri, a Roma, soprattutto
dall’avamposto del San Gallicano: l’ospedale del settecento nato
a Trastevere per il giubileo di Benedetto XIII e da questi destinato
a curare i pellegrini e i morbi della pelle dei poveri (lebbra,
scabbia, tigna), e poi man mano specializzatosi sempre più nelle
malattie infettive e dermatologiche, fino a diventare un centro di
riferimento nazionale e internazionale della prevenzione e cura delle
principali malattie della povertà.
Il maggior killer al
mondo, e non più nel terzo mondo. Né più confinato nella periferia
e nei margini. Con la crisi e l’aumento del numero dei poveri
assoluti, e la parallela riduzione delle prestazioni sanitarie
pubbliche, il confine tra povertà e benessere è diventato spesso
confine tra malattia e salute. Ma così come è cambiata la povertà,
sono cambiate anche le sue malattie.
Il primo segno della
privazione, spesso, è in un incisivo che manca e non si può
recuperare; un vuoto che non si può nascondere, che rende difficili
le cose ordinarie della vita quotidiana
Come la pelle, i denti
sono una parte esposta. Il primo segno della privazione, spesso, è
in un incisivo che manca e non si può recuperare; un vuoto che non
si può nascondere, che rende difficili le cose ordinarie della vita
quotidiana: mangiare, socializzare, andare a prendere i figli a
scuola, presentarsi a un colloquio per avere un lavoro. Ma sono la
parte più esposta anche perché lasciata fuori dalle cure di un
sistema sanitario pubblico che pure era stato pensato come universale
e uguale per tutti. Di quello che si spende per i denti in Italia,
l’odontoiatria pubblica copre solo il 5 per cento. Il resto, il 95
per cento, è a carico dei privati.
Si potrebbe pensare che
in quel 5 per cento pubblico si concentrino le fasce estreme di
povertà e bisogno, e che dunque siano cresciute, negli ultimi anni,
le liste d’attesa. Domenico Mazzacuva, odontoiatra di uno dei pochi
servizi pubblici lasciati dallo stato a presidio delle nostre bocche,
racconta un’altra storia. “Adesso le liste d’attesa si sono
ridotte a un mese, la gente si affaccia e se ne va”. C’è troppo
da pagare, tra ticket e contribuzioni varie: vedono il preventivo e
vanno via, rinviano il più possibile. Oppure si dirigono verso i
pochissimi presìdi totalmente gratuiti, quelli che nascono da
iniziative territoriali, a volte sperimentali, spesso in
collaborazione con il volontariato, quasi sempre appoggiati a qualche
chiesa.
Mazzacuva per esempio lo
si trova spesso a Sant’Egidio, “l’Onu di Trastevere”, una
delle comunità raggiunte dall’unità mobile di odontoiatria a
domicilio dove la gente bisognosa può andare a farsi visitare e
curare i denti: tutte le prestazioni di base sono gratuite, i più
vulnerabili – perché hanno un reddito bassissimo, oppure perché
gravati da più patologie – ricevono anche le protesi mobili. Lì
hanno visto crescere, man mano, la presenza degli italiani tra i
pazienti in fila: adesso sono 4 su 10, e per semplificare le
procedure (ma anche per evitare problemi) a Sant’Egidio
l’assistenza odontoiatrica è divisa per giorni, il martedì gli
italiani e il venerdì gli stranieri.
Si trova sempre più
spesso alla porta pazienti italiani anche Giuseppe Teofili, dentista
che presta un pezzo della sua settimana – e un grande sforzo
organizzativo – al piccolo ambulatorio dei comboniani, sempre a
Roma. Una saletta minuscola, ricavata dalla sagrestia della chiesa
del Buon Consiglio, a due passi dal Colosseo. La sagrestia è
diventata studio medico, il corridoio stretto contiene lo schedario
con le storie delle persone che arrivano e raccontano, a partire dai
denti, il percorso che li ha portati lì; alla fine del corridoio, la
porta d’accesso a una chiesa che non sembra tale, poiché, nei
giorni feriali, è occupata da grandi tavoli e sedie, dove si insegna
gratis l’italiano agli stranieri.
