I ventiquattro anni del diario di Lajolo si concludono con una conclusione epocale, il 1969. Ma la pubblicazione è dell'81, dodici anni dopo, gli anni del terrorismo e del sequestro Moro, alla vigilia della presidenza del Consiglio di Craxi nell'83. Un quarto di secolo, ma un altro quarto di secolo è quel che ci divide dalla data di pubblicazione, con tutto ciò che di traumatico è successo in questi anni, in Italia e nel mondo. Cerco di andare con ordine, incominciando dall'ordine cronologico che nella fattispecie, corrisponde all'ordine progettuale.
La prima data è il 25 aprile 1945. È una data cardine, non sempre secondo il verso giusto, se la guerra di liberazione non ci libera dal fascismo, motivo per il quale era stata combattuta. È proprio questo sentimento, non di vittoria ma di armistizio, se non addirittura di sconfitta, che sconcerta o ferisce il lettore: dal 26 aprile incomincia una storia nuova dalla quale siamo estromessi. L'impressione che si ha è che il fascismo ha semplicemente cambiato nome o camicia, e che una apparentemente diversa contrapposizione rimette in corso e in gioco codici e valori che ci illudevamo di aver abolito. Un primo segnale fu il disarmo dei partigiani e il modo in cui avvenne: i paesi occupanti non persero molto tempo a farci capire che erano sì i liberatori ma anche i nuovi padroni e con loro avremmo dovuto fare i conti. In altre parole: il 26 aprile non era la fine ma l'inizio di una nuova guerra, la guerra fredda. […]
Insomma, un quarto di secolo fa piangevamo sull'occasione perduta. Il libro ci fu e uscì nell'81. Ventiquattro anni . Incominciava: «25 aprile. Ieri abbiamo liberato Nizza e Canelli. Oggi siamo alle porte di Asti». E il 26, il giorno dopo, Amendola gli dice: «Abbiamo bisogno di te per l'Unità. Da subito. Domani deve uscire il giornale (…). Il partito ti chiede di lavorare a l'Unità da stasera. Domani, via il mitra, la divisa e la barba. Comincia un altro periodo». Che il periodo fosse veramente un altro lo si vedrà presto da un altro segnale, il 9 settembre '45: «Per quel corsivo a piè di pagina in difesa dei garibaldini arrestati a Vercelli, stamani sto nelle vesti d'imputato dinanzi alla Corte Alleata (…). La Corte si è ritirata per decidere. Ne è uscita la condanna: sei mesi di carcere da scontare alle Nuove (…). Appena in cortile cade ogni illusione, mi ordinano, alla tedesca, di salire su un camion che a tutta velocità attraversa le vie del centro e mi deposita alle Nuove».
Quel che più colpisce è la modalità, «alla tedesca», la sensazione che poco nella sostanza sia cambiato, se il comandante partigiano, il caporedattore di un giornale, che ha pure ministri nel legittimo governo, viene mandato in galera per un delitto d'opinione. Sono le formule nuove, di questa nuova guerra, che non è più tra popoli, ma tra contrapposte ideologie. Essere italiano non significa nulla, purché si sia stati fascisti o si sia democristiani. Da questo momento il diario diventa una testimonianza preziosa. Testimonianza della vita politica. Della vita culturale, ma in particolar modo della vita del Partito, raccontata in sincerità spregiudicata, nelle varie e spesso contrapposte componenti, in un coacervo tutt'altro che omogeneo. E qui emerge la qualità caratteriale, che è di Ulisse, probabilmente, più che di Davide: l'indipendenza di giudizio, la testardaggine nel rivendicarla, fino a diventare un personaggio scomodo.
