Il testo che segue, una
lunga e interessante intervista a Giorgy Lukács, fu pubblicato in
inglese su «New Left Review» n. 68 del luglio-agosto 1971.
L'intervistatore, Perry Anderson, inglese, storico di vaglia e
professore all'Università di California (Los Angeles) ha diretto a
lungo la prestigiosa rivista, alla cui fondazione aveva partecipato
insieme ad altri storici come Hobsbawm e Thompson, ed è studioso
tra i maggiori del marxismo occidentale. (S.L.L.)
Giorgy Lukács |
I recenti eventi in
Europa hanno posto ancora una volta il problema del rapporto tra
socialismo e democrazia. Quali sono, secondo lei, le differenze
fondamentali tra democrazia borghese e democrazia rivoluzionaria
socialista?
La democrazia borghese
nasce con la Costituzione francese del 1793, la sua più alta e
radicale espressione. Il suo principio costituente è la divisione
dell’uomo nel citoyen della vita pubblica e nel bourgeois
della vita privata, il primo dotato di diritti politici universali,
il secondo espressione di particolari e differenti interessi
economici. Questa divisione è fondamentale per la democrazia
borghese quale fenomeno storicamente determinato. Il suo riflesso
filosofico si riscontra in de Sade. È interessante che scrittori
come Adorno si siano occupati di de Sade in quanto riflesso della
Costituzione del 1793. L’idea cardine, nell’un caso come
nell’altro, è che l’uomo sia un oggetto per l’uomo e l’egoismo
razionale sia l’essenza della società umana. Ora, è ovvio che
qualunque tentativo di ricreare nel socialismo questa forma
storicamente superata di democrazia sia una regressione e un
anacronismo. Ciò non significa però che le aspirazioni alla
democrazia socialista debbano essere affrontate in ottica
amministrativa. Il problema della democrazia socialista è un
problema reale che non è stato ancora risolto, poiché essa deve
essere materialista e non idealista. Mi permetta di fare un esempio.
Un uomo come Guevara fu un rappresentante eroico degli ideali
giacobini, le sue idee impregnarono la sua vita e la modellarono
completamente. Egli non fu il primo caso nel movimento
rivoluzionario. Leviné in Germania o Ottó Korvin qui in Ungheria
vissero e agirono alla stessa maniera. Bisogna nutrire un profondo
rispetto verso una nobiltà umana di questo tipo. Ma il loro
idealismo non è quello del socialismo della vita quotidiana, che
deve avere una base materiale e fondarsi sulla costruzione di una
nuova economia. Tuttavia devo subito precisare che lo sviluppo
economico in sé non produrrà mai il socialismo. La dottrina di
Chruščëv, secondo la quale il socialismo avrebbe trionfato su
scala mondiale quando gli standard di vita dell’URSS avessero
superato quelli degli USA, era completamente sbagliata. Il problema
deve essere posto in un modo radicalmente opposto. Si può formularlo
così: il socialismo è la prima formazione economica nella storia
che non produce spontaneamente il suo corrispondente “uomo
economico”. Questo perché è una formazione di transizione, un
interludio nel passaggio dal capitalismo al comunismo. Ora, poiché
l’economia socialista non produce e riproduce spontaneamente l’uomo
ad essa corrispondente, come la società capitalista generò il suo
homo oeconomicus, cioè la divisione citoyen/bourgeois
del 1793 e di de Sade, la funzione principale della democrazia
socialista è l’educazione dei suoi membri al socialismo. Questa
funzione non ha precedenti né analoghi nella democrazia borghese. È
evidente che ciò che oggi sarebbe necessario è la rinascita dei
soviet, il sistema di democrazia socialista che sorge ogni volta che
si ha una rivoluzione proletaria: la Comune di Parigi nel 1871, la
Rivoluzione russa del 1905 e la stessa Rivoluzione di Ottobre. Ma ciò
non si realizza nottetempo. Il problema è che gli operai qui sono
indifferenti: inizialmente essi non credono in nulla.
Un problema al tal
rispetto riguarda l’emergenza storica dei cambiamenti necessari.