Per statuto i comboniani
aiutano i migranti, ma come si fa a mandare via ragazzi o anziani che
rischiano di perdere i denti o peggio? “Alcuni di quelli che
entrano qui non hanno mai visto un dentista. La prima cosa che
facciamo è consegnare uno spazzolino e un dentifricio”. Da qui
comincia un’assistenza minima e gigantesca: sulla poltrona del
dentista volontario si siedono quindici persone al giorno. Qui si
curano persone di ottantadue diverse nazionalità. Per tutte vale la
stessa regola e la stessa osservazione, che è di buon senso ma che
non è bastata a modellare la sanità pubblica: “La bocca fa parte
della persona, è la prima cosa che vedi. Fa male”, racconta
Teofili, “vedere un giovane senza denti. Non solo dalla bocca
partono tante altre malattie ma da lì comincia anche l’impossibilità
di una vita normale: non trovano più lavoro, per cominciare. E
aumentano le sofferenze psicologiche, profondissime”.
Anche se sono la prima
cosa che si vede, è probabile che i denti siano stati anche il primo
capitolo del rinvio delle spese legate alla salute, nei tempi della
crisi. Il rinvio più pericoloso, quello legato alla prevenzione.
Secondo l’Istat, dal 2005 al 2013 le visite dal dentista delle
famiglie italiane sono diminuite del 30 per cento. Nel complesso, la
spesa mensile media familiare legata alla sanità è scesa, dal 2008
al 2013, del 9 per cento. Una riduzione che ha colpito tutte le fasce
di spesa delle famiglie, dalle più povere alle più ricche. Ma che,
ai piani più bassi, è arrivata all’osso.
Nel decile inferiore
della spesa familiare, si è passati da 29 a 20 euro al mese (in
percentuale, è un calo superiore al 30 per cento); in quello più
alto, da 221 a 204 (il 7,6 per cento). E con la spesa si è ridotta
l’equità di accesso alle cure: lo sostiene anche l’Istat,
sottolineando che nell’anno 2014 – il sesto della crisi, forse
l’ultimo – un utente su dieci ha rinunciato alle cure “per
motivi economici o per carenze del Servizio sanitario nazionale”.
La disuguaglianza di
salute non passa solo per nazionalità, reddito, età. Ha anche
un’altra determinante cruciale: il posto in cui si risiede. Molte
regioni, infatti, hanno smesso di erogare i livelli minimi di
assistenza per i programmi di rientro dal debito. Livelli minimi
dentro i quali, nella proposta dell’attuale ministra Lorenzin, il
poco che c’è di cure odontoiatriche è adesso messo in
discussione.
Così, i poveri di salute
sono tali non solo perché non hanno le conoscenze, i soldi e le
condizioni per prevenire e per curarsi, ma anche perché restano del
tutto fuori da uno stato sociale sanitario che si voleva universale.
Anzi, molto spesso negli ambulatori volontari o solidali i pazienti
arrivano su indicazione delle Asl o perfino del pronto soccorso, non
sapendo come aiutarli altrimenti. La novità è che adesso arrivano
tanti italiani. Nell’ambulatorio di medicina solidale di Tor Bella
Monaca, la percentuale è 30 a 70: trenta italiani per settanta
stranieri. “Da tre-quattro anni le famiglie italiane hanno
cominciato a presentarsi anche alla distribuzione dei pacchi-cibo.
Vengono le donne, per lo più”, raccontano.
Qui i pacchi viveri non
sono solo assistenza alimentare, ma fanno parte anche di un programma
sanitario: quello contro la nuova emergenza della povertà, l’eccesso
di peso. Mettendo nei pacchi alimenti bilanciati, si cerca di evitare
il dilagare dalla malattia americana importata in Italia con la
crisi, l’obesità da cibo spazzatura. “Ci raccontano che mangiano
la carne, ma comprano i wurstel da 90 centesimi l’uno, è tutto
grasso. Il pesce non lo comprano proprio, né prendono frutta e
verdura”: Fotini Iordanoglou (è di origine greca), nutrizionista,
si occupa di questa nuova emergenza tra i bambini che arrivano
nell’ambulatorio.
