Non ho letto il libro di
Minerva e Monfardini di cui qui si discorre e tuttavia la tesi che il recensore pare non
condividere, sul nesso tra la fine di Farmitalia e il decadere della
ricerca biomedica in oncologia e in altri campi, a me pare
convincente. Il percorso in qualche modo inverso qui suggerito (“si
potenzi la ricerca, poi arriverà l'industria”) trova il suo limite
nella grande mobilità internazionale dei ricercatori, che –
per quanto formati in Italia – difficilmente resisterebbero al richiamo
delle multinazionali del farmaco. Una politica di sviluppo dovrebbe
vedere crescere insieme ricerca e produzione e gli investimenti
pubblici dovrebbero riguardare l'uno e l'altro settore. Dire cose di
questo genere, immaginando uno Stato che torni a essere imprenditore,
significa violare un tabù in tempo di neoliberismo imperante, ma a
me sembra la via da percorrere, se si vuole conservare e rilanciare
una tradizione che sembra tuttora produrre qualche frutto fuori
stagione.
Una seconda
considerazione, su Ignazio Marino, che viene citato come persona
competente, in grado di promuovere positive politiche nel campo della
ricerca. Le ambizioni del Marino, frustrate nella aspirazione a un
impegno governativo, di ministro o sottosegretario, si sono orientate
verso il Campidoglio e l'amministrazione di Roma, piena di
incrostazioni di potere su cui l'intervento del sindaco è apparso ai
più deficitario. Come dire che in questo benedetto paese a nessuno
riesce di fare le cose di cui s'intende. (S.L.L.)
Un libro che racconta gli
esordi dell’oncologia medica contemporanea in Italia è di
interesse non solo per oncologi. Oltre che interessante, Il
bagnino e i samurai (Daniela
Minerva & Silvio Monfardini, Codice, Torino, 2012) è
anche originale, perché il suo filo conduttore è una tesi ben
precisa: che ci sia un nesso significativo tra la decadenza
dell’industria farmaceutica e il destino della ricerca bio-medica
in questo paese. Silvio Monfardini, uno dei due autori, che scrive di
sé in terza persona, è uno dei samurai: è contagioso il suo
entusiasmo per i tempi eroici che ha vissuto nel gruppo d’avanguardia
guidato da Gianni Bonadonna all’Istituto nazionale tumori (Int) di
Milano; e la sua nostalgia è a tratti un po’ malinconica. L’altro
autore del libro è Daniela Minerva, una dei migliori tra i nostri
giornalisti nel settore sanità e ricerca scientifica.
Farmitalia, divenuta nel
1978 Farmitalia-Carlo Erba controllata della Montedison (che era nata
nel 1966 dalla fusione tra Montecatini ed Edison) e che era collegata
con Eni in Eni-Mont, aveva acquisito rinomanza internazionale con
l’adriamicina, a tutt’oggi uno dei più importanti farmaci
anti-tumorali. È narrata con verve la storia degli ultimi anni di
Farmitalia, fino al triste epilogo nel 1993: fu venduta a
Kabi-Pharmacia (Svezia), e gestore dell’affare fu Carlo Sama,
popolare sulle spiagge adriatiche e detto perciò il bagnino. La
prima impressione del lettore è che l’epiteto sia ingiusto nei
confronti dei bagnini, che tante volte salvano vite: è difficile a
credere che lo scopo di Sama fosse salvare la Montedison, il cui
indebitamento era circa 20 volte il prezzo di vendita di Farmitalia.
Se abbia avuto più peso l’indifferenza, o l’incompetenza, o
l’avidità, o lo stato di necessità, o quali secondi fini
potessero esservi non è dato di sapere. Certo è invece che la
perdita di un centro che aveva avuto grande successo annunciò il
collasso dell’industria farmaceutica italiana.
Altra questione è in
quale misura questo evento ed altre vicende storiche nel libro ben
lumeggiate - come quelle dell’Istituto Superiore di Sanità -
abbiano causato un declino della ricerca biomedica in generale.
Certamente quando un laboratorio che sviluppa nuovi farmaci è
fisicamente vicino a un’istituzione che subito li utilizza nella
cura dei propri pazienti, l’uno e l’altra possono mirabilmente
fecondarsi a vicenda, come è successo per il connubio
adriamicina-Int: un caso molto fortunato. Sulla fortuna però non si
può contare: di solito, quando per una certa malattia ha un farmaco
candidato, un’industria farmaceutica si mette in contatto con
chiunque nel mondo abbia l’esperienza clinica specificamente
pertinente, e perciò i rispettivi Pazienti. Inoltre, la
sperimentazione di laboratorio e clinica dei farmaci anti-tumorali è
importantissima, ma è solo una piccola parte dell’universo della
ricerca biomedica: che questa sia sofferente in Italia è sotto gli
occhi di tutti, ma i motivi - immobilità dei docenti e dei
ricercatori, baronie accademiche potenti e con tendenze ereditarie,
finanziamenti tra i più bassi in Europa e finora quasi sempre senza
peer review - sono ben più profondi che il declino
dell’industria farmaceutica. Infine, secondo me il paradosso più
eclatante della ricerca biomedica italiana è che produce, malgrè
tout, e non si sa bene come, risultati di buon livello che la
pongono ai primi 4-5 posti in Europa, davanti a paesi che investono
di più. Ciò è vero per esempio in genetica, in biochimica, in
immunologia e, per tornare al tema centrale del libro, in
onco-ematologia: quella italiana è tra le migliori, mentre anche
l’oncologia non sfigura per nulla, come del resto ben illustrato in
un successivo capitolo di questo libro. Se poi consideriamo un
settore di biotecnologia avanzata, come la terapia genica, il Tiget
al San Raffaele è all’avanguardia mondiale, come testimoniato da
due recenti articoli in Science.
Dove sono nuovamente e
pienamente d’accordo con gli autori è nella critica ai nostri 47
Irccs (12 dei quali oncologici): se tutti questi fossero davvero
dedicati in primis alla ricerca dovremmo essere
all’avanguardia del mondo. Invece gli Irccs sono organizzati come
gli altri ospedali: hanno in più soltanto un bollino di prestigio e
un po’ di soldi extra. In altri paesi sarebbe impensabile che il
direttore scientifico di un istituto scientifico non abbia potere
decisionale nell’assunzione dei ricercatori, di laboratorio o
clinici: i ma negli Irccs italiani è così.
A me, rimpatriato in
Italia nel 2000, essendovi stato studente quarant’anni prima,
sembra che qui l’entusiasmo dei giovani sia quello di sempre, ma
nel mondo della ricerca i giochi di potere siano cambiati poco; in
compenso, la cultura è migliorata tantissimo. La discussione di un
problema scientifico o di un problema clinico è a un livello simile
in un istituto italiano o in uno americano. Ora, come ha detto
recentemente Ignazio Marino, occorre finanziare i giovani non in base
ai cognomi, ma in base al merito; ed occorre avere istituti con la
massa critica e le infrastrutture necessarie per la ricerca di
qualità: forse poi vedremo rinascere anche l’industria
farmaceutica.
“Il Sole 24 Ore”,
domenica 19 gennaio 2014
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