Nei recenti dibattiti filosofici qui si è molto discusso sulla
questione della continuità e della discontinuità nella storia. Io
mi sono espresso decisamente per la discontinuità. Voi conoscete già
la classica tesi conservatrice di Toqueville e Taine secondo la quale
la Rivoluzione francese non fu affatto un cambiamento fondamentale
nella storia francese, perché essa continuava la tradizione
accentratrice dello Stato francese, che fu dominante sotto l’ancien
régime con Luigi XIV, e fu accentuata da Napoleone e poi durante
il Secondo Impero. Questa visione della storia, all’interno del
movimento rivoluzionario, fu decisamente rigettata da Lenin. Egli non
presentò mai i cambiamenti fondamentali e i nuovi inizi come
semplice continuazione e progressi delle tendenze antecedenti. Per
esempio, quando egli annunciò la nuova politica economica, non
sostenne mai che questa fosse lo sviluppo o il coronamento del
comunismo di guerra. Lenin disse chiaramente che il comunismo di
guerra fu un errore, comprensibile se riportato alle circostanze del
tempo, e che la NEP era una correzione di tale errore e un nuovo
cambio di corso. Questo metodo leninista fu abbandonato dallo
stalinismo, che cercò sempre di presentare i cambiamenti politici –
anche quello più importante – come la conseguenza logica dei
miglioramenti della linea precedente. Lo stalinismo rappresenta tutta
la storia socialista come un continuo e corretto sviluppo; non
ammetterebbe mai la discontinuità. Oggi, tale questione è vitale
quanto mai, in particolar modo per affrontare la sopravvivenza dello
stalinismo. La continuità con il passato dovrebbe essere enfatizzata
all’interno di una prospettiva di miglioramenti o, al contrario, la
via del progresso deve consistere in una rottura profonda con lo
stalinismo? Io credo che la rottura completa sia necessaria. Per
questo il problema della discontinuità nella storia mi sembra
importante.
Applicherebbe
questo punto di vista anche anche al suo sviluppo filosofico? Come
giudica i suoi scritti degli anni Venti? Che relazione hanno con i
suoi lavori di oggi?
Negli anni Venti, Korsch,
Gramsci e io tentammo, ognuno a suo modo, di confrontarci con il
problema della necessità sociale e con la sua interpretazione
meccanicistica, eredità della Seconda Internazionale. Ereditammo il
problema, ma nessuno nessuno di noi – nemmeno Gramsci, che fu forse
il migliore tra noi – riuscì a risolverlo. Ci sbagliammo e sarebbe
un errore oggi tentare di far rivivere le opere di quel tempo come se
fossero valide anche oggi. In Occidente c’è la tendenza a erigerle
come “classici dell’eresia”, ma non ne abbiamo bisogno oggi.
Gli anni Venti sono un’epoca passata; quello che ci riguarda sono i
problemi degli anni Sessanta. Sto lavorando a un’ontologia
dell’essere sociale che spero risolverà il problema che affrontai
in modo sbagliato nei miei primi lavori, in special modo in Storia
e coscienza di classe. La mia nuova opera si concentra sul
rapporto tra necessità e libertà, o, come mi esprimo io, tra
teleologia e causalità. Tradizionalmente, i filosofi hanno sempre
basato i loro sistemi su uno o l’altro dei due poli; o hanno negato
la necessità o la libertà umana. Il mio intento è mostrare
l’ontologica interrelazione dei due termini, e rifiutare l’aut-aut
cui i filosofi hanno ricorso per rappresentare l’uomo. Il concetto
di lavoro è il cardine delle mie analisi, poiché il lavoro non è
biologicamente determinato. Se un leone attacca un’antilope, il suo
comportamento è determinato da un bisogno biologico e solo da
questo. Ma se l’uomo primitivo si trova davanti a un mucchio di
pietre, egli deve scegliere tra esse, giudicando quale sarà la più
adatta da usare come strumento; egli sceglie tra alternative. La
nozione di alternativa è fondamentale per il concetto di lavoro
umano, che è perciò sempre teleologico – egli pone uno scopo, che
è il risultato di una scelta. In essa quindi si esprime la libertà
umana. Ma questa libertà esiste solo mettendo in moto forze fisiche
oggettive, che obbediscono alle leggi della causalità dell’universo
materiale. La teleologia del lavoro è dunque sempre coordinata con
la causalità fisica, e, di fatto, il risultato di ogni altro lavoro
individuale è un momento della causalità fisica per la posizione
teleologica (Setzung) di ogni altro individuo. La fede nella
teleologia della natura è teologia, e la fede in una teleologia
nella storia è infondata. Ma c’è una teleologia in ogni lavoro
umano, inestricabilmente inserita nella causalità del mondo fisico.
