L’articolo che segue è una
stroncatura, cioè un articolo costruito per “distruggere” il valore di
un’opera, per mostrarne definitivamente
la scarsa qualità, ricorrendo a tutti gli artifici della retorica, in primo
luogo al sarcasmo. Si tratta, peraltro, di una stroncatura “tardiva”, fatta non
nell’immediatezza della pubblicazione, quando La Storia il libro della Morante, oltre ad essere un best seller,
fu oggetto di dibattiti e polemiche, ma un decennio dopo, in occasione – mi
pare – di una sua trasposizione televisiva. Quando, in riva al mare di Manfria,
tantissimi anni fa (40 più o meno), lessi il libro, non lo ritenni il
capolavoro che qualche buon critico andava dicendo, ma neanche la schifezza che
dice Giuliani. Forse Elsa Morante sbagliò nel sogno impossibile di scrivere I Miserabili del Novecento, ma nel suo
romanzo ci sono figure indimenticabili e pagine che toccano il cuore, per cui
prima o poi vorrò rileggerlo, nonostante gli strafalcioni che il maestrino
Giuliani, con la matita rossa e blu, ha sottolineato con orrore. (S.L.L.)
Elsa Morante |
Ho vissuto lunghe ore di abbrutimento:
ho riletto per dovere d'ufficio, con scrupolosa angoscia, La Storia di Elsa Morante, seicentocinquanta pagine di noia e di
ambizioni sbagliate. E non ho trovato una sola ragione per salvare questo
libro.
Quando lo lessi la prima volta,
parecchi anni dopo la sua uscita (1974) e dunque a polemiche spente, mi parve
che nonostante gli intollerabili difetti del romanzo, un certo alone di grazia
restasse intorno al personaggio della protagonista, Ida Mancuso. Ma è un alone
che svanisce presto e non resiste alla rilettura. Questa donnetta innocente e
insignificante, vittima predestinata colma di paure e ignara del mondo, e ciò
nondimeno intrepida nel sostenere miserie e sciagure, è una versione
manieristica del sublime idiota e degli umiliati e offesi di Dostoevskij; ed è
anche stretta parente di quei personaggi femminili un po' stucchevoli, sospesi
tra neo-realismo e favola, che la Giulietta Masina di vent'anni fa è stata così
brava a interpretare. La docile Ida, purtroppo, sopporta con abnorme
rassegnazione, oltre ai colpi della Storia, anche le intenzioni pedagogiche,
maternali, martirizzanti dell' autrice. Appunto per ciò quell'alone di grazia
mi risulta oggi un effetto falso; mi dà pena quell' aura di favola che la
povera donnetta è costretta a emanare fino alla fine, quando impazzisce dopo la
morte del suo bambinello Useppe, e la Morante le fa trascorrere nove e più anni,
sì, nei cameroni deliranti di un manicomio, ma in uno stato paradisiaco di
perenne stupore luminoso, trasognata e sorridente.
Ida, senza essere niente, proprio
perché desiderosa e consapevole di quasi niente, è per la sua burattinaia un
veicolo gremito di significati: è una santa, è la Madonna dolorosa, è l'utopia
vivente che attraversa il magma mortuario della Storia, è la poesia che vince
la realtà col sogno.
Ciò che guasta senza rimedio la
concezione del libro è la sovrabbondanza di buone intenzioni e di presunzioni.
Che cosa ha voluto fare la
Morante con La Storia? Opporre la
sacra inconsapevolezza degli umili e dei reietti alle micidiali volontà del
Potere che li macella e li stritola. Scrivere una grande epopea popolare che
fosse anche una favola, un romanzo famigliare parlato da un cantastorie quasi
onnisciente, che adopera e mescola i più diversi punti di vista e i più diversi
codici linguistici (mimati o inventati).
La vicenda è centrata sugli anni
della seconda guerra mondiale e dell' immediato dopoguerra. Ma i confini
temporali del racconto sono dilatati grazie a due artifici: un lungo antefatto
sui genitori e sul marito di Ida (personaggi già morti); una serie di compendi
degli eventi planetari dal 1900 al 1967 che scandiscono gli intervalli tra i
capitoli e aprono e chiudono il libro. Sicché, in tale impianto ingenuamente sarcastico,
l'intera epoca moderna farebbe da sfondo al romanzo, mentre la Storia
invaderebbe l'intreccio per esserne disperatamente espulsa (per gli umili essa
è un male incomprensibile che si rifiutano di accettare).
Diciamo la verità, per dare corpo
a un simile progetto occorreva un genio letterario, forse un genio tragicomico,
che la Morante non possedeva, un miscuglio di sregolatezza e di rigore, una
visionarietà concreta, un infallibile orecchio per la lingua e per i
procedimenti mimetici della scrittura che, probabilmente, a malapena, sono
riconoscibili in un Carlo Emilio Gadda. La
Storia si risolve in un guazzabuglio stilistico, ingombrato dalla
pedanteria descrittiva, da goffaggini puerili imposte ai personaggi (vedi l'uso
rudimentale di modi dialettali e popolari che anche Pasolini, recensendo il
libro, giudicò aspramente, e vedi lo spreco di vezzeggiativi e diminutivi),
dalla profusione di particolari inutili, dalla pretestuosa prolissità di tanti
episodi. Sul tutto predomina una concezione precostituita e melensa del mondo
popolare e quindi un tono maternalistico (tremendo è il paternalismo delle
madri) che fa regredire l'ipotetico lettore, chiunque egli sia, a uno stadio
pre-letterario, dove tutte le bubbole e le fasullaggini sono buone.
L'inadeguatezza della scrittrice
a realizzare il suo grandioso piano non significa, ovviamente, che gran parte
delle sue scelte, a cominciare dal guazzabuglio stilistico, non fossero
deliberate. L'assalto delle donne del Tiburtino al camion tedesco carico di
farina (siamo nel 1944) è un ricordo del manzoniano assalto al forno delle
Grucce; lo sproloquio del giovane ebreo Davide Segre all' osteria ricalca
analoghi episodi in Dostoevskij, e non trascura la tirata di Renzo Tramaglino
contro gli imbroglioni nel capitolo XIV dei Promessi sposi. E grande, qualcuno
l' ha notato, dev'essere stato l'influsso del Pascoli, per le voci degli
uccelli e il linguaggio infantile, ma soprattutto per l'ideologia del
fanciullino, il quale come si sa nel Pascoli era invisibile dentro di noi, e
nella Morante diventa visibile nel bambinello Useppe, ma ha la stessa funzione:
di rendere umano l'amore, meraviglioso il mondo, soave il dolore. Tanto che,
morto Useppe, Ida non vuole più appartenere alla specie umana, e soavemente
impazzisce.
Non ho niente da dire contro
questi influssi in sé e per sé; ci mancherebbe altro. Ma la fattura del libro
non li assimila, essi decadono a punti di appoggio e mostrano che la
regressione stilistica verso il popolare compiuta dalla Morante era
cervellotica e traballante. Non trovo neppure interessante discutere l'ideologia
esplicita o implicita del romanzo, cosa sulla quale a suo tempo si fece un gran
discorrere a vuoto. La Morante della Storia era sostanzialmente anarchica,
cristiana, pascoliana, buddista, vitalistica, mortuaria? Fatto sta che messa in
bocca ai personaggi, osservò bruscamente Pasolini, l'ideologia morantiana
diviene totalmente afasica. Il che vuol dire: non ci dice nulla, non ha un
reale rilievo narrativo, non caratterizza persuasivamente i personaggi. Se poi
si va a cercare l'ideologia implicita, il senso della vita che l'autrice
trasmette, lo voglia o no, al lettore, allora si trova semplicemente il senso
della morte come fenomeno che riduce a scherzo la vita. Pasolini non ebbe torto
nel sottolineare il punto, ma dopotutto questa non è ideologia, è senso comune.
Senso comune che aspira alla poesia; sono gli uccelletti, lucherini o passeri,
ascoltati con rapimento dal piccolo Useppe, a gorgheggiare il loro latino: E'
uno scherzo/uno scherzo/tutto uno scherzo!. Sentimento conveniente alla favola
più che all' epopea degli umili in tempi di guerra e di sfacelo.
Seicentocinquanta pagine per
comunicare che la morte impera e che la vita è tutto uno scherzo possono essere
né troppe, né poche. L'esito dipende dall'arte della scrittura. E qui torno,
con qualche esemplificazione tra centinaia possibili, al tema principale.
Scelgo anzitutto un indizio minimo della trascuratezza dell'autrice nei
confronti della voce che racconta. Prendiamo due passi descrittivi, entrambi
attribuibili alla onnisciente narratrice (e non ai pensieri di qualche
personaggio). Il primo dovrebbe farci entrare nello stato d'animo del soldato
tedesco che violenta Ida e ci informa che il ragazzo era a sua stessa insaputa,
un mammarolo. Ecco una coloritura
locale della voce narratrice che poi risulta una pura corrività di chi scrive.
Perché un poco più avanti, nell'altro passo descrittivo, la voce ci fa entrare
nel Ghetto romano e, dopo aver chiamato i bambini pupetti (altra sfumatura romanesca), si esprime così: Gli abitanti, per la maggior parte, facevano
i venditori ambulanti o gli stracciaiuoli. Dunque, gli stracciaroli del
Ghetto, a loro insaputa, vengono suffissati alla pedantesca senza una ragione
plausibile.
Questo modesto esempiuccio è il
segno di una approssimazione e di un impaccio costanti nella stesura del libro,
a tutti i livelli, linguistici e strutturali. La voce che racