Nel corso dell'incessante
lotta di classe che costituisce la storia di Roma repubblicana, la
plebe ottenne gradatamente di partecipare al governo, prima eleggendo
i magistrati e poi assumendone, a sua volta, i poteri: questura,
pretura, censura, edilizia, tribunato, consolato, cariche tutte
annuali e tutte collegiali. Poté anche esprimere il suo parere, per
referendum, su proposte di legge che restavano affisse vari giorni
affinché tutti potessero prenderne conoscenza e il presentatore
avesse il tempo di illustrarle. Esercitava infine le funzioni di
Corte d'Appello, essendo in sua facoltà commutare la pena di morte
in esilio se il reo, valendosi della provocatio, si appellava
al popolo.
Al di sotto dei grandi i
Metelli, gli Scipioni, i Claudi, una maggioranza silenziosa
esercitava quello che Nicolet ha definito il mestiere di cittadino:
una vasta base anonima di coloni, artigiani, commercianti,
imprenditori, che forniva alla classe dirigente il suo consenso per
mezzo del voto.
Ciò avveniva in due
assemblee. Nella prima, residuo dell'antica struttura militare, in
cui i cittadini erano raggruppati per censo e per età, essi venivano
suddivisi in unità elettorali dette centurie (e votavano nei comizi
centuriati); la seconda comprendeva tutti gli italiani, divisi in
quattro tribù urbane e trentuno rurali, che votavano nei comizi
tributi, attraverso rappresentanti residenti a Roma. Contava il
voto non dei singoli, ma delle tribù. I rappresentanti degli
elettori si recavano l'uno dopo l' altro, separati da corde, a
deporre in una cesta controllata da un custode la tavoletta di legno
cerato sulla quale avevano tracciato il loro consenso (o diniego) a
una legge o a una sentenza, oppure il nome d' un candidato. L'ultimo
tratto lo percorrevano su una passerella collocata bene in vista
affinché tutti potessero controllare che non ricevevano
suggerimenti, pressioni o bustarelle. Il candidato attendeva poco
lontano che l'araldo proclamasse il nome del vincitore; la sua toga
di lana quel giorno era stata imbiancata con il gesso, affinché
fosse riconoscibile da lontano (donde il nome candidato).
Durante le campagne
elettorali, naturalmente, si verificavano attacchi ai rivali,
lusinghe, promesse, e magari - nonostante i divieti - largizioni agli
elettori: le analogie tra i costumi dell' antica Roma e i nostri sono
più spiccate che quelle con momenti del passato più vicini a noi.
L'editore Salerno ha pubblicato il Manualetto di campagna
elettorale (a cura di Paolo Fedeli), che contiene sagaci consigli
inviati dal fratello Quinto a Cicerone, quando costui si presentò
alle elezioni per il consolato del 63 a.C. Siamo nell'anno
precedente, il 64 e fors'anche il 65 a.C., alla vigilia del
memorabile consolato durante il quale, quasi allo scadere del mandato
(novembre del 63 a.C.), Cicerone sventerà la congiura di Catilina,
pronunciando le famose quattro orazioni dette Catilinarie
(fino a quando, Catilina...). Fu il momento più alto della sua
carriera, instancabilmente rievocato e celebrato. Gli costò l'esilio
e la distruzione della casa l'aver condannato a morte i congiurati
senza appello, ma conquistò anche una gloria che egli riteneva pari
o addirittura superiore a quella di Pompeo: cedant arma togae,
si inchinino le armi davanti alla toga, scrisse nell'unico suo verso
pervenuto fino a noi.
La presentazione di
questo breve testo porta la firma d'un autorevole personaggio che di
successi elettorali se ne intende: l'on. Giulio Andreotti. Nel
fratello di Cicerone Andreotti riconosce un agente elettorale
accorto, fantasioso, intraprendente, spregiudicato fino al cinismo:
niente, direi, rispetto a Cicerone stesso, il quale, alla vigilia di
decadere dal mandato, quando uno dei candidati alla sua successione
era Catilina, già sconfitto in due precedenti elezioni, assunse la
difesa dell'altro, Lucio Murena, il quale rischiava d'esser escluso
dalla candidatura per una denuncia di brogli elettorali: proprio il
reato di cui Cicerone aveva aggravato la pena con una legge (la Lex
Tullia de Ambitu) che porta il suo nome. Quell'arringa richiedeva
una spregiudicatezza non comune.
Il curatore del
manualetto, Paolo Fedeli, ne offre una eccellente illustrazione e ne
chiarisce le finalità. Secondo lui, Quinto si sarebbe proposto di
fornire una serie di istruzioni da un lato a Cicerone stesso sulla
tattica da tenere durante la campagna elettorale, dall'altro ai suoi
fiancheggiatori, affinché potessero aiutarlo efficacemente... Al di
là del destinatario immediato, Quinto ha in mente un pubblico più
ampio: i membri dell'aristocrazia che, in un momento di estremo
pericolo per lo Stato, devono sentir l'obbligo di sostenere l'unico
candidato capace di offrire solide garanzie ai fini del mantenimento
del quadro istituzionale e della lotta per la salvaguardia della
Repubblica: anche se tale candidato è un homo novus, cioè il
primo della sua famiglia che, diventando console, sarebbe entrato a
far parte della nobilitas. Era questa la cerchia esclusiva,
composta di superbi possessores, detentori di cariche lucrose;
la classe alla quale abbandonato l'atteggiamento popolare che
sembrava il suo quando aveva pronunciato le orazioni contro Verre
Cicerone era ormai totalmente devoto (eppure, con il passare degli
anni, denuncerà l'edonismo, l'insensibilità morale di quei nobili:
non pensano ad altro, scriverà, che alle loro ville, ai poderi, alle
collezioni d'arte.... E, amaramente consapevole della propria
acquiescenza: non sono più libero di pensare, neppure di odiare...).
Secondo Paolo Fedeli,
dunque, più ancora che al candidato l'opera è indirizzata ai suoi
sostenitori influenti; e, nel riferire le opinioni di quegli studiosi
che ne mettono in dubbio l'autenticità e la ritengono un centone
composto uno o più secoli più tardi, si allinea al giudizio di
quanti la credono effettivamente ciò che appare: una serie di
consigli utili al candidato di quegli anni turbolenti, come del resto
a quelli di tutti i tempi: esser sempre accessibile, affabile,
generoso, largo di promesse, disposto a frequentare persone che da
privato non si sognerebbe di praticare (ma il candidato, risulta
chiaro, è una specie umana diversa dall'uomo comune); evitare invece
tutti coloro che non servono al fine supremo, riuscire eletto.
Ragioni validissime da
ambo le parti, fondate su approfondite analisi storiche e
filologiche, dalle quali si ricavano argomenti pro e contro
l'autenticità dello scritto. Ebbene, ragioniamo da profani,
semplicemente col buon senso: che un fratello si faccia zelante
consigliere d'un candidato è plausibile; ma c'è bisogno di
pubblicare i propri consigli? Che gli suggerisca di tener d'occhio
determinati ambienti e non compromettersi con altri, di non
sbilanciarsi con programmi troppo circostanziati, di circondarsi di
gente che lo accompagni al foro e si affolli nella sua casa, sempre
aperta, anche nel cuor della notte; che lo esorti a viaggiare nelle
province e a parlare con tutti, e rammentando ad alcuni il debito di
gratitudine che hanno verso di lui, ad altri promettendo benefizi
futuri, sta bene, è possibile. Ma non è chiaro che giovi alla sua
causa mettere in piazza tutte queste manovre; e ancor meno che serva
a convincere i notabili che Cicerone, lui solo, saprà salvarli,
nell'imminenza del golpe (che per la verità Catilina, messo alle
strette, tenterà solo un anno e mezzo dopo). Che il console fermo,
deciso, provvidenziale sarà lui lo si vedrà a cose fatte, non
prima, e il colpo di Stato, un anno o due prima, non era prevedibile.
Del resto, Cicerone aveva
proprio bisogno d' essere guidato? A parte la sua notevole
disponibilità, non c'è candidato che non sia preparato, ancora
oggi, a lunghi mesi di fatiche sfibranti: fare buon viso a persone
d'ogni risma, stringere migliaia di mani, baciare centinaia di
bambini, ingollare innumerevoli caffè e aperitivi, presenziare a
inaugurazioni, funerali e battesimi, esser testimone a nozze,
promettere posti, scrivere raccomandazioni che sa perfettamente
inutili, subire, infine, i ricordi di scuola di ex compagni di
classe: classe che, a giudicare dal loro numero, doveva essere
composta di duemila alunni.
“la Repubblica”, 10
maggio 1988
Nessun commento:
Posta un commento