Questa posizione, che è il nucleo dal quale si sviluppa il mio
lavoro attuale, supera la classica antinomia tra necessità e
libertà. Ma vorrei sottolineare che non sto tentando di costruire un
sistema onnicomprensivo. Il titolo della mia opera – che è pronta,
benché io stia rivedendo i primi capitoli – è Per un ontologia
dell’essere sociale, e non L’ontologia dell’essere
sociale. Coglierete la differenza. Il compito in cui sono
impegnato necessiterà un lavoro collettivo di molti pensatori per il
suo reale sviluppo. Ma spero che mostrerà le basi ontologiche del
socialismo della vita quotidiana di cui ho parlato prima.
L’Inghilterra è
l’unico grande paese europeo senza una tradizione filosofica
marxista nativa. Lei hai scritto in modo esteso di uno dei momenti
della sua storia culturale, l’opera di Walter Scott; ma come vede
il più ampio sviluppo della storia politica e intellettuale
britannica e i suoi rapporti con con la cultura europea
dall’Illuminismo in poi?
La storia britannica è
stata vittima di ciò che Marx chiamò sviluppo ineguale. Il
radicalismo della rivoluzione di Cromwell e poi la rivoluzione del
1688, e i loro successi nel garantire le relazioni capitaliste tra
città e campagna, divennero la causa del posteriore ritardo
dell’Inghilterra. Credo che la vostra rivista abbia sottolineato
abbastanza l’importanza storica dell’agricoltura capitalista in
Inghilterra e le sue conseguenze paradossali per il successivo
sviluppo inglese. Ciò si può constatare assai chiaramente nello
sviluppo culturale inglese. Il dominio dell’empirismo come
ideologia della borghesia nasce solo dopo il 1688, ma raggiunge un
potere straordinario da allora in poi, stravolgendo la precedente
storia della filosofia e dell’arte inglese. Si prenda Bacone, per
esempio. Egli fu un grande pesatore, molto più grande di Locke, al
quale in seguito la borghesia diede molta importanza. Ma la sua
importanza fu interamente offuscata dall’empirismo inglese, e oggi
se vuoi studiare ciò che Bacone fu per l’empirismo, devi prima
studiare cosa l’empirismo ha compreso di Bacone, il che è alquanto
differente. Marx era un grande ammiratore di Bacone, come è noto. Lo
stesso accadde con un altro grande pensatore inglese, Mandeville.
Egli fu successore di Hobbes, ma la borghesia inglese lo trascurò
del tutto. Scoprirete invece Marx citarlo nelle Teorie del
Plusvalore. Questa cultura inglese radicale del passato fu
oscurata e ignorata. Al suo posto, Eliot e altri preferirono e
attribuirono un’importanza esagerata ai poeti metafisici – Donne,
ecc. – che sono molto meno importanti per lo sviluppo della storia
della cultura umana. Un altro episodio rivelatore è il destino di
Scott. Ho scritto sull’importanza di Scott nel mio libro Il
romanzo storico, noterete che è il primo romanziere che capì
che gli uomini vengono modificati dalla storia. Questa fu una
scoperta straordinaria e come tale fu immediatamente percepita da
grandi scrittori europei come Puškin in Russia, Manzoni in Italia e
Balzac in Francia. Tutti loro videro l’importanza di Scott e
impararono da lui. La cosa curiosa, tuttavia, è che in Inghilterra
Scott non ebbe seguaci. Venne assai poco compreso e dimenticato. C’è
stata perciò una frattura nell’intero sviluppo della cultura
inglese, che è assai visibile negli scrittori radicali successivi
come Shaw. Shaw non ebbe radici nella cultura inglese del passato,
perché la cultura inglese del diciannovesimo secolo fu amputata
della sua preistoria radicale. Questa è la grande debolezza di Shaw.
