Davide Lajolo, il partigiano Ulisse |
Anno 2005, sono passati
sessant'anni da quel 1945 che ha, o meglio avrebbe dovuto fare da spartiacque
tra due storie, due Italie, quella fascista e quella antifascista. Non senza
varianti, quella liberale e quella socialista, quella capitalista e quella
operaista, quella monarchica e quella repubblicana, eccetera. Non fu, come
tutti sanno, e pochi ricordano, un passaggio agevole e indolore, fu anzi
drammaticamente traumatico, aprendo contestualmente altre questioni, non
indifferenti né differibili, quelle che si trovarono a dover risolvere i nuovi
governanti, in primis il guardasigilli Palmiro Togliatti: si trattava di
governare gli stessi italiani che fino all'altrieri (prima di Stalingrado e di
El Alamein) sembravano essere, o si dichiaravano, fascisti o mussoliniani. Dove
pescare, allora, non tanto i quadri ma, specie tra i giovani che avevano appena
combattuto tre guerre, i rincalzi per rinnovare una classe dirigente in mora, i
nuovi intellettuali «organici», fossero liberali o comunisti, se non tra coloro
che in varia misura e modo avevano collaborato nel Guf o con Bottai? Ciascuno
con le sue sacrosantissime motivazioni, ciascuno secondo un proprio grado di
partecipazione, all'interno dell'ambiguità ideologica del fascismo, uscito bene
o male da una costola del socialismo. Quante polemiche in questi anni, che
hanno coinvolto persino nomi illustri come Bobbio o Silone. Una cosa è certa,
il traghetto fu una realtà. A raccontare quel passaggio ci pensò, con una
spregiudicata quanto esemplare confessione, Davide Lajolo nel 1963, Il voltagabbana. Confessione pubblica e
coraggiosa, se si pensa al tempo in cui avvenne e all'incarico di Lajolo,
direttore dell'Unità. Ora Il voltagabbana
me lo ritrovo ristampato in edizione «popolare» nella Bur di Rizzoli, perciò
per ampia diffusione, sessant'anni dopo quel 1945 (o quel 1943), a svegliare la
memoria addormentata. Con lodevole tempismo, per altro, data l'attualità del
fenomeno, quando vedo il Presidente del Consiglio in carica, Berlusconi,
tuonare ogni giorno un po' istericamente contro i comunisti che minaccerebbero
l'Italia (continuando a mangiare i bambini), mentre al tempo stesso si
circonda, in posti di responsabilità o di personale consulenza, di ex dirigenti
comunisti, da Bondi a Ferrara a Adornato. La prefazione del libro è affidata a
Giorgio Bocca, un testimone attivo di quell'epoca. Ed è una scelta azzeccata
per il «duo» asti-cuneese che così si instaura. È Bocca, dunque, a rievocare
introduttivamente la situazione e il clima di quegli anni, evocando la
conversione totale di un popolo: quaranta milioni di fascisti diventati, in
ventiquattro ore, quaranta milioni di antifascisti, lasciando nel mistero la
consistenza del consenso addirittura di un ventennio, virtù sempre sbandierata
per legittimare il regime. La conta, la vera, si sarebbe fatta dopo l'8
settembre. Però qualcosa c'era nel tessuto italiano che sociologicamente può
aiutare a spiegare il fenomeno e la natura del fenomeno. La descrive bene Bocca
quando scrive: «Nel libro di Lajolo l'Italia fascista sembra falsa, con quei
federali bonari e con quei giovani parasocialisti. Ma quei federali erano veramente
così nella maggioranza dei casi, dei provinciali cui il fascismo aveva concesso
per la prima volta nella storia della piccola borghesia, di esercitare un ruolo
politico, non dei feroci squadristi che dominavano le province italiane con il
terrore, ma uno dei piccoli borghesi che restava legato ai piccoli borghesi
della sua città da mille legami di amicizia e di parentela. Ed è anche vero che
ci fu tutta una generazione di giovani che credette di poter essere socialista
dentro il fascismo e che fu poi parte dirigente dell'Italia antifascista».
Nella sua essenzialità semplice la diagnosi di Bocca è perfetta e ben calza non
solo per Lajolo ma, come egli dice, pure per sé. Piccolo borghese e assieme
contadino, che è una condizione antropologica e quindi culturale dirimente.
Quello del legame alla terra, alla contadinità, mi pare resti il segno più
profondo che caratterizza la sua personalità: non mi riferisco allo scrittore:
è lì, nella e per la sua terra che il voltagabbana compie la scelta. Non a caso
infatti Il voltagabbana incomincia
con una lunga panoramica sulla sua Vinchio e sulla sua campagna, e non a caso,
come ho detto, la conversione avviene proprio in quegli stessi luoghi, assieme
a quelle stesse persone che vi lavorano la terra e le vigne di barbera. È una
costante che si ritrova un po' in tutti i suoi libri e funge da bussola o da
liquido di contrasto pure nel suo diario di lavoro complementare a questo,
Ventiquattro anni, testo di singolare importanza per decifrare il nostro
dopoguerra. Il voltagabbana finisce proprio là dove incomincia il diario, con
il medesimo interrogativo: «Era finita davvero la guerra di liberazione?».
Risposta negativa. Nel diario spiegherà che il 26 aprile 1945 era incominciata
un'altra guerra, non meno terribile, erroneamente definita «guerra fredda», che
sembra non abbia mai fine se continua ancora oggi, chiamando libertà
l'ingiustizia, democrazia l'arroganza, che era stata la divisa del ventennio e
che rivede a indossarla oggi gli eredi di allora. Anche peggio. Con una
differenza: il voltagabbana Lajolo aveva messo in gioco la sua vita a saldo del
cambio di gabbana, i molti voltagabbana di oggi pare che in gioco mettano solo
il conto in banca da impinguare. È tutta lì la differenza.
l’Unità, 16 Febbraio 2005
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