Nell’ultima misurazione
che hanno fatto dei loro pazienti, hanno registrato quasi un terzo di
bambini obesi. “Va un po’ meglio finché sono piccoli e hanno la
mensa a scuola, poi però con il passare degli anni si perdono,
mangiano male”. Soprattutto nell’età delle scuole medie, dove le
mense sono rarissime, nella capitale d’Italia. E i grandi numeri
confermano quello che risulta anche alle piccole statistiche fatte
dai medici dell’ambulatorio solidale, con tutti i rapporti
nazionali e internazionali che lanciano l’allarme dell’obesità
dei bambini in Italia.
Ma non ci sono solo gli
effetti della crisi sulla sanità e sulle sue grandezze economiche: i
tagli, la riduzione della spesa fai-da-te, la scarsa informazione, le
regioni sprofondate negli abissi dei debiti sanitari, le
discriminazioni specifiche e odiose (impossibile per uno straniero
senza permesso di soggiorno e senza contratto di lavoro avere il
pediatra di base per i figli). Ci sono anche, e probabilmente sono
destinati a durare di più, gli effetti della crisi sulle stesse
malattie. Che fanno crescere il peso di alcune patologie, in
particolare quelle psicologiche, e mettono alla prova un sistema che
se ne è sempre occupato poco e male.
L’elenco dei problemi
strettamente connessi con la crisi economica è sconfinato. Prima di
tutto quella che comunemente si etichetta come depressione
A metà 2014 l’Istat ha
pubblicato un rapporto sulla “tutela della salute e accesso alle
cure”, che traccia un bilancio delle grandi tendenze dal 2005 al
2013. Viene fuori che il peggioramento relativo delle fasce più
povere della popolazione non ha impedito che, in quegli anni,
migliorasse nella media la salute fisica, anche grazie ai progressi
nella ricerca e nelle cure. Mentre è netto il peggioramento della
salute mentale: quest’ultimo diminuisce in media di 1,6 punti, si
legge in quel rapporto. In particolare sono a rischio i giovani fino
ai 34 anni (-2,7 punti), soprattutto maschi, e gli adulti di 45-54
anni (-2,6). E sono molto colpiti dal peggioramento degli indici di
salute psicologica gli stranieri, donne e uomini.
Qui, l’elenco dei
problemi strettamente connessi con la crisi economica è sconfinato.
Prima di tutto quella che comunemente si etichetta come depressione,
“il problema di salute mentale più diffuso e più sensibile alla
crisi”. Poi nella rilevazione degli “eventi dolorosi”, i traumi
esterni che spesso sono all’origine di una malattia mentale grave:
sempre più spesso tra questi c’è la perdita del lavoro. E
l’insicurezza, l’ansia, la paura legate a un’incertezza
“cronica” sul futuro del lavoro, anche quando c’è. Nonché
l’impossibilità di pagarsi le cure: con la quale fanno i conti gli
stessi psicoanalisti e psicoterapeuti, che attraverso le loro
associazioni o per scelte singole individuali cercano di andare
incontro alle vittime della crisi (soprattutto i più giovani) ma che
restano sempre fuori dalla portata dei più.
È vero che, per la
generazione di “surfisti” che si è affacciata sul mercato del
lavoro con il nuovo millennio, anche prima della crisi, l’insicurezza
del lavoro e del reddito è una costante dell’orizzonte di vita, e
rapidissimo è stato lo sviluppo delle relative abilità, per
sopravvivere o anche per vivere bene. Ma sostituire un’identità e
un percorso professionale individuale che svolga il ruolo del vecchio
“posto di lavoro”, anche nel sostegno e suggello della propria
identità sociale, non è operazione facile e alla portata di tutti:
ancora una volta, divide tra i più forti e i più deboli, i più
equipaggiati e i più esposti. Senza contare la mancanza della
copertura per le malattie, che caratterizza la gran parte dei
contratti precari.
“internazionale”, 7
LUGLIO 2015
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