Max Planck |
Un grande fisico tedesco, Leo
Szilard, emigrato negli Stati Uniti dopo l'avvento di Hitler al potere, e che
fu tra i promotori e realizzatori del «progetto Manhattan» per la bomba
atomica, rievoca oggi con amarezza il comportamento della grande maggioranza
dei suoi connazionali, e in particolare degli scienziati, di fronte al
nazionalsocialismo. «I tedeschi», scrive Szilard nei suoi ricordi, apparsi da
poco in America, «si ponevano sempre da un punto di vista utilitaristico. Si
domandavano: "Bene, se io mi oppongo a questo, che cosa faccio di buono?
Non faccio un gran che di buono, e in compenso perderò la mia influenza.
Allora, perché devo oppormi?". Vedete, il punto di vista morale era del
tutto assente, o molto debole; ogni considerazione era semplicemente basata
sulla previsione delle conseguenze di un determinato comportamento. Su questa
base, nel 1931 giunsi alla conclusione che Hitler avrebbe ottenuto il potere:
non perché le forze della rivoluzione nazista fossero così grandi, ma perché
pensavo che non ci sarebbe stata affatto resistenza».
L'osservazione di Szilard coglie
nel segno. «Cercar di accertare le conseguenze prevedibili», commenta a sua
volta lo storico americano Alan D. Beyerchien che ha dedicato a Gli scienziati sotto Hitler (Zanichelli,
pagg. 308, lire 12.000) un'indagine assai rigorosa, «è un principio
fondamentale della ricerca scientifica. Spesso, però, questo sforzo è
paralizzante in politica, perché le conseguenze di un'azione sono
imprevedibili». Sia Szilard sia Beyerchien sottolineano, in altri termini, un
aspetto fondamentale del rapporto che si determinò in Germania tra il regime e
gli scienziati (per gli umanisti il discorso è, almeno in parte, diverso) negli
anni Trenta e Quaranta: più che adesione convinta, vi fu acquescienza al
dominio nazista, assenza di resistenza attiva sul piano morale e politico.
Ma, se da quest'affermazione generale
(e di solito accettata) si passa — con l'aiuto delle ricerche attente, minuziose,
penetranti di Beyerchien — a un'analisi più precisa e puntuale di quel che
accadde nel mondo della fisica tedesca (che a quei tempi era senza alcun dubbio
all'avanguardia, soprattutto sul piano teorico, grazie alla teoria della
relatività di Einstein e alla meccanica quantistica di Bohr e Sommerfeld), il
quadro si fa assai più interessante e articolato. Offre al lettore spunti nuovi
nella riflessione sul regime di Hitler, come sugli altri casi di dittatura tra
le due guerre; a cominciare dal nostro fascismo e dallo stalinismo.
Anzitutto, Hitler e il gruppo
dirigente nazista non mostrarono mai un particolare interesse per la fisica, né
si proposero (almeno fino allo scoppio della guerra) di «nazificare» in modo
totalitario il mondo accademico. La preoccupazione fondamentale del Fuhrer, appena
giunto al potere, fu quella di licenziare gli scienziati ebrei, che tra i
fisici erano tanti e di alto livello. Quando Max Planck, decano dei fisici
tedeschi, osservò che l'allontanamento degli ebrei avrebbe significato un danno
irreversibile per la scienza tedesca, Hitler gli rispose: «Ebbene, faremo a meno
della scienza per alcuni anni».
Questo assurdo disinteresse si
rivelò un elemento positivo per quei fisici che, pur senza opporsi
esplicitamente al regime, cercarono di mantenere una loro autonomia professionale.
I non ebrei, e quelli che non si erano esposti pubblicamente con dichiarazioni
di solidarietà per Einstein o altri esuli furono aiutati anche da due altre
circostanze, su cui lo studioso americano si diffonde a lungo. La prima
riguarda la debolezza sul piano teorico di Lenard e Stark, i due risici che fondarono
la «fisica ariana» e che si schierarono apertamente a fianco del movi¬mento nazionalsocialista.
L'opposizione della comunità dei fisici a quei due «vecchi malevoli» (come li
chiama Beyerchien) fu professionale, prima ancora che politica. D'altra parte,
i leaders della fisica ariana, nel complesso intrico di rivalità e lotte per il
potere sotto il nazismo che si svolgevano di continuo nel Terzo Reich e intorno
a Hitler, scelsero regolarmente i «padrini» sbagliati: il ministro dell'Interno
Frick, sconfitto da Himmler, l'ideologo Alfred Rosenberg, presto sopraffatto da
Goebbels, il vice-Fuhrer Rudolf Hess, sostituito da Martin Bormann.
Malgrado il verificarsi di
circostanze così singolari, i danni della politica hitleriana per ciò che
riguarda la scienza furono enormi, da ogni punto di vista. Se ne andarono dalla
Germania non solo i grandi degli anni Venti, i costruttori della nuova fisica
teorica, ma anche i migliori ricercatori della generazione più giovane, che
andarono ad arricchire la scuola inglese e quella americana. Anche dal punto di
vista politico-militare, si trattò di un errore catastrofico, giacché l'apporto
che gli esuli tedeschi diedero alla costruzione della bomba atomica fu essenziale
e decisivo.
Nelle sue conclusioni Beyerchien
si chiede se il nazismo sia stato il solo responsabile del declino della fisica
tedesca e della sua incapacità a cogliere il futuro dell'energia atomica. Sulla
base di alcune ragionevoli considerazioni, risponde che più probabilmente «la
politica nazista esacerbò ed oscurò una situazione già in via di deterioramento».
Ma, a leggere il suo libro, si capisce assai bene che la perdita subita dalla
comunità tedesca nei primi cinque anni del potere hitleriano è incalcolabile:
con la partenza di circa un quarto dei migliori scienziati in attività, le cose
precipitarono a un ritmo altrimenti impensabile.
Nella prefazione scritta per
l'edizione italiana, Emilio Segrè aggiunge a quelle vicende una preziosa
testimonianza, rievocando il passaggio per Roma, alla metà degli anni Trenta,
di alcuni giovani fisici tedeschi, e soprattutto la svolta che rappresentò per
il fascismo italiano l'alleanza con la Germania in fatto di antisemitismo. Già
presente nell'essenza stessa del regime fascista, la discriminazione razziale
ebbe modo di dispiegarsi appieno a tutti i livelli con la legislazione del '38.
Fu allora che Enrico Fermi, che pure era accademico d'Italia, dovette seguire
l'esempio dei suoi colleghi tedeschi ed emigrare. Fu un'altra lezione per tutti
quegli intellettuali (ed erano la maggioranza) che non avevano voluto cogliere
la connessione assai stretta, anche allora, tra politica e scienza.
“la Repubblica”, ritaglio senza
data, probabilmente 1981
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