14.2.14

I fisici tedeschi sotto il nazismo (Nicola Tranfaglia)

Max Planck
Un grande fisico tedesco, Leo Szilard, emigrato negli Stati Uniti dopo l'avvento di Hitler al potere, e che fu tra i promotori e realizzatori del «progetto Manhattan» per la bomba atomica, rievoca oggi con amarezza il comportamento della grande maggioranza dei suoi connazionali, e in particolare degli scienziati, di fronte al nazionalsocialismo. «I tedeschi», scrive Szilard nei suoi ricordi, apparsi da poco in America, «si ponevano sempre da un punto di vista utilitaristico. Si domandavano: "Bene, se io mi oppongo a questo, che cosa faccio di buono? Non faccio un gran che di buono, e in compenso perderò la mia influenza. Allora, perché devo oppormi?". Vedete, il punto di vista morale era del tutto assente, o molto debole; ogni considerazione era semplicemente basata sulla previsione delle conseguenze di un determinato comportamento. Su questa base, nel 1931 giunsi alla conclusione che Hitler avrebbe ottenuto il potere: non perché le forze della rivoluzione nazista fossero così grandi, ma perché pensavo che non ci sarebbe stata affatto resistenza».
L'osservazione di Szilard coglie nel segno. «Cercar di accertare le conseguenze prevedibili», commenta a sua volta lo storico americano Alan D. Beyerchien che ha dedicato a Gli scienziati sotto Hitler (Zanichelli, pagg. 308, lire 12.000) un'indagine assai rigorosa, «è un principio fondamentale della ricerca scientifica. Spesso, però, questo sforzo è paralizzante in politica, perché le conseguenze di un'azione sono imprevedibili». Sia Szilard sia Beyerchien sottolineano, in altri termini, un aspetto fondamentale del rapporto che si determinò in Germania tra il regime e gli scienziati (per gli umanisti il discorso è, almeno in parte, diverso) negli anni Trenta e Quaranta: più che adesione convinta, vi fu acquescienza al dominio nazista, assenza di resistenza attiva sul piano morale e politico.
Ma, se da quest'affermazione generale (e di solito accettata) si passa — con l'aiuto delle ricerche attente, minuziose, penetranti di Beyerchien — a un'analisi più precisa e puntuale di quel che accadde nel mondo della fisica tedesca (che a quei tempi era senza alcun dubbio all'avanguardia, soprattutto sul piano teorico, grazie alla teoria della relatività di Einstein e alla meccanica quantistica di Bohr e Sommerfeld), il quadro si fa assai più interessante e articolato. Offre al lettore spunti nuovi nella riflessione sul regime di Hitler, come sugli altri casi di dittatura tra le due guerre; a cominciare dal nostro fascismo e dallo stalinismo.
Anzitutto, Hitler e il gruppo dirigente nazista non mostrarono mai un particolare interesse per la fisica, né si proposero (almeno fino allo scoppio della guerra) di «nazificare» in modo totalitario il mondo accademico. La preoccupazione fondamentale del Fuhrer, appena giunto al potere, fu quella di licenziare gli scienziati ebrei, che tra i fisici erano tanti e di alto livello. Quando Max Planck, decano dei fisici tedeschi, osservò che l'allontanamento degli ebrei avrebbe significato un danno irreversibile per la scienza tedesca, Hitler gli rispose: «Ebbene, faremo a meno della scienza per alcuni anni».
Questo assurdo disinteresse si rivelò un elemento positivo per quei fisici che, pur senza opporsi esplicitamente al regime, cercarono di mantenere una loro autonomia professionale. I non ebrei, e quelli che non si erano esposti pubblicamente con dichiarazioni di solidarietà per Einstein o altri esuli furono aiutati anche da due altre circostanze, su cui lo studioso americano si diffonde a lungo. La prima riguarda la debolezza sul piano teorico di Lenard e Stark, i due risici che fondarono la «fisica ariana» e che si schierarono apertamente a fianco del movi¬mento nazionalsocialista. L'opposizione della comunità dei fisici a quei due «vecchi malevoli» (come li chiama Beyerchien) fu professionale, prima ancora che politica. D'altra parte, i leaders della fisica ariana, nel complesso intrico di rivalità e lotte per il potere sotto il nazismo che si svolgevano di continuo nel Terzo Reich e intorno a Hitler, scelsero regolarmente i «padrini» sbagliati: il ministro dell'Interno Frick, sconfitto da Himmler, l'ideologo Alfred Rosenberg, presto sopraffatto da Goebbels, il vice-Fuhrer Rudolf Hess, sostituito da Martin Bormann.
Malgrado il verificarsi di circostanze così singolari, i danni della politica hitleriana per ciò che riguarda la scienza furono enormi, da ogni punto di vista. Se ne andarono dalla Germania non solo i grandi degli anni Venti, i costruttori della nuova fisica teorica, ma anche i migliori ricercatori della generazione più giovane, che andarono ad arricchire la scuola inglese e quella americana. Anche dal punto di vista politico-militare, si trattò di un errore catastrofico, giacché l'apporto che gli esuli tedeschi diedero alla costruzione della bomba atomica fu essenziale e decisivo.
Nelle sue conclusioni Beyerchien si chiede se il nazismo sia stato il solo responsabile del declino della fisica tedesca e della sua incapacità a cogliere il futuro dell'energia atomica. Sulla base di alcune ragionevoli considerazioni, risponde che più probabilmente «la politica nazista esacerbò ed oscurò una situazione già in via di deterioramento». Ma, a leggere il suo libro, si capisce assai bene che la perdita subita dalla comunità tedesca nei primi cinque anni del potere hitleriano è incalcolabile: con la partenza di circa un quarto dei migliori scienziati in attività, le cose precipitarono a un ritmo altrimenti impensabile.
Nella prefazione scritta per l'edizione italiana, Emilio Segrè aggiunge a quelle vicende una preziosa testimonianza, rievocando il passaggio per Roma, alla metà degli anni Trenta, di alcuni giovani fisici tedeschi, e soprattutto la svolta che rappresentò per il fascismo italiano l'alleanza con la Germania in fatto di antisemitismo. Già presente nell'essenza stessa del regime fascista, la discriminazione razziale ebbe modo di dispiegarsi appieno a tutti i livelli con la legislazione del '38. Fu allora che Enrico Fermi, che pure era accademico d'Italia, dovette seguire l'esempio dei suoi colleghi tedeschi ed emigrare. Fu un'altra lezione per tutti quegli intellettuali (ed erano la maggioranza) che non avevano voluto cogliere la connessione assai stretta, anche allora, tra politica e scienza.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, probabilmente 1981

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