8.8.15

Ricerca biomedica. Farmitalia occasione mancata (Sergio Luzzatto)

Non ho letto il libro di Minerva e Monfardini di cui qui si discorre e tuttavia la tesi che il recensore pare non condividere, sul nesso tra la fine di Farmitalia e il decadere della ricerca biomedica in oncologia e in altri campi, a me pare convincente. Il percorso in qualche modo inverso qui suggerito (“si potenzi la ricerca, poi arriverà l'industria”) trova il suo limite nella grande mobilità internazionale dei ricercatori, che – per quanto formati in Italia – difficilmente resisterebbero al richiamo delle multinazionali del farmaco. Una politica di sviluppo dovrebbe vedere crescere insieme ricerca e produzione e gli investimenti pubblici dovrebbero riguardare l'uno e l'altro settore. Dire cose di questo genere, immaginando uno Stato che torni a essere imprenditore, significa violare un tabù in tempo di neoliberismo imperante, ma a me sembra la via da percorrere, se si vuole conservare e rilanciare una tradizione che sembra tuttora produrre qualche frutto fuori stagione.
Una seconda considerazione, su Ignazio Marino, che viene citato come persona competente, in grado di promuovere positive politiche nel campo della ricerca. Le ambizioni del Marino, frustrate nella aspirazione a un impegno governativo, di ministro o sottosegretario, si sono orientate verso il Campidoglio e l'amministrazione di Roma, piena di incrostazioni di potere su cui l'intervento del sindaco è apparso ai più deficitario. Come dire che in questo benedetto paese a nessuno riesce di fare le cose di cui s'intende. (S.L.L.)
Un libro che racconta gli esordi dell’oncologia medica contemporanea in Italia è di interesse non solo per oncologi. Oltre che interessante, Il bagnino e i samurai (Daniela Minerva & Silvio Monfardini, Codice, Torino, 2012) è anche originale, perché il suo filo conduttore è una tesi ben precisa: che ci sia un nesso significativo tra la decadenza dell’industria farmaceutica e il destino della ricerca bio-medica in questo paese. Silvio Monfardini, uno dei due autori, che scrive di sé in terza persona, è uno dei samurai: è contagioso il suo entusiasmo per i tempi eroici che ha vissuto nel gruppo d’avanguardia guidato da Gianni Bonadonna all’Istituto nazionale tumori (Int) di Milano; e la sua nostalgia è a tratti un po’ malinconica. L’altro autore del libro è Daniela Minerva, una dei migliori tra i nostri giornalisti nel settore sanità e ricerca scientifica.
Farmitalia, divenuta nel 1978 Farmitalia-Carlo Erba controllata della Montedison (che era nata nel 1966 dalla fusione tra Montecatini ed Edison) e che era collegata con Eni in Eni-Mont, aveva acquisito rinomanza internazionale con l’adriamicina, a tutt’oggi uno dei più importanti farmaci anti-tumorali. È narrata con verve la storia degli ultimi anni di Farmitalia, fino al triste epilogo nel 1993: fu venduta a Kabi-Pharmacia (Svezia), e gestore dell’affare fu Carlo Sama, popolare sulle spiagge adriatiche e detto perciò il bagnino. La prima impressione del lettore è che l’epiteto sia ingiusto nei confronti dei bagnini, che tante volte salvano vite: è difficile a credere che lo scopo di Sama fosse salvare la Montedison, il cui indebitamento era circa 20 volte il prezzo di vendita di Farmitalia. Se abbia avuto più peso l’indifferenza, o l’incompetenza, o l’avidità, o lo stato di necessità, o quali secondi fini potessero esservi non è dato di sapere. Certo è invece che la perdita di un centro che aveva avuto grande successo annunciò il collasso dell’industria farmaceutica italiana.
Altra questione è in quale misura questo evento ed altre vicende storiche nel libro ben lumeggiate - come quelle dell’Istituto Superiore di Sanità - abbiano causato un declino della ricerca biomedica in generale. Certamente quando un laboratorio che sviluppa nuovi farmaci è fisicamente vicino a un’istituzione che subito li utilizza nella cura dei propri pazienti, l’uno e l’altra possono mirabilmente fecondarsi a vicenda, come è successo per il connubio adriamicina-Int: un caso molto fortunato. Sulla fortuna però non si può contare: di solito, quando per una certa malattia ha un farmaco candidato, un’industria farmaceutica si mette in contatto con chiunque nel mondo abbia l’esperienza clinica specificamente pertinente, e perciò i rispettivi Pazienti. Inoltre, la sperimentazione di laboratorio e clinica dei farmaci anti-tumorali è importantissima, ma è solo una piccola parte dell’universo della ricerca biomedica: che questa sia sofferente in Italia è sotto gli occhi di tutti, ma i motivi - immobilità dei docenti e dei ricercatori, baronie accademiche potenti e con tendenze ereditarie, finanziamenti tra i più bassi in Europa e finora quasi sempre senza peer review - sono ben più profondi che il declino dell’industria farmaceutica. Infine, secondo me il paradosso più eclatante della ricerca biomedica italiana è che produce, malgrè tout, e non si sa bene come, risultati di buon livello che la pongono ai primi 4-5 posti in Europa, davanti a paesi che investono di più. Ciò è vero per esempio in genetica, in biochimica, in immunologia e, per tornare al tema centrale del libro, in onco-ematologia: quella italiana è tra le migliori, mentre anche l’oncologia non sfigura per nulla, come del resto ben illustrato in un successivo capitolo di questo libro. Se poi consideriamo un settore di biotecnologia avanzata, come la terapia genica, il Tiget al San Raffaele è all’avanguardia mondiale, come testimoniato da due recenti articoli in Science.
Dove sono nuovamente e pienamente d’accordo con gli autori è nella critica ai nostri 47 Irccs (12 dei quali oncologici): se tutti questi fossero davvero dedicati in primis alla ricerca dovremmo essere all’avanguardia del mondo. Invece gli Irccs sono organizzati come gli altri ospedali: hanno in più soltanto un bollino di prestigio e un po’ di soldi extra. In altri paesi sarebbe impensabile che il direttore scientifico di un istituto scientifico non abbia potere decisionale nell’assunzione dei ricercatori, di laboratorio o clinici: i ma negli Irccs italiani è così.
A me, rimpatriato in Italia nel 2000, essendovi stato studente quarant’anni prima, sembra che qui l’entusiasmo dei giovani sia quello di sempre, ma nel mondo della ricerca i giochi di potere siano cambiati poco; in compenso, la cultura è migliorata tantissimo. La discussione di un problema scientifico o di un problema clinico è a un livello simile in un istituto italiano o in uno americano. Ora, come ha detto recentemente Ignazio Marino, occorre finanziare i giovani non in base ai cognomi, ma in base al merito; ed occorre avere istituti con la massa critica e le infrastrutture necessarie per la ricerca di qualità: forse poi vedremo rinascere anche l’industria farmaceutica.

“Il Sole 24 Ore”, domenica 19 gennaio 2014

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