«Servizio» — è
questo il significato originario del termine greco therapeía.
E dunque è letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione
del therápon. Nell'Iliade, Patroclo, Automedonte,
Alcimo sono presentati come therápontes rispetto ad Achille,
perché sono appunto al suo «servizio», perché lo «assistono»,
agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il
comportamento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi
distinti del poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero
impiega la stessa formula: phílo epepeítheth' etaíro —
«obbedì all'amico». La therapeía implica l'obbedienza. Non
si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non
ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque
prestandogli obbedienza.
Un contesto di
significati molto simile si ritrova anche in relazione al termine
latino che corrisponde quasi letteralmente alla parola greca
therapeía. Difatti, cura sta a indicare anzitutto la
«sollecitudine», la «premura», l'«interesse» per qualcuno o
(più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa
disposizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente
concretizzarsi in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di
qualcuno vuol dire per prima cosa «stare in pensiero», essere
«preoccupati» per lui.
Una traccia non
irrilevante di questa accezione originaria si ritrova peraltro anche
in alcune lingue moderne. In inglese, to care for vuol dire
«prendersi cura», senza riguardo ai possibili modi concreti nei
quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall'uso
prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell'espressione I
care («mi interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»).
Ancora più interessante è il termine tedesco Sorge
(abitualmente tradotto con l'italiano «cura»), soprattutto se ci si
riferisce al significato col quale compare in particolare in Essere
e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a indicare la
determinazione ontologica fondamentale dell'Esserci, vale a dire il
fatto che l'Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in
quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita
umana.
Per quanto
inevitabilmente cursoria, questa ricognizione etimologico-linguistica
lascia emergere con chiarezza un punto. Alle origini della tradizione
culturale dell'Occidente — pensiamo a quanto la Grecia resta
importante — le parole che designano la «cura» alludono a una
condizione soggettiva — quella di chi «si preoccupa» e dunque si
pone al «servizio» — e non a un contenuto determinato nel quale
si oggettiverebbe tale «preoccupazione». Anche quando il soggetto
di cui si parla assume una configurazione in qualche modo tecnica,
come avviene nel caso del medico, ciò che i termini antichi
sottolineano in lui non è la messa in campo di atti specifici, bensì
la presenza di una «preoccupazione» per colui che egli dovrebbe
assistere. Patroclo è genuinamente therápon di Achille non
perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in
pensiero per l'amico, perché lo ascolta (obbedire — ob-audire
— vuol dire «mettersi all'ascolto»). Analogamente, per essere
fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà essere
mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è
stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitudine
debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche
terapeutiche.
Con il passare dei
secoli, si assiste a una trasformazione radicale nel significato dei
termini, quale riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò
a cui questi termini si riferiscono, in direzione di una spiccata
tecnicizzazione. Da un lato, infatti, titolare pressoché esclusivo
della «cura» diventa il medico, unica figura legittimata a svolgere
il ruolo del therápon. Io posso bensì «essere in pensiero»
per il mio amico o il mio familiare; ma se voglio «curarlo» devo
affidare questo compito al medico. Dall'altro lato, e in connessione
con questa «professionalizzazione», la «cura» perde ogni
connotazione «affettiva» e viene piuttosto a indicare un complesso
di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Curare non è
più — come in precedenza — un verbo che allude allo stato
d'animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la
molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo
intransitivo diventa un verbo transitivo che riguarda gli atti
concreti effettuati su colui che sia «oggetto» della cura.
Il culmine di questo
processo si raggiunge in concomitanza con la produzione industriale
di massa e poi in maniera sempre più accentuata nel corso degli
ultimi decenni. La «cura» non ha più alcun rapporto con la
disposizione d'animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica
sulla cura — i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del
paziente — ogni sua residua «preoccupazione». Materialmente
impossibilitato a stare in pensiero contemporaneamente per molte
centinaia di individui, il medico trasferisce e oggettiva la sua
sollecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente
«neutri» dal punto di vista sentimentale, la cui efficacia dipende
dunque esclusivamente da un'incidenza «misurabile» in termini
quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento. Il
terapeuta — non importa se del corpo (quale è il medico generico)
o dell'«anima» (come vorrebbe essere lo psicologo) — non è colui
che, mosso da premura, «obbedisce» al suo assistito ma,
all'opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi a una
«cura», ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti
chimici di un farmaco. E tanto più valente sarà quel terapeuta che
saprà svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica,
evitando quel coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare
o compromettere la sua capacità di «curare». Fino al paradosso del
medico perfetto — immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro
dell'identità e della «storia» del paziente, e proprio per questo
in grado di «curarlo» secondo protocolli astratti universalmente
convalidati, e dunque di principio «efficaci» per qualunque
paziente, a prescindere da peculiarità individuali.
Non è nota l'origine del
termine greco therápon. Si sa, tuttavia, che il suo
significato richiama il latino comes — «colui che accorre
accanto», «che sta vicino», «che assiste», magari senza «fare»
nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso
storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà
perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via
informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci.
“Corriere della Sera”,
24 giugno 2012
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