Pancrazio De Pasquale |
Su “Storia illustrata”
dell’agosto 1989 (diretta da Giuliano Ferrara, già apostata dal comunismo, ma non ancora ateo devoto del Papa e di Berlusconi) trovo una lunga intervista di Marcello Sorgi a
Paolo Bufalini, incentrata su vicende che fu per primo Pio La Torre,
nel libro Comunisti e movimento contadino in Sicilia, a far
conoscere diffusamente e che si conclusero sul finire del 1950 con la
condanna, l’autocritica e il trasferimento di Pancrazio De
Pasquale, uno dei giovani quadri intellettuali più brillanti e
lungimiranti del Pci siciliano.
Qualche anno fa la storia
fu raccontata da una nipote di De Pasquale, Antonina Alberti, che,
con il concorso delle lettere inviate dall’uomo politico alla
sorella, costruì un bel libro, L’epurato (Il melangolo,
2005), giocato sul conflitto irriducibile tra l’apertura al mondo
di un giovane rivoluzionario di grande cultura e sensibilità e le chiusure di un apparato
scolastico e conformista.
Questa lettura “individualistica” della
vicenda non mi convince. In verità, nel Pci siciliano, prima e dopo
il 18 aprile del 1948, tragico per i comunisti, molte erano le linee,
le istanze, le personalità di rilievo che si confrontavano. Per
avere un’idea della complessità politica e sociale di quel
dopoguerra isolano, massimamente per chi voleva cambiare il mondo,
basta, del resto, elencare alla rinfusa alcune parole-chiave del
dibattito: latifondo, riforma agraria, contadini, cooperazione
agricola, miniere, mafia, autonomia, separatismo.
Pancrazio De Pasquale,
che pure lavorò soprattutto a Palermo e nel Palermitano, ove era
segretario della federazione, venne per una riunione al mio paese,
Campobello di Licata, ove c’era un partito forte e un movimento contadino
organizzato e combattivo. Ce n’era traccia nei registri dei verbali
che, fino agli anni settanta, erano ancora conservati dalla sezione
e, più ancora, nella memoria di alcuni vecchi quadri contadini che
ne avevano fatto un mito. Era venuto in paese nel dicembre del 1947
ad illustrare il documento messo a punto per l’attività politica
del nuovo anno dal Comitato regionale e il cui titolo era
emblematico: Faremo il Quarantotto. Due testimoni di quella
riunione mi riferirono che De Pasquale, all'ipotesi che la mafia o i
carabinieri o qualche galantuomo odiatore dei villani, in occasione
dell'imminente manifestazione per la riforma agraria, potessero
imbastire una provocazione e creare qualche incidente, rispose che
alle provocazioni bisognava reagire, senza timore che ci scappasse il
morto: il paese doveva essere nelle mani del popolo lavoratore.
Il morto purtroppo ci fu. La massa dei contadini, guidata dai socialcomunisti, prese possesso della piazza senza reazioni delle forze dell'ordine guidate con prudenza. Non vi furono saccheggi e devastazioni; solo furono dati alle fiamme i mobili del circolo dei galantuomini, un vero e proprio covo della rendita parassitaria. Tutto lasciava sperare che, esaurito lo sfogo, i ribelli tornassero nelle loro povere case di gesso. Ma dalla sede della Dc, che dava sulla piazza e nessuno minacciava, un “eroico cittadino”, stretto parente di un importante capomafia, sparò sulla folla in tumulto e uno dei manifestanti cadde ucciso. Qualcuno si accorse che lo sparo veniva dalla sezione democristiana, sulle cui scale si riversò una fiumana di persone. I dirigenti frenavano, gridavano: “Non ammazzateli. Consegniamoli alla giustizia”. L'unico presente nella stanza, lo sparatore, non riuscì ad evitare le percosse dei più esagitati, ma i capi si misero in mezzo e gli salvarono la vita. Malconcio, quando uscì dall'ospedale, fece qualche giorno di gattabuia, ma dalla giustizia di classe non ebbe la condanna che i rossi speravano: non ricordo se fu condannato per eccesso colposo di legittima difesa o addirittura assolto. Al manifestante ucciso nel Quarantotto, comunista tesserato, fu dedicata la sezione comunale del Pci.
Il morto purtroppo ci fu. La massa dei contadini, guidata dai socialcomunisti, prese possesso della piazza senza reazioni delle forze dell'ordine guidate con prudenza. Non vi furono saccheggi e devastazioni; solo furono dati alle fiamme i mobili del circolo dei galantuomini, un vero e proprio covo della rendita parassitaria. Tutto lasciava sperare che, esaurito lo sfogo, i ribelli tornassero nelle loro povere case di gesso. Ma dalla sede della Dc, che dava sulla piazza e nessuno minacciava, un “eroico cittadino”, stretto parente di un importante capomafia, sparò sulla folla in tumulto e uno dei manifestanti cadde ucciso. Qualcuno si accorse che lo sparo veniva dalla sezione democristiana, sulle cui scale si riversò una fiumana di persone. I dirigenti frenavano, gridavano: “Non ammazzateli. Consegniamoli alla giustizia”. L'unico presente nella stanza, lo sparatore, non riuscì ad evitare le percosse dei più esagitati, ma i capi si misero in mezzo e gli salvarono la vita. Malconcio, quando uscì dall'ospedale, fece qualche giorno di gattabuia, ma dalla giustizia di classe non ebbe la condanna che i rossi speravano: non ricordo se fu condannato per eccesso colposo di legittima difesa o addirittura assolto. Al manifestante ucciso nel Quarantotto, comunista tesserato, fu dedicata la sezione comunale del Pci.
1 commento:
Come sempre puntuale e documentata la ricostruzione storica del fratellone. Ricordo che lavorai, anche sulla base di alcuni spunti di cui in questo scritto vediamo un cenno, ad una ricostruzione dei fatti di quel 21 dicembre, quando ad una festa dell'Unità credo fosse del 77 o 78 allestimmo una mostra fotografica sulla storia del PCI a Campobello di Licata.
Adesso che altri anni sono passati e che la magior parte dei protagonisti non c'è più e che si può meglio fare storia e meno cronaca, sarebbe interessante ricostruire la memoria storica della sinistra campobellese, dai fasci siciliani a Lillo Gueli.
Aiuterebbe tanti giovani a capire da dove vengono e quindi dove possono e dovrebbero andare...
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