Arthur Miller e il cinema: un
tema che può essere svolto in due modi. Il primo: Arthur Miller e Marilyn
Monroe, quindi il coinvolgimento diretto del drammaturgo nella «macchina» hollywoodiana,
prima con la collaborazione (non accreditata nei titoli) al copione di Facciamo
l’amore (George Cukor, 1960) e poi con la scrittura in prima persona di Gli
spostati (John Huston, 1961). Il secondo: Arthur Miller e i numerosi film
(una cinquantina) ispirati ai suoi drammi, da Erano tutti miei figli (Irving
Reis, 1948, con Edward G. Robinson e Burt Lancaster) a La seduzione del male
(Nicholas Hytner, 1996, tratto dal Crogiuolo, con Daniel Day Lewis).
Due storie affascinanti, due
facce di una stessa medaglia: la soddisfazione di essere il drammaturgo americano
più «saccheggiato» da Hollywood assieme a Tennessee Williams, il matrimonio ultra-mediatico
con la grande star, la dolorosa lavorazione degli Spostati, il crudele
destino che nel giro di pochi mesi si portò via tutte e tre i divi del film (oltre
a Marilyn, Clark Gable e Montgomery Clift), il curioso risvolto autobiografico
(Miller ideò e scrisse il racconto breve al quale Gli spostati si ispira
durante un soggiorno di 6 settimane a Reno, Nevada: era andato lassù per
divorziare dalla sua prima moglie, Mary Slattery).
Eppure, due storie che non esauriscono
il rapporto fra Miller e il cinema. Infatti, la domanda da farsi non è quanto
il teatro di Miller sia cinematografico; la domanda giusta è: quanto il cinema
americano è «milleriano»? La risposta è semplice: tantissimo. Senza Miller, a
nostro parere, non ci sarebbero i fratelli Coen, o almeno alcuni film dei Coen.
Se Morte di un commesso viaggiatore è l’epitome della solitudine di un
Piccolo Uomo di fronte al mondo, alle istituzioni e al destino, e se questo
tema è ovviamente quanto di più kafkiano esista in letteratura, ebbene, Miller
è il filtro attraverso il quale Kafka arriva a Hollywood.
Pensate a Fargo, il film
più popolare dei Coen: l’impiegatuccio che tenta la fortuna, e si dà al crimine
senza sapere né come né perché, non è forse uno dei tanti Willy Loman che
popolano il cinema americano sotto mentite spoglie? E se il tema dei primi drammi
di Miller, da Uno sguardo dal ponte al citato Erano tutti miei figli,
è la crisi della famiglia, non è forse vero che tale tema percorre tutto il
cinema hollywoodiano dal dopoguerra ad oggi?
C’è un altro legame, più tecnico:
quando il cinema diventa sonoro, dagli anni ’30 in poi, Hollywood
comincia a far la spesa a
Broadway, e non acquista solo testi, acquista anche e soprattutto attori. E i
grandi interpreti di Miller e di
Williams sono i divi che prendono il potere a Hollywood negli anni ’50: Marlon
Brando, Paul Newman, Monty Clift…
Il matrimonio con Marilyn è una
specie di contrappasso: Miller «ruba» al cinema la sua diva più proverbiale, cercando
in lei la gioventù, e dandole la nobiltà intellettuale. Rimarranno delusi, in
fondo, entrambi, e ripensando agli Spostati viene il sospetto che lui capiva
lei meno di quanto lei capisse lui. Marilyn era una grande attrice nel
brillante e nel tragico, Miller non era probabilmente uno scrittore
sufficientemente duttile e umile per «sporcarsi» le mani con il cinema. Gli
spostati, a quasi 45 anni di distanza, resta nella memoria più per le
stupende immagini fotografate nel deserto del Nevada, che per i dialoghi spesso
troppo «scritti» ai quali i divi suddetti erano costretti ad adeguarsi. Per
apprezzare Miller al cinema, meglio alcuni film a lui ispirati: i migliori Willy
Loman restano Fredric March (nel film diretto da Laszlo Benedek nel 1951) e
Dustin Hoffman (nella riduzione televisiva, uscita anche al cinema, diretta dal
tedesco Volker Schlondorff nel 1985).
Andranno citati anche un
adattamento francese del Crogiuolo (Le vergini di Salem di
Raymond Rouleau, 1957, con Simone Signoret e Yves Montand) e il famoso Sguardo
dal ponte diretto da Sidney Lumet 1961 e interpretato da Raf Vallone, che
aveva in questo testo il proprio cavallo di battaglia. Ed è giusto chiudere
ricordando che a 85 anni suonati Miller aveva anche esordito come attore, con
una piccola parte nel film israeliano Eden (Amos Gitai, 2001) tratto dal
suo romanzo Homely Girl.
l’Unità, 12 febbraio 2005
Nessun commento:
Posta un commento