Non c'è acquiescenza in lui e ciò credo gli derivi da un motivo ricorrente, mai cancellato, il suo approdo al comunismo passando dagli errori giovanili fascisti. Non lo nasconde né si nasconde, al punto di farne oggetto di un libro, Il voltagabbana (anche qui non è il solo, ci sono Alicata, Guttuso, Galvano Della Volpe, ma anche Vittorini e Bilenchi e molti scrittori di cui si parla - però lui è il solo a uscire allo scoperto). Quel che non va mai dimenticato è che Lajolo è un comunista autentico, a pieno servizio, un intellettuale organico. Senza perdere o rinunciare alle qualità umane, che tutte si concentrano sulla irrinunciabile facoltà di dubitare, di sbagliare, di problematizzare. Fin dall'inizio, 16 giugno 1946: «Forse solo quello che nasce e muore interiormente è importante, sono i lunghi discorsi con te stesso, quando sprofondi nel silenzio. Le autocritiche feroci che ti fai e non hai il coraggio di esporre davanti agli altri. E anche vigliaccheria oltre che prosopopea. Non vuol dire che fai perché rappresenti un partito e ti devi annullare. Non hai mai creduto a questa mortificazione della personalità. Sei troppo individualista». È il mon coeur mis à nu , la rivendicazione permanente al diritto esistenziale, alla messa in crisi. Riflessioni come questa accompagnano per intero la sua vita e ritornano puntualmente nel dialogo, specie nei momenti di maggior tensione politica interna al partito.
Ritorno al 26 aprile 1945. Ecco, nell'euforia progettuale che caratterizzò il tempo del dopo-liberazione, il vento del nord, il governo Parri, Lajolo percepisce già segni di stortura che, sotto l'insegna della guerra fredda, avrebbero riconsegnato l'Italia ai medesimi gestori del ventennio. 29 giugno 1946: «La Resistenza è già in ombra, chi conosce meglio certi misteri della politica, per consolarci comincia a raccontare la favola dello stato di necessità». Segni concreti e non sensazioni vaghe. 23 agosto 1946: «Il fuoco che covava sotto la cenere ha fatto falò proprio nella mia provincia, ad Asti e nella zona partigiana. Il vilipendio della Resistenza da parte di chi si era a suo tempo schierato contro e anche di quelli che erano stati alla finestra e sono tornati ai loro posti di potere nelle varie branche della burocrazia, sta superando i limiti del tollerabile (…). I partigiani che sono rientrati in servizio come ufficiali o quelli che, dopo aver dato tutto, l'unico posto di lavoro lo hanno trovato arruolandosi nella polizia, vengono segnati a dito, isolati o costretti ad andarsene». E il 23 dicembre, Pietro Chiodi, professore di filosofia in Alba, vittima di un attentato, gli dice al telefono: «Ci proveranno ancora. Io se ti devo dire tanto, sono pronto. Mi pare che affondiamo di nuovo in quel fango nero». Mentre la politica avanza altre, a volte spregiudicate, strategie del consenso, come accade il 26 marzo '47 con la mossa di Togliatti, di «tentare l'abbraccio con De Gasperi votando l'articolo 7». Conclusione? 25 maggio: «De Gasperi farà il governo senza la sinistra. Il diktat di Truman ha ottenuto il suo scopo». Non solo, ma «De Gasperi, che su l'Unità definiamo "cancelliere", è costretto a fare pagare la ricostruzione a chi meno ne ha. Lo scontro politico-sociale si fa sempre più aspro».
Non siamo nel 2004 bensì nel 1947, oltre mezzo secolo fa e i temi sono gli stessi: l'America è la voce padrona, i lavoratori, gli operai, i meno abbienti pagano per tutti. Questa è la sensazione che si ricava dalla lettura di questo libro, ora soprattutto, che gli ex-fascisti, cambiato l'abito sono tornati legittimamente al potere e governano. Col beneplacito degli Alleati e della democrazia, come Ulisse testimonia, dal 26 aprile 1945.
Al centro del diario ci sono due parole che alla lunga risultano cruciali, determinanti nella sostanza, perché ogni movimento, sentimentale o fisico che sia, ruota attorno a loro e a loro approda, alla fine: comunismo e partito, tenute assieme da una terza che le intrama: partigiano. Voglio dire che Lajolo è gramscianamente un intellettuale organico? O la terza parola non diventa un motivo di disturbo? O la organica funzionalità viene perennemente messa in crisi paradossalmente proprio da quelle parole-oggetto, comunismo e partito , secondo un'idea e un ideale e un significato che si era maturato durante la guerra partigiana, per lo più inopportuno rispetto all'opportunità strategica generale? Tutta la dinamica del diario è trainata, come la biella motrice, da quelle parole. Alle quali si aggiungono a mo' di contrappunto quelle della cultura e della casa di Vinchio.
Gli avvenimenti in quegli anni, come in questi del resto, si svolgono sempre sul filo del baratro (le guerre di Corea, del Vietnam, dell'Egitto), con colpi di scena che mettono a prova, specie nell'area socialista, fiducia e convinzioni. Dal distacco di Tito alla controversia Urss-Cina, da Lin Piao a Kruscev, dall'intervento in Ungheria a quello in Cecoslovacchia, c'è materiale a sufficienza per essere turbati, confusi, disorientati. Ma l'avvenimento centrale del diario e della storia è, nel marzo-aprile del 1956, il rapporto di Kruscev al XX congresso del Partito Comunista sovietico. Le pagine di Lajolo a questo proposito sono interessantissime, perché l'evento è letto dall'interno, cogliendo tutte quelle differenze di reazione che si sono prolungate fino a oggi. In altri termini, viene allo scoperto la diversa caratura morale e intellettuale dei dirigenti comunisti, Terracini, Pajetta, Amendola e a governare la nave nella burrasca Togliatti, e in mezzo i fedeli o giustificanti, Secchia e Negarville. Lajolo non può rinunciare al suo individualismo così come alla natura proletaria e operaistica, contro l'ideologia, perché il comunismo è un progetto economico e non ideologico. Contemporaneamente non può rinunciare alla natura sentimentale della sua adesione, nutrita di memoria, quella che gli fa dire nell'ottobre '56, dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria: «È più duro resistere al proprio posto oggi, qui, alla direzione de l'Unità, che durante la guerriglia contro nazisti e repubblichini». Ma sono proprio questi fatti internazionali che gli fan dire brutalmente il 23 luglio '66: «Così ancora una volta dai paesi del socialismo piove merda su di noi».
Insofferenza o disagio ampiamente giustificati ma sempre temperati da una sorta di buonsenso contadino. Perché questo è un dato non trascurabile né dimenticabile: Lajolo è, culturalmente, un contadino e tale rimane. 12 ottobre '50: «Possediamo tanta forza popolare per travolgere chi mal governa, ma usarla vuol dire precipitare il paese nel disastro e nel caos e la parte più crudele la sopporterebbero i lavoratori». Questo nel pieno della guerra fredda. C'è però un altro aspetto della personalità di Lajolo che percorre tutto intero il diario, che mi pare abbia una funzione di bilanciamento rispetto alle logiche e alla necessità della politica. È il suo interesse per la letteratura e per l'arte, che si manifesta nei modi, persino compiaciuti, con cui parla del sodalizio con letterati o artisti. A volte parrebbe che la sua maggior preoccupazione di direttore dell'Unità sia quella della terza pagina. Una terza pagina che diventa un poco la pagina della libertà. Pubblica poesie. Sono persino commoventi nella loro esibita innocenza certe annotazioni, quali: «Ho stretto la mano a Picasso sul marciapiede davanti alla Salle Playalle» (21 aprile '49). O il 30 aprile dello stesso anno: «Ho ricevuto una cartolina da Parigi con tre firme che mi sono care Jorge Amado, Anna Seghers, Pablo Neruda». Il diario di Ulisse-Lajolo si chiude nel 1969 lasciando aperti tutti quei problemi che ancora oggi, ritroviamo irrisolti, in un perpetuo rinvio che è la sola costante. Con quella domanda del 1° gennaio '56, che ci portiamo appresso da mezzo secolo: «Noi comunisti ci siamo davvero comportati per considerarci senza rimorsi? Se chi governa ha lasciato colpevolmente proliferare la casta dei privilegiati, la nostra opposizione è forse riuscita a disturbare i loro piani?». Domanda che nel giugno del 2004 risuona con timbro lugubre. Ma soprattutto lugubre suona quell'altra domanda, sulla quale chiudo, nella disperante perdita di memoria che ormai ci avvolge di nebbia. 18 settembre 1967: «Infuria il filosofo Marcuse (…). Ogni volta, dopo lo stupore, mi chiedo perché non c'è mai nei loro richiami qualcosa di nostro. I nomi di quelli caduti nella Resistenza: Curiel, Galimberti, Di Nanni, i comandanti della nostra conquista libertaria: Parri, Longo, Di Vittorio. Perché? Cosa abbiamo seminato? Perché ci sfuggono? Perché ci considerano dei trapassati?».
“l’Unità”, 10 Giugno 2004
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