Alla cerimonia di apertura delle
manifestazioni del bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, programmate
a Roma, in Campidoglio, per il19 gennaio 1998, Walter Binni non poté
partecipare. Era morto il 27 novembre 1997. Ma qualche giorno prima, intorno al
20 novembre, già malato, inviò al comitato organizzatore un breve testo. È
l’ultimo scritto di Walter Binni, non casualmente uno scritto leopardiano,
rimasto a lungo inedito. Fu in gran parte pubblicato, con il titolo Leopardi
contro la palude, su «Micropolis» del maggio 2010 e integralmente da “Il
Ponte”, Anno LXVII nn. 7-8, luglio-agosto 2011, in un numero speciale dedicato
a Walter Binni. (S.L.L.)
Sono molto grato a chi, a nome
dei miei numerosi allievi di ieri e di oggi, mi ha invitato a pensare a un
saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle molte manifestazioni
dell’«anno leopardiano».
Chi mi ha chiesto questo gesto
simbolico ha certamente voluto ricordare ancora una volta sia la funzione, che
mi è stata attribuita, di «maestro di maestri» (molti dei miei allievi di un
tempo sono infatti maestri di nuovi allievi) sia il segno che la mia opera
davvero lunga di critico leopardiano e di docente di numerosi corsi leopardiani
in anni cruciali e vitali della nostra università ha complessivamente inciso
(forse piú di quanto io stesso abbia realizzato) sulle vite di chi ha voluto in molti modi ascoltare e ricordare
quello che ho detto su Leopardi e che per me non è stato mai svincolato da una
pratica intellettuale e politica che è la chiave di volta delle mie
interpretazioni.
Come indicare, anche per sommi
capi, il nodo tensivo di esperienze personali e pubbliche che hanno nutrito e
articolato sempre piú in profondo le mie intuizioni su Leopardi, saldandole poi
in una sistematica teorizzazione di poetica? Mentre scrivo ricorre il
cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Nuova poetica
leopardiana (di cui esce proprio in questi giorni una tempestiva ristampa)
che, a detta di molti, segnò una svolta nel pensiero critico su Leopardi, e che
io stesso ho sempre considerato come una tappa della mia vita
desanctisianamente personale-creativa e pubblica (ero allora deputato
dell’Assemblea Costituente e intervenni piú volte in difesa della scuola
pubblica).
È da lí che, per dirla con le
parole veramente affettuose di un leopardista di vaglia come Luigi Blasucci, la
mia funzione di critico fu quella di «smuovere le acque del leopardismo di metà
secolo, acque di placida laguna». E questo con una «appassionata
unilateralità», tesa ad affermare una «nuova poetica» che svegliasse la critica
leopardiana fino a quel punto «dal suo sonno dogmatico (idillico)».
Non posso qui diffondermi sulle
tappe successive a quel libro cruciale, ma voglio almeno ribadire come il mio
gesto critico di allora (derivato da oltre un decennio di prove in quella
direzione a cominciare da una tesina leopardiana alla Normale nel ’33) potesse
sí sembrare «unilaterale», ma certamente non era «unidimensionale» come gli
esiti della critica precedente, critica appunto di un Leopardi «a una
dimensione».
La mia interpretazione ebbe certo
la funzione di far pensare per la prima volta a un Leopardi del tutto
intransigente a essere assimilato a pratiche conformate a strutture
preesistenti. Essa proponeva invece un Leopardi che le infrangeva vitalmente e
fondava un discorso complessivo di piú dimensioni, aperto a molte possibilità
liberatorie che trascendevano lo status quo.
So che quella lezione ha avuto la
sua funzione, a suo modo «eroicamente» energetica e coerente con se stessa, e
che questa sua voce, netta e comprensibile a molti in questo minaccioso fin
de siècle, può anche risuonare invisa, per la sostanza indiscutibile
storica e metodologica che riesce a trasmettere in tempi di crepuscolo
dell’attività critica, a chi ripropone oggi le «acque di placida laguna» di cui
parla cosí bene Blasucci per tendenze di mezzo secolo fa. La falsa disperazione
omologata a mode «nere» e nefaste che si vorrebbe leggere in Leopardi, una sua
ineffabilità reclusa in se stessa, rispondono certo a retoriche «di laguna».
Certo non meritano che il sorriso di Eleandro.
Leopardi ha prima di tutto trasmesso,
a chi ne ha ritrasmesso e interpretato i valori formali e la sostanza dei
contenuti, il superamento del fondale libresco cui pensano i proponenti di
questa linea asfittica e rudimentale. Auguro alle molte vive voci che
animeranno il dibattito dell’anno leopardiano di poter riasserire la verità
della poesia leopardiana e il suo cruciale esempio per il millennio che verrà.
Sono molto grato a chi, a nome
dei miei numerosi allievi di ieri e di oggi, mi ha invitato a pensare a un
saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle molte manifestazioni
dell’«anno leopardiano».
Chi mi ha chiesto questo gesto
simbolico ha certamente voluto ricordare ancora una volta sia la funzione, che
mi è stata attribuita, di «maestro di maestri» (molti dei miei allievi di un
tempo sono infatti maestri di nuovi allievi) sia il segno che la mia opera
davvero lunga di critico leopardiano e di docente di numerosi corsi leopardiani
in anni cruciali e vitali della nostra università ha complessivamente inciso
(forse piú di quanto io stesso abbia realizzato) sulle vite di chi ha voluto in
molti modi ascoltare e ricordare
quello che ho detto su Leopardi e che per me non è stato mai svincolato da una
pratica intellettuale e politica che è la chiave di volta delle mie
interpretazioni.
Come indicare, anche per sommi
capi, il nodo tensivo di esperienze personali e pubbliche che hanno nutrito e
articolato sempre piú in profondo le mie intuizioni su Leopardi, saldandole poi
in una sistematica teorizzazione di poetica? Mentre scrivo ricorre il
cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Nuova poetica
leopardiana (di cui esce proprio in questi giorni una tempestiva ristampa)
che, a detta di molti, segnò una svolta nel pensiero critico su Leopardi, e che
io stesso ho sempre considerato come una tappa della mia vita
desanctisianamente personale-creativa e pubblica (ero allora deputato
dell’Assemblea Costituente e intervenni piú volte in difesa della scuola
pubblica).
È da lí che, per dirla con le
parole veramente affettuose di un leopardista di vaglia come Luigi Blasucci, la
mia funzione di critico fu quella di «smuovere le acque del leopardismo di metà
secolo, acque di placida laguna». E questo con una «appassionata
unilateralità», tesa ad affermare una «nuova poetica» che svegliasse la critica
leopardiana fino a quel punto «dal suo sonno dogmatico (idillico)».
Non posso qui diffondermi sulle
tappe successive a quel libro cruciale, ma voglio almeno ribadire come il mio
gesto critico di allora (derivato da oltre un decennio di prove in quella
direzione a cominciare da una tesina leopardiana alla Normale nel ’33) potesse
sí sembrare «unilaterale», ma certamente non era «unidimensionale» come gli
esiti della critica precedente, critica appunto di un Leopardi «a una
dimensione».
La mia interpretazione ebbe certo
la funzione di far pensare per la prima volta a un Leopardi del tutto
intransigente a essere assimilato a pratiche conformate a strutture
preesistenti. Essa proponeva invece un Leopardi che le infrangeva vitalmente e
fondava un discorso complessivo di piú dimensioni, aperto a molte possibilità
liberatorie che trascendevano lo status quo.
So che quella lezione ha avuto la
sua funzione, a suo modo «eroicamente» energetica e coerente con se stessa, e
che questa sua voce, netta e comprensibile a molti in questo minaccioso fin
de siècle, può anche risuonare invisa, per la sostanza indiscutibile
storica e metodologica che riesce a trasmettere in tempi di crepuscolo
dell’attività critica, a chi ripropone oggi le «acque di placida laguna» di cui
parla cosí bene Blasucci per tendenze di mezzo secolo fa. La falsa disperazione
omologata a mode «nere» e nefaste che si vorrebbe leggere in Leopardi, una sua
ineffabilità reclusa in se stessa, rispondono certo a retoriche «di laguna».
Certo non meritano che il sorriso di Eleandro.
Leopardi ha prima di tutto trasmesso,
a chi ne ha ritrasmesso e interpretato i valori formali e la sostanza dei
contenuti, il superamento del fondale libresco cui pensano i proponenti di
questa linea asfittica e rudimentale. Auguro alle molte vive voci che
animeranno il dibattito dell’anno leopardiano di poter riasserire la verità
della poesia leopardiana e il suo cruciale esempio per il millennio che verrà.
Nessun commento:
Posta un commento