Che il “sicilianismo” fosse
l’ideologia della “borghesia mafiosa” siciliana fu un’argomentata intuizione di
Mario Mineo, quando questa categoria inventò, già negli anni Sessanta. Ancor
prima Leonardo Sciascia aveva fornito una
plastica rappresentazione delle origini del “sicilianismo” nel suo magnifico Consiglio
d’Egitto. Giuseppe Carlo Marino è stato infine lo storico che più accuratamente ha
studiato questa relazione nel suo costituirsi e nel suo divenire a cominciare
da L’ideologia sicilianista (Flaccovio,
1988), passando per L’opposisizione
mafiosa (Flaccovio, 1996), per giungere alla Storia della mafia (Newton Compton, 1998), la cui ultima edizione
riveduta e aggiornata è stata pubblicata nel 2013.
A Marino si deve
l’utilizzazione della categoria gramsciana di “egemonia” come strumento di
interpretazione del fenomeno mafioso. In questa luce questo cessa di essere
oggetto di “storia criminale” e diventa una chiave della storia politica e
sociale della Sicilia.
Di Marino è uscito nel 2011 per i Tascabili Bompiani Globalmafia - Manifesto per una
internazionale antimafiosa, un libro che avrebbe meritato molta più
attenzione da parte della sinistra culturale e politica e dello stesso
associazionismo antimafioso. Il libro, composito (contiene un ampio contributo
di Antonio Ingroia che – al tempo – era un magistrato antimafia di prima linea
e importanti appendici di documentazione), ha come base un saggio storico-teorico
sulla mafia globalizzata, una verifica di come dalla Sicilia Cosa nostra espanda nel mondo la sua
presenza criminale, di come in questo percorso si incontri con altre “mafie”,
che sono anch’esse in molti casi una “forma d’egemonia”, di come
l’accumulazione mafiosa condizioni sempre più fortemente l’economia e la
finanza internazionale, componente fondamentale di un potere che gli Stati e le
organizzazioni interstatuali non sanno o non vogliono controllare. Il lavoro di
Marino parte dalla Sicilia e contiene alcune pagine in cui lo studioso
efficacemente sintetizza le acquisizioni dei suoi studi precedenti su
sicilianismo e borghesia mafiosa. Il termine “sicilianismo” non c’è, ma esso vi
appare compiutamente definito.(S.L.L.)
[…] La mafia non è venuta dal
popolo siciliano ma dai suoi indigeni oppressori. Non consiste in un mero
fenomeno di criminalità più o meno organizzata; ma in un'originale prassi del
potere (ben visibile e analizzabile nelle sue forme e nelle sue dinamiche) con
la quale i ceti dominanti hanno fomentato e alimentato, nel popolo, la
moltiplicazione di un illegalismo diffuso, funzionale alla salvaguardia dei
loro privati interessi e privilegi.
Ben lontani - come già aveva
rilevato a fine Settecento il grande storico Rosario Gregorio - da una convinta
condivisione del diritto pubblico e quindi di solito ostili a ogni ipotesi di
statualità, i ceti dominanti siciliani raramente hanno espresso dal loro seno
individualità innovatrici e durature correnti progressiste. Adusi a una
valorizzazione estrema, persino a prescindere e al di là dei vincoli imposti
dalle leggi, delle pretese individuali e di clan per la conquista e la conservazione
della "roba" (un atteggiamento che potrebbe persino dirsi anarcoide
ed "eversivo", seppure temperato da una rituale riproduzione di
comportamenti ancorati a schemi tradizionalisti di vita sociale considerati
intoccabili e quasi fuori e al di là del tempo), hanno elaborato e alimentato
una sorta di religione del conservatorismo, di cui c'è ampia traccia nelle
rappresentazioni letterarie, da Capuana, Verga e Pirandello a Tornasi di
Lampedusa. E con la giustificazione ideologica di una siffatta "religione
di classe" che sempre loro, i ceti dominanti, hanno coltivato l'astuta
presunzione di rappresentare in toto, per una sorta di investitura storica
fondata sulle tradizioni, i cosiddetti diritti e valori della cosiddetta
"nazione siciliana". Ed è stata proprio tale presunzione l'anima del
loro tenace impegno a difesa di privilegi invocati anche a nome del popolo,
sempre con le arti dell'astuzia, senza peraltro escludere che l'opposizione
intransigente a ogni potere statale che non si fosse mostrato condiscendente
nei loro confronti potesse, all'occorrenza, sfociare nella violenza aperta
delle strumentali rivolte popolari da essi stessi, come si è già detto,
fomentate e dirette.
Mai propensi a cedere quote
benché minime del loro potere su terre e uomini allo Stato, essi hanno
piuttosto evidenziato la tendenza ad avallare e a fomentare un astuto
illegalismo, nelle forme di volta in volta utili ad assicurare che ogni Stato
che fosse riuscito a costituirsi e a tentare di strutturarsi nell'isola potesse
essere efficacemente paralizzato e costretto a sottomettersi alle
"ragioni" private ovvero a un sistema di privilegi ritenuto
caratteristicamente siciliano e rivendicato come di per sé legittimato da una
sorta di intangibile diritto naturale alla diversità.
Tale ceto di potenti - costituito
in vari tempi da latifondisti ("baroni"), e da affittuari di
latifondi (grandi "gabelloti"), regi intendenti e burocrati di rango,
politicanti, preti e monsignori, notai, azzeccagarbugli, notabili e paglietta,
evolutosi nel Novecento, con crescente evidenza rispetto al passato nella
cosiddetta "borghesia mafiosa" - non ha mai accettato benevolmente
altra legge se non quella funzionale ai suoi interessi.
Ceto, pertanto, sempre diffidente
dello Stato, di qualsiasi Stato, esso ha conseguito e mantenuto un potere
sociale nell'isola affidato a un particolare metodo bizantino di
confronto-ricatto con i poteri pubblici: il metodo di un' "ubbidienza
condizionata", nel senso che condizione ritenuta necessaria per ubbidire
sarebbe stata ogni volta la disponibilità dei poteri statuali a governare il
meno possibile la Sicilia, ovvero a non ingerirsi negli intrighi degli
"affari" e dei misteri siciliani, a non attentare alle cosiddette
"libertà" dei cosiddetti "siciliani" e a lasciarsi adulare
e strumentalizzare ogni volta che l'appello alla legge risultasse ai potenti
dell'isola concretamente più utile e conforme a tali "libertà" e agli
"interessi siciliani" di qualsiasi manifestazione di ostilità o di
aperta opposizione.
Un ceto di "gattopardi"
cinici ed estraniati dal tempo storico, convinti di essere degli dei, così lo
definiva con ben comprensibile orgoglio di appartenenza un loro coltissimo
esponente, il principe Tornasi di Lampedusa. Meglio sarebbe dire, un ceto di
servi-padroni, data la sua tendenza a una prassi astuta e untuosa del servire
per meglio esercitare e difendere un pacifico dominio sull'isola e sul suo
popolo: vigilare sulle forme e sui ritmi della vita sociale, sì da garantirne
una costante riproduzione senza scosse; addolcire le sofferenze dei poveri e
degli oppressi con un'offerta di sonno collettivo, inducendo una dolce
passività conforme a un andamento delle cose descritto e contemplato come
ineluttabile; ma con tutte le arti di una sofisticata vocazione al potere da
mettere a profitto con tenacia circuendo, al fine di renderli domestici e
inoffensivi, i poteri statali, salvo a reagire duramente con mobilitazioni
separatistiche e richieste di indipendenza ogni volta che il pacifico dominio fosse
seriamente minacciato da una qualche volontà statuale di non accondiscendere
all'esautorazione o da sue temute inefficienze o esitazioni nell'uso della
forza repressiva dinanzi a impreviste e incontrollabili rivolte popolari o a
movimenti progressisti comunque pericolosi per la tenuta dei privilegi.
Così avvenne, per esempio, già in
età preunitaria, con speciale evidenza nel 1820, contro i rivoluzionari
napoletani che avevano conquistato una Costituzione di cui si temevano gli
effetti liberali sui privilegi siciliani. Così, in seguito, appena all'indomani
dell'Unità, nel 1866, strumentalizzando i disagi delle plebi e aizzandole
contro le rigidità del nuovo potere dei "piemontesi" intenzionato,
con evidenti lacune quanto alla conoscenza del contesto siciliano, a imporre
un'immediata estensione all'isola degli ordinamenti dello Stato liberale; così,
a fine Ottocento, contro il movimento popolare dei Fasci e ottenendone la
violenta repressione da parte del governo retto dal siciliano Francesco Crispi;
così, nei primi anni venti del Novecento, contro i contadini tornati dalla
guerra che occupavano i latifondi, presto adattandosi ad assumere come propria,
a difesa dei beni e dei privilegi, la salvifica "legalità"
dell'ordine fascista; così nel secondo dopoguerra, con il separatismo
rilanciato contro il "vento del Nord" e i governi di unità
antifascista nei quali i comunisti e i socialisti stavano avviando, per poi
animarle e dirigerle, le lotte contadine per la riforma agraria.
da Giuseppe Carlo Marino, Globalmafia, Bompiani 2011
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