20.2.14

Che brutta Storia... Una stroncatura a scoppio ritardato (Alfredo Giuliani)

L’articolo che segue è una stroncatura, cioè un articolo costruito per “distruggere” il valore di un’opera, per mostrarne definitivamente la scarsa qualità, ricorrendo a tutti gli artifici della retorica, in primo luogo al sarcasmo. Si tratta, peraltro, di una stroncatura “tardiva”, fatta non nell’immediatezza della pubblicazione, quando La Storia il libro della Morante, oltre ad essere un best seller, fu oggetto di dibattiti e polemiche, ma un decennio dopo, in occasione – mi pare – di una sua trasposizione televisiva. Quando, in riva al mare di Manfria, tantissimi anni fa (40 più o meno), lessi il libro, non lo ritenni il capolavoro che qualche buon critico andava dicendo, ma neanche la schifezza che dice Giuliani. Forse Elsa Morante sbagliò nel sogno impossibile di scrivere I Miserabili del Novecento, ma nel suo romanzo ci sono figure indimenticabili e pagine che toccano il cuore, per cui prima o poi vorrò rileggerlo, nonostante gli strafalcioni che il maestrino Giuliani, con la matita rossa e blu, ha sottolineato con orrore. (S.L.L.)   
Elsa Morante
Ho vissuto lunghe ore di abbrutimento: ho riletto per dovere d'ufficio, con scrupolosa angoscia, La Storia di Elsa Morante, seicentocinquanta pagine di noia e di ambizioni sbagliate. E non ho trovato una sola ragione per salvare questo libro.
Quando lo lessi la prima volta, parecchi anni dopo la sua uscita (1974) e dunque a polemiche spente, mi parve che nonostante gli intollerabili difetti del romanzo, un certo alone di grazia restasse intorno al personaggio della protagonista, Ida Mancuso. Ma è un alone che svanisce presto e non resiste alla rilettura. Questa donnetta innocente e insignificante, vittima predestinata colma di paure e ignara del mondo, e ciò nondimeno intrepida nel sostenere miserie e sciagure, è una versione manieristica del sublime idiota e degli umiliati e offesi di Dostoevskij; ed è anche stretta parente di quei personaggi femminili un po' stucchevoli, sospesi tra neo-realismo e favola, che la Giulietta Masina di vent'anni fa è stata così brava a interpretare. La docile Ida, purtroppo, sopporta con abnorme rassegnazione, oltre ai colpi della Storia, anche le intenzioni pedagogiche, maternali, martirizzanti dell' autrice. Appunto per ciò quell'alone di grazia mi risulta oggi un effetto falso; mi dà pena quell' aura di favola che la povera donnetta è costretta a emanare fino alla fine, quando impazzisce dopo la morte del suo bambinello Useppe, e la Morante le fa trascorrere nove e più anni, sì, nei cameroni deliranti di un manicomio, ma in uno stato paradisiaco di perenne stupore luminoso, trasognata e sorridente.
Ida, senza essere niente, proprio perché desiderosa e consapevole di quasi niente, è per la sua burattinaia un veicolo gremito di significati: è una santa, è la Madonna dolorosa, è l'utopia vivente che attraversa il magma mortuario della Storia, è la poesia che vince la realtà col sogno.
Ciò che guasta senza rimedio la concezione del libro è la sovrabbondanza di buone intenzioni e di presunzioni.
Che cosa ha voluto fare la Morante con La Storia? Opporre la sacra inconsapevolezza degli umili e dei reietti alle micidiali volontà del Potere che li macella e li stritola. Scrivere una grande epopea popolare che fosse anche una favola, un romanzo famigliare parlato da un cantastorie quasi onnisciente, che adopera e mescola i più diversi punti di vista e i più diversi codici linguistici (mimati o inventati).
La vicenda è centrata sugli anni della seconda guerra mondiale e dell' immediato dopoguerra. Ma i confini temporali del racconto sono dilatati grazie a due artifici: un lungo antefatto sui genitori e sul marito di Ida (personaggi già morti); una serie di compendi degli eventi planetari dal 1900 al 1967 che scandiscono gli intervalli tra i capitoli e aprono e chiudono il libro. Sicché, in tale impianto ingenuamente sarcastico, l'intera epoca moderna farebbe da sfondo al romanzo, mentre la Storia invaderebbe l'intreccio per esserne disperatamente espulsa (per gli umili essa è un male incomprensibile che si rifiutano di accettare).
Diciamo la verità, per dare corpo a un simile progetto occorreva un genio letterario, forse un genio tragicomico, che la Morante non possedeva, un miscuglio di sregolatezza e di rigore, una visionarietà concreta, un infallibile orecchio per la lingua e per i procedimenti mimetici della scrittura che, probabilmente, a malapena, sono riconoscibili in un Carlo Emilio Gadda. La Storia si risolve in un guazzabuglio stilistico, ingombrato dalla pedanteria descrittiva, da goffaggini puerili imposte ai personaggi (vedi l'uso rudimentale di modi dialettali e popolari che anche Pasolini, recensendo il libro, giudicò aspramente, e vedi lo spreco di vezzeggiativi e diminutivi), dalla profusione di particolari inutili, dalla pretestuosa prolissità di tanti episodi. Sul tutto predomina una concezione precostituita e melensa del mondo popolare e quindi un tono maternalistico (tremendo è il paternalismo delle madri) che fa regredire l'ipotetico lettore, chiunque egli sia, a uno stadio pre-letterario, dove tutte le bubbole e le fasullaggini sono buone.
L'inadeguatezza della scrittrice a realizzare il suo grandioso piano non significa, ovviamente, che gran parte delle sue scelte, a cominciare dal guazzabuglio stilistico, non fossero deliberate. L'assalto delle donne del Tiburtino al camion tedesco carico di farina (siamo nel 1944) è un ricordo del manzoniano assalto al forno delle Grucce; lo sproloquio del giovane ebreo Davide Segre all' osteria ricalca analoghi episodi in Dostoevskij, e non trascura la tirata di Renzo Tramaglino contro gli imbroglioni nel capitolo XIV dei Promessi sposi. E grande, qualcuno l' ha notato, dev'essere stato l'influsso del Pascoli, per le voci degli uccelli e il linguaggio infantile, ma soprattutto per l'ideologia del fanciullino, il quale come si sa nel Pascoli era invisibile dentro di noi, e nella Morante diventa visibile nel bambinello Useppe, ma ha la stessa funzione: di rendere umano l'amore, meraviglioso il mondo, soave il dolore. Tanto che, morto Useppe, Ida non vuole più appartenere alla specie umana, e soavemente impazzisce.
Non ho niente da dire contro questi influssi in sé e per sé; ci mancherebbe altro. Ma la fattura del libro non li assimila, essi decadono a punti di appoggio e mostrano che la regressione stilistica verso il popolare compiuta dalla Morante era cervellotica e traballante. Non trovo neppure interessante discutere l'ideologia esplicita o implicita del romanzo, cosa sulla quale a suo tempo si fece un gran discorrere a vuoto. La Morante della Storia era sostanzialmente anarchica, cristiana, pascoliana, buddista, vitalistica, mortuaria? Fatto sta che messa in bocca ai personaggi, osservò bruscamente Pasolini, l'ideologia morantiana diviene totalmente afasica. Il che vuol dire: non ci dice nulla, non ha un reale rilievo narrativo, non caratterizza persuasivamente i personaggi. Se poi si va a cercare l'ideologia implicita, il senso della vita che l'autrice trasmette, lo voglia o no, al lettore, allora si trova semplicemente il senso della morte come fenomeno che riduce a scherzo la vita. Pasolini non ebbe torto nel sottolineare il punto, ma dopotutto questa non è ideologia, è senso comune. Senso comune che aspira alla poesia; sono gli uccelletti, lucherini o passeri, ascoltati con rapimento dal piccolo Useppe, a gorgheggiare il loro latino: E' uno scherzo/uno scherzo/tutto uno scherzo!. Sentimento conveniente alla favola più che all' epopea degli umili in tempi di guerra e di sfacelo.
Seicentocinquanta pagine per comunicare che la morte impera e che la vita è tutto uno scherzo possono essere né troppe, né poche. L'esito dipende dall'arte della scrittura. E qui torno, con qualche esemplificazione tra centinaia possibili, al tema principale. Scelgo anzitutto un indizio minimo della trascuratezza dell'autrice nei confronti della voce che racconta. Prendiamo due passi descrittivi, entrambi attribuibili alla onnisciente narratrice (e non ai pensieri di qualche personaggio). Il primo dovrebbe farci entrare nello stato d'animo del soldato tedesco che violenta Ida e ci informa che il ragazzo era a sua stessa insaputa, un mammarolo. Ecco una coloritura locale della voce narratrice che poi risulta una pura corrività di chi scrive. Perché un poco più avanti, nell'altro passo descrittivo, la voce ci fa entrare nel Ghetto romano e, dopo aver chiamato i bambini pupetti (altra sfumatura romanesca), si esprime così: Gli abitanti, per la maggior parte, facevano i venditori ambulanti o gli stracciaiuoli. Dunque, gli stracciaroli del Ghetto, a loro insaputa, vengono suffissati alla pedantesca senza una ragione plausibile.
Questo modesto esempiuccio è il segno di una approssimazione e di un impaccio costanti nella stesura del libro, a tutti i livelli, linguistici e strutturali. La voce che racconta viene dall'esterno e, più che raccontare, si affida al resoconto con occasionali e maldestri tentativi di mimetismo. Fra costoro, ci si incontrava, ogni tanto, una ragazza invecchiata di nome Vilma: Un giorno, a questi discorsi di Vilma, ci si trovava, oltre a Iduzza, pure una donnetta anziana; e non per niente, aggiunse, tutta la gioventù ebrea di buona famiglia, che aveva i mezzi, s'era emigrata dall' Europa. Con queste povere sgratticature (mi viene voglia di lasciare la parola sfuggita dalla mia macchinetta) l'autrice vuole farci sentire che Ida sta davvero conversando con le donne del Ghetto. Salvo che la donnetta anziana dice subito dopo una battuta in dialetto e fa un discorso di quattordici righe in corrente italiano! E perché il giovane ebreo anarchico Davide Segre, mantovano, parla in uno pseudoveneto (putèla, belina, porcocan)? E i paragoni fasulli dove li mettiamo? Il bambinello Useppe, all'età di due anni, sfollato in un una casupola della periferia, ammira due ragazzotti stortarelli e rincagnati, di professione incerta (borsari neri, oppure ladri, secondo i casi), ma per lui erano tali e quali a due fusti di Hollywood o a due patrizi d'alto rango. Per lui? E che ne sa Useppe di Hollywood e dei patrizi? Si dirà: l'autrice ha dato l'idea, intendeva dire che per il bambinello quei due poveracci erano tipi meravigliosi. Già, ma a chi l'ha data l'idea? Al popolo che ascolta, o legge, a bocca aperta? Fastidiosamente falsa è sempre quella voce estranea alla scrittura del testo, e che pretende di intrattenere il pubblico, senza occuparsi se non saltuariamente di capire i propri personaggi e di renderseli plausibili.
In compenso, la voce è assai puntigliosa nel fornirci continuamente una massa di informazioni irrilevanti ai fini del racconto; se, per fare un esempio, nomina una portinaia, ci fa sapere quanti anni ha, che è nonna di molti nipoti ormai grandi, e ci descrive il suo stambugio. Dove stanno i soldi?!, chiede e richiede Nello, giovane magnaccia stolido e primitivo, alla sua derelitta puttana Santina, che è brutta e vecchiotta e lo ama con dedizione materna. E, dopo presi i soldi, se vuole, potrebbe pure andarsene: essa non gli chiede nulla, in cambio. Ma invece, uguale ai pupi dopo che la madre gli ha dato il latte, eccolo che si dà a sbadigliare, e si butta sul lettuccio, come aspettasse la ninna nanna. Non mi sento obbligato a commentare un sentimentalismo tanto mistificante. Esso vanifica l' effetto di una trama meticolosamente commovente: muoiono tutti e la Storia, sorcaorca, continua.


“la Repubblica”, 4 novembre 1986

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