Oggi gli intellettuali
inglesi non soltanto devono importare il marxismo dall’estero, ma
devono ricostruire una nuova storia della loro cultura: questo è un
compito indispensabile che solo loro possono compiere. Ho scritto di
Scott, e Ágnes Heller su Shakespeare, ma sono gli inglesi che
essenzialmente devo riscoprire l’Inghilterra. Anche da noi in
Ungheria sono circolate molte mistificazioni sul nostro “carattere
nazionale”, come da voi in Inghilterra. Una vera storia della
vostra cultura distruggerà queste mistificazioni. In ciò forse
sarete aiutati dalla profondità della crisi politica ed economica
inglese, prodotto di quello sviluppo ineguale di cui ho parlato
prima. Wilson è senza dubbio uno dei più astuti opportunisti
politici borghesi, eppure il suo governo è stato un totale e
disastroso fallimento. Anche questo è il segno della profondità e
inestricabilità della crisi inglese.
Come vede oggi i suoi
primi lavori critico-letterari, in particolar modo Teoria del
romanzo? Quale fu il suo significato storico?
Teoria del romanzo
fu l’espressione della mia disperazione durante la Prima guerra
mondiale. Quando la guerra scoppiò, dissi che la Germania e
l’Austro-Ungheria avrebbero probabilmente sconfitto la Russia e
distrutto lo zarismo, il che era buono. La Francia e l’Inghilterra
avrebbero probabilmente sconfitto la Germania e l’Austro-Ungheria e
distrutto gli Hohenzollern e gli Asburgo, il che era buono. Ma chi ci
avrebbe difeso alla cultura inglese e francese? La mia disperazione a
questa domanda non trovò risposta, e questo è il retroterra di
Teoria del romanzo. Naturalmente l’Ottobre diede la
risposta. La rivoluzione russa fu la soluzione storico-mondiale al
mio dilemma: impedì quel trionfo della borghesia francese e inglese
che tanto temevo. Ma devo dire che Teoria del romanzo, pur con
tutti i suoi errori, previde il crollo di quella cultura che
analizzava. Capì il bisogno di un cambiamento rivoluzionario.
A quel tempo lei era
amico di Max Weber. Come lo giudica ora? Il suo collega Sombart alla
fine divenne un nazista; crede che Weber, se fosse vissuto, avrebbe
potuto conciliarsi con il nazionalsocialismo?
No, mai. Deve capire che
Weber fu assolutamente una persona onesta. Egli aveva in gran
disprezzo l’imperatore, per esempio. Ci diceva spesso in privato
che la grande sfortuna della Germania fu che, diversamente dagli
Stuart o dai Borboni, nessuno degli Hohenzollern fosse stato
decapitato. Può immaginare quanto fosse inusuale che un professore
tedesco dicesse simili cose nel 1912. Weber fu molto diverso da
Sombart; egli non fece alcuna concessione all’antisemitismo, per
esempio. Mi permetta di raccontarle un aneddoto, tipico di Weber. Gli
fu chiesto una volta da una università tedesca di inviare le sue
raccomandazioni per assegnare una cattedra in quella università –
erano in procinto di una nuova nomina. Weber rispose dando tre nomi
in ordine di merito. Poi aggiunse: ognuna delle tre indicazioni
sarebbe un’ottima scelta – sono tutti eccellenti; ma voi non
sceglierete nessuno di loro, perché sono tutti ebrei. Così aggiungo
una lista di altri tre nomi, nessuno dei quali vale quanto gli altri
che ho segnalato, e voi senza dubbio sceglierete uno di loro, perché
non sono ebrei. Ma nonostante ciò, si deve ricordare che Weber fu un
convinto imperialista, il cui liberismo si basava unicamente sul suo
credo secondo il quale un efficiente imperialismo fosse necessario e
che solo il liberismo avrebbe potuto garantire tale efficienza. Egli
fu un nemico giurato delle rivoluzioni di Ottobre e Novembre. Fu
tanto uno straordinario studioso quanto un profondo reazionario.
L’irrazionalismo che inizia con il tardo Schelling e con
Schopenauer ha in lui una delle sue massime espressioni.
Come reagì alla sua
conversione alla rivoluzione d’ottobre?
Pare che abbia detto che
per Lukács il cambiamento doveva essere stato una profonda
trasformazione di convinzioni e di idee, mentre per Toller solo
confusione di sentimenti. Ma non ho più avuto rapporti con lui da
allora in poi.
Dopo la guerra, lei ha
partecipato alla Comune ungherese come commissario dell’educazione.
Qual è una possibile valutazione dell’esperienza della Comune
oggi, cinquant’anni dopo?
La causa essenziale della
Comune fu la “Nota Vyx” e la politica dell’Intesa verso
l’Ungheria. A tal riguardo, la Comune ungherese è paragonabile
alla rivoluzione russa, dove la questione della fine della guerra
ebbe un peso determinante nello scoppio della rivoluzione d’ottobre.
Una volta consegnata la Nota Vyx, la sua conseguenza fu la Comune. I
socialdemocratici in seguito ci attaccarono per la creazione della
Comune, ma a quel tempo, dopo la guerra, non v’era alcuna
possibilità di rimanere all’interno dei confini dello schema della
politica borghese; era necessario che esplodesse.
Dopo la sconfitta
della Comune, lei è stato delegato al Terzo congresso del Comintern
a Mosca. Vi incontrò leader bolscevichi? Che impressione le fecero?
Guardi, bisogna
ricordarsi che io ero un piccolo membro di una piccola delegazione;
io non non ero in alcun modo una figura importante a quel tempo, e
quindi naturalmente non ebbi lunghe conversazioni con i leader del
partito russo. Ciononostante, sono stato presentato a Lenin da
Lunačarskij. Mi affascinò completamente. Potevo anche osservarlo al
lavoro nella commissione del Congresso, naturalmente. Devo dire che
trovai antipatici gli altri leader bolscevichi. Trotsky non mi
piacque sin da subito: pensavo fosse un poseur. C’è un
passaggio nelle memorie di Gorkij su Lenin, sa, dove Lenin dopo la
rivoluzione, riconosciuti i risultati organizzativi durante la Guerra
civile, dice che Trotsky ha qualcosa di Lassalle. Zinov’ev, il cui
ruolo nel Comintern ebbi modo di conoscere meglio in seguito, fu solo
un manipolatore politico. Il mio giudizio su Bucharin può essere
letto nel mio articolo del 1925, dove critico il suo marxismo – a
quel tempo era, dopo Stalin, l’autorità russa nelle questioni
teoriche. Nemmeno Stalin riesco a ricordare – come molti altri
comunisti stranieri non avevo alcuna idea della sua importanza nel
partito russo. Parlai con Radek per un po’. Mi disse che ciò che
avevo scritto sull’azione di marzo era la cosa migliore che fosse
mai stata scritta in proposito e che lo approvava completamente.
Dopo, naturalmente, cambiò opinione quando il partito condannò
l’azione di marzo, e lui quindi lo condannò pubblicamente. Contrariamente a tutti
gli altri, Lenin mi fece un enorme impressione.
Quale fu la sua
reazione quando Lenin attaccò il suo articolo sulla questione del
parlamentarismo?
Il mio articolo era
completamente sbagliato e abbandonai le sue tesi senza esitazione. Ma
devo aggiungere che lessi Estremismo: malattia infantile del
comunismo di Lenin prima della sua critica al mio articolo, e mi
convinsi delle sue posizioni sulla questione della partecipazione
parlamentare già allora: sicché la sua critica al mio articolo non
cambiò molto in me. Sapevo già che era sbagliato. Forse ricorderà
cosa disse Lenin in quell’opera, ossia che i parlamenti borghesi
erano stati completamente superati nel senso della storia mondiale
con la nascita degli organi rivoluzionari del potere proletario, i
soviet, ma che ciò non significava affatto che fossero stati
superati nell’immediato senso politico, perché le masse
dell’occidente non confidavano ancora nei soviet. Per cui i
comunisti dovevano lavorare sia dentro che fuori dei parlamenti.
Nel 1928-29 lei
propose il concetto di dittatura democratica dei lavoratori e dei
contadini come fine strategico del partito comunista ungherese del
tempo, le famose “Tesi di Blum” per il terzo congresso del PCU.
Le tesi furono rigettate come opportuniste e lei fu espulso dal
Comitato centrale. Come le giudica ora?
Le Tesi di Blum furono la
mia azione di retroguardia contro il settarismo del “Terzo
periodo”, che affermava essere gemelli fascismo e democrazia.
Questa linea disastrosa fu accompagnata, come sa, dallo slogan
“classe contro classe” e dalla previsione dell’immediata
instaurazione della dittatura del proletariato. Ripristinando e
adattando lo slogan di Lenin del 1905 – dittatura democratica dei
lavoratori e dei contadini – cercai di trovare un appiglio nella
linea del sesto congresso del Comintern, attraverso il quale potevo
portare il partito ungherese su una politica più realistica. Non
ebbi successo. Le Tesi di Blum furono condannate dal partito, e Béla
Kun e la sua fazione mi espulsero dal comitato centrale. Ero
completamente solo dentro il partito; deve figurarsi che non convinsi
nemmeno coloro che dentro il partito condividevano le mie posizioni
nella battaglia contro il settarismo di Kun. Così feci
un’auto-critica delle tesi. Ciò era assolutamente cinico: mi era
imposto dalle circostanze del tempo. Non ho cambiato opinione e in
verità sono ancora convinto che allora avessi ragione. Il periodo
del 1945-48 in Ungheria fu la concreta realizzazione della dittatura
democratica dei lavoratori e dei contadini che avevo sostenuto nel
1929. Dopo il 1948, naturalmente, lo stalinismo creò qualcosa di
molto differente, ma questa è un’altra storia.
Quali furono le sue
relazioni con Brecht negli anni Trenta, e dopo la guerra? Come
giudica la sua figura?
Brecht fu un vero grande
poeta, e i suoi ultimi drammi – Madre Coraggio, L’anima
buona di Sezuan e altri – sono eccellenti. Naturalmente, le sue
teorie estetiche e drammatiche erano assai confuse e sbagliate. Ho
avuto modo di spiegarlo ne Il significato attuale del realismo
critico. Ma esse non cambiano la qualità dei suoi ultimi lavori.
Nel 1931-33 ero a Berlino e lavoravo all’Unione degli scrittori. A
quel tempo – metà anni Trenta, per essere precisi – Brecht
scrisse un articolo contro di me, in difesa dell’espressionismo. Ma
dopo, quando ero a Mosca, Brecht venne a visitarmi nel suo viaggio
dalla Scandinavia agli Stati Uniti – viaggiò attraverso l’Unione
Sovietica in quel viaggio – e mi disse: Ci sono alcune persone che
stanno tentando di mettermi contro di te, e alcune che tentano di
metterti contro di me. Facciamo un accordo, non immischiamoci nelle
beghe altrui. Per questo motivo abbiamo sempre avuto buone relazioni,
e dopo la guerra ogni volta che andavo a Berlino – molto spesso –
andavo sempre a trovare Brecht, abbiamo avuto lunghe discussioni
insieme. Alla fine le nostre posizioni erano molto vicine. Sa, sono
stato invitato da sua moglie a parlare al suo funerale. Una cosa che
mi dispiace è non aver mai scritto un saggio su Brecht negli anni
Quaranta. Ho sempre avuto grande rispetto per Brecht. Egli era molto
intelligente e aveva un grande senso della realtà. In ciò era
veramente diverso da Korsch, che conobbe bene, naturalmente. Quando
Korsch lasciò il partito tedesco, troncò ogni legame col
socialismo. Lo so perché non fu gli mai possibile collaborare al
lavoro dell’Unione degli scrittori nella battaglia antifascista
nella Berlino del tempo – il partito non lo avrebbe permesso.
Brecht era abbastanza differente. Sapeva che niente poteva essere
fatto contro l’URSS, alla quale rimase leale per tutta la vita.
Conobbe Walter
Benjamin? Crede che, se fosse vissuto, avrebbe teso a un impegno
rivoluzionario al marxismo?
No, per un motivo o per
un altro non ho mai incontrato Benjamin, sebbene avessi incontrato
Adorno a Francoforte nel 1930 quando vi passai per andare in Unione
Sovietica. Benjamin era estremamente dotato, e si addentrò
profondamente in molti problemi nuovi. Li esplorò in modi diversi,
ma non venne mai a capo. Credo che il suo sviluppo, se fosse vissuto,
sarebbe stato molto incerto, nonostante la sua amicizia con Brecht.
Bisogna ricordare quanto fossero difficili quei tempi – le purghe
degli anni Trenta e poi la Guerra fredda. Adorno in quel clima
divenne l’esponente del “conformismo non conformista”.
Dopo la vittoria del
fascismo in Germania, lei ha lavorato all’Istituto Marx-Lenin in
Russia con Ryazanov. Cosa fece lì?
Quando fui a Mosca nel
1930, Ryazanov mi mostrò i manoscritti che Marx compose a Parigi nel
1844. Può immaginare la mia eccitazione: leggere quei manoscritti
cambiò la mia intera relazione col marxismo e trasformò le mie
prospettive filosofiche. Uno studioso tedesco dall’Unione sovietica
stava lavorando sui manoscritti, sistemandoli per la loro
pubblicazione. I topi avevano assalito i manoscritti e c’erano
molte parti in cui lettere o addirittura parole mancavano. Grazie
alla mia conoscenza filosofica, lavorai con lui, stabilendo quali
erano le lettere o le parole mancanti: spesso si trovavano parole
inizianti, diciamo, con “g” e terminanti con “s” e non si
sapeva cosa vi stava in mezzo. Credo che l’edizione che alla fine
venne fuori fu abbastanza buona – posso dirlo perché ho
collaborato all’edizione. Ryazanov fu responsabile di questo lavoro
e fu un grande filologo: non un teorico, ma un grande filologo. Dopo
la sua rimozione, il lavoro all’Istituto scemò del tutto. Ricordo
mi disse che c’erano dieci volumi dei manoscritti di Marx per Il
capitale che non erano mai stati pubblicati; Engels, certo, nella
sua introduzione al secondo e terzo volume disse che erano solo una
selezione dei manoscritti su cui Marx stava lavorando. Ryazanov
predispose la pubblicazione di tutto questo materiale. Ma fino ad
oggi non è mai apparso nulla.
Agli inizi degli anni
Trenta, ci furono naturalmente dei dibatti filosofici in URSS, ma io
non vi partecipai. Ci fu un dibattito dove il lavoro di Deborin fu
criticato, allora pensai giustamente, ma lo scopo di tale critiche
era solo quello di imporre la preminenza di Stalin come filosofo.
Però lei ha
partecipato ai dibattiti letterari degli anni Trenta in Unione
Sovietica.
Collaborai alla rivista
“Literaturnyj Kritik” per sei o sette anni, e portammo avanti una
coerente battaglia contro il dogmatismo di quegli anni. Fadeyev e
altri hanno combattuto e vinto la RAPP in Russia, ma solo perché
Averbakh e altri nella RAPP erano trotzkisti. Dopo la loro vittoria,
iniziarono a sviluppare la loro forma di “rappismo”.
“Literaturnyj Kritik” ha sempre resistito a questa tendenza.
Scrissi molti articoli per la rivista, ognuno dei quali aveva due o
tre citazioni di Stalin – il che era una insormontabile necessità
nella Russia di allora – e ognuna della quali era diretta contro la
concezione stalinista della letteratura. Il loro contenuto era sempre
mirato contro il dogmatismo di Stalin.
Per dieci anni lei è
stato molto attivo politicamente, dal 1919 al 1929, poi ha
abbandonato del tutto l’attività politica diretta. Questo è un
cambiamento enorme per ogni convinto marxista. Si sentì limitato (o
forse liberato) dal cambiamento improvviso della sua carriera nel
1930? Come si lega questa fase della sua vita con la sua adolescenza
e giovinezza? Quali furono le sue influenze allora?
Non ho alcun rimpianto
per la fine della mia carriera politica. Vede, io ero profondamente
convinto di avere ragione nelle dispute intestine del partito nel
1928-29, niente mi indusse a cambiare idea in merito; eppure avevo
fallito nel tentativo di convincere il partito della bontà delle mie
idee. Così pensai: se pur avendo ragione, sono stato totalmente
sconfitto, ciò significa che non ho alcuna abilità politica. Così
senza difficoltà rinunciai all’attività politica pratica, decisi
che non ero assolutamente dotato. La mia espulsione dal comitato
centrale del partito ungherese in nessun modo alterò la mia
convinzione che anche con la disastrosa e settaria politica del Terzo
periodo, si potesse effettivamente lottare contro il fascismo
all’interno dei ranghi del movimento comunista. Non ho mai cambiato
idea su questo punto. Ho sempre pensato che la peggiore forma di
socialismo fosse meglio della vita nella migliore forma di
capitalismo.
In seguito, la mia
partecipazione al governo Nagy nel 1956 non contraddisse la mia
rinuncia all’attività politica. Non condivisi l’approccio
politico generale di Nagy, e quando i giovani tentarono di farci
riconciliare come ai giorni prima dell’ottobre, io replicai: “La
distanza tra me e Imre Nagy non è più grande di quella che c’è
tra Imre Nagy e me”. Quando mi fu chiesto di essere ministro della
cultura nell’ottobre 1956, fu una questione morale per me, non
politica, e non potei rifiutare. Quando fummo arrestati e rinchiusi
in Romania, i compagni dei partiti ungherese e rumeno vennero da me e
mi chiesero di esprimere il mio giudizio sulle politiche di Nagy,
conoscendo già il mio disaccordo con esse. Dissi loro: “Quando
sarò un uomo libero per le strade di Budapest ed egli lo sarà pure,
allora sarò felice di darvi il mio giudizio su di lui in modo franco
e disteso. Ma fintanto che egli rimarrà imprigionato, il mio unico
rapporto con lui è di solidarietà”.
Mi ha chiesto quali
furono i miei sentimenti quando abbandonai la carriera politica. Devo
dire che forse non sono un vero uomo contemporaneo. Posso dire che
non ho mai provato frustrazione o alcun tipo di complesso nella mia
vita. So cosa significa ciò, conosco la letteratura del XX secolo e
ho letto Freud. Ma non li ho mai vissuto personalmente. Ogni volta
che mi capitava di sbagliare o prendere false direzioni, sono sempre
stato disposto a riconoscerlo, non mi è costato molto farlo, così
da prendere altre strade. Quando avevo 15 o 16 anni scrissi dei
drammi moderni alla maniera di Ibsen e Hauptmann. Quando avevo 18
anni li lessi e li trovai irrimediabilmente brutti. Decisi allora che
non sarei mai diventato uno scrittore e bruciai quei drammi. Non ho
alcun rimpianto. Quelle prime esperienze furono utili per me dopo,
come critico; ogni volta che dicevo di un testo che avrei voluto
scriverlo io, allora capivo che quella era una prova inconfutabile
della sua bruttezza: era un criterio alquanto affidabile. Questa fu
la mia prima esperienza letteraria. Le mie prime influenze politiche
furono la lettura di Marx da studente, e poi, più importante di
tutte, la lettura del grande poeta ungherese Ady. Ero un ragazzo
assai isolato tra i miei contemporanei, e la lettura di Ady ebbe un
grande impatto su di me. Egli fu un rivoluzionario entusiasta di
Hegel, sebbene non avesse mai accettato quell’aspetto di Hegel che
anche io, sin dall’inizio, ho sempre rifiutato: la sua sua
Versöhnung mit der Wirklichkeit – cioè la sua
riconciliazione con la realtà data. È una grande debolezza della
cultura inglese il fatto che non ci sia stata alcuna familiarità con
Hegel. Fino a oggi ho mantenuto la mia ammirazione per lui, e credo
che il lavoro che Marx iniziò – la “materializzazione” della
filosofia di Hegel – debba essere perseguito anche oltre Marx. Ho
tentato di farlo io in alcuni passaggi della mia imminente ontologia.
Quando tutto sarà detto e fatto, ci saranno solo tre veri grandi
pensatori in occidente, incomparabili con tutti gli altri:
Aristotele, Hegel e Marx.
Dal sito
“gyorgylukacs.wordpress.com/” 9 gennaio 2015
trad. it. di
gyorgylukacs.wodpress.com
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