Un uomo.
Un uomo ed una chitarra.
Un uomo, una chitarra ed il vino.
Un uomo, una chitarra, il vino ed
il viaggio.
Un uomo, una chitarra, il vino,
il viaggio ed un tarlo.
Il tarlo è quello più maledettamente
logorante e sublime, è il tarlo della poesia. Molte storie di vita e d’arte
potrebbero avere questo incipit, ma mai tale gioco lessicale è stato più
adatto. La storia e la vita di Piero Ciampi si possono riassumere perfettamente
con queste parole, se non fosse per la mancanza della parola fondamentale,
dell’innesco, del sentimento che ha pervaso tutta la sua vita. L’irrequietezza.
Non mi interessa in alcun modo
stilare un’inutile recensione musicale o una lista di canzoni, ma prima di
iniziare questo articolo è d’obbligo consigliarvi l’ascolto di Ha tutte le carte in regola dove Pietro
Ciampi si racconta in maniera velata e abbacinante.
Piero Ciampi era un demone, un
diseredato, un vagabondo, una vera e propria mina vagante, che era pronta ad esplodere
tra le mani dei suoi conoscenti, nelle orecchie dei suoi rari ascoltatori e fra
le gambe delle sue innumerevoli donne. Ogni luogo da lui toccato nel corso
degli anni e dei suoi infiniti viaggi è rimasto indelebilmente segnato dal suo
passaggio, per lui la musica è stata solo un tramite ed un’occasione fallita
(non per colpa sua). Troppo cupo il messaggio, troppo profondo l’abisso entro
cui chinarsi per avvicinare la sua arte, troppo duro il senso di sconfitta e di
perdizione sprigionati dalle sue canzoni. Piero era troppo per l’Italia
perbenista del dopoguerra, Piero è troppo per l’Italia ignorante del nuovo
millennio.
Piero Ciampi nasce nell’autunno
del 1934 nel quartiere Pontino di Livorno. Una Livorno che sarà labirinto dai
cui fuggire e miraggio lontano da riconquistare. Già nel 1943 dovrà abbandonare
la città e il suo magico porto per i bombardamenti, e pochi anni dopo per il
servizio militare che svolgerà a Pesaro, dove tra grandi bevute e risse
mitologiche scoprirà la sua voglia di viaggiare e di vivere in maniera vigorosa
e cruenta. Un personaggio stoico, uscito da un racconto cubano di Hemingway,
oppure di ritorno dai campi sterminati di Steinbeck. Proprio a Pesaro conosce
il personaggio chiave della sua carriera musicale, Gian Piero Reverberi.
Tornato a Livorno suona il contrabbasso in piccoli complessini della zona, ma
era chiaro che per lui non sarebbe stato facile rimanere in quella città ancora
a lungo. Lo straniamento e l’irrequietezza crescevano di pari passo con il
consumo di alcolici, cosi nel 1957, senza una lira in tasca, partì per Parigi
vagabondando per tutto il tragitto. Oramai la molla era scattata, nulla più
sarebbe stato facile per Piero, la vita prese la velocità di una giostra e il
suo roteare infinito avrebbe sfocato le immagini più del vino.
A Parigi conduceva una vita
“bohémien”, girovagando senza una soldo in tasca, bevendo e frequentando
l’ambiente artistico. A Parigi coltivò la sua vocazione poetica e musicale
facendosi un nome nell’ambiente, dove venne soprannominato "l'italianó";
qui conobbe Louis-Ferdinand Céline e divenne estimatore di Georges Brassens, di
cui più di tutti in Italia incarnò poi lo spirito.
Nel 1959 tornò a Livorno dove
passava le giornate ubriacandosi. Negli anni seguenti grazie all’aiuto di
Reverberi uscirono le sue prime fatiche musicali, ed alcuni pezzi che scrisse
per altri esecutori. Ma Piero e la sua voglia morbosa di vivere, fallire e
rompere tutto ciò che aveva creato trionfavano ad ogni occasione. La vita
professionale si rivela difficile, non diversa è quella personale ed affettiva.
Passa gli anni sessanta tra i vagabondaggi, un ritardatario Arturo Bandini che
vive tra momenti di sconforto e attimi di esaltazione. Tutti i drammi e le
felicità vissuti negli anni di una vita meravigliosa e turbolenta, sono però
filtrati e restituiti da un talento cristallino e dall’impronta appiccicosa di
un bicchiere di vino sul tavolo dell’ennesima osteria.
Ad apprezzarlo e riconoscerne la
sua grandezza di autore ed interprete sono solo alcuni amici, tra cui Gino
Paoli che da tempo interpretava alcune sue canzoni. Ai concerti per lui
organizzati partecipa spesso sbronzo, o insultando la platea. Nonostante la
scontrosità dovuta all'abuso di alcool continuò ad incidere con il consueto
insuccesso. Questo non era certamente un problema per il poeta che governava
dall’interno le sue azioni, nonostante tutto era contento del calibro della sua
opera (sul passaporto fece scrivere “poeta” sotto la scritta “professione”), ed
è certamente impossibile dargli torto.
Il resto della sua vita
continuerà tra sbronze, fughe improvvise, amori tormentati e picchi poetici
elevati, raggiunti in Italia solo da Claudio Lolli e da De André in maturità.
Morì a Roma il 19 gennaio 1980
per un cancro alla gola, assistito dal suo medico, lasciando solo un pugno di
canzoni e lo splendido racconto di una vita straordinaria, essa stessa vale da
esempio ed opera su cui stendere il breve canovaccio dei suoi scritti.
Piero Ciampi incarna in Italia,
forse per la prima volta in musica, l’ideale e lo stereotipo dell’artista
girovago, dell’alcolista e del clochard (e dello stereotipo abusato e inadatto
di maudit).
Il vero compagno di tutta la sua
carriera sarà il vino, con cui condividerà tutte le passioni della sua vita.
Attraverso lo sconvolgimento dei sensi tirerà i fili dei suoi moti interiori,
regalandoci dei veri capolavori. Questa storia osserva da lontano le ombre di
artisti e poeti, che traevano dagli eccessi la linfa vitale della loro arte.
Eterni miti del passato riecheggiano nella storia dello chansonnier di Livorno,
come Baudelaire, Rimbaud, Emilio Praga, Vittorio Imbriani, oppure tornando con
la memoria a tempi più lontani, Cecco Angiolieri e Villon. Riferimenti arditi e
tutt’altro che diretti, che però ci danno una suggestione e una panoramica sul
rapporto tra eccessi e arte, droga ed espressione. Celeberrimi sono i
riferimenti a W. Blake e al più recente Aldous Huxley (Le porte della percezione). La storia di Piero Ciampi, e le sue
stesse canzoni, ci riportano con lucidità e franchezza anche una lotta e un
dibattersi, rispetto ad una vera e propria piaga interiore, riportando alla
mente un esempio fulgido e magnifico, il Diario
di un oppiomane di Thomas de Quincey.
Piero Ciampi è stato un caso,
un'alterazione cromatica nello spartito della canzone italiana, come lo fu
Woody Guthrie in America e Brassens in Francia.
da Pagina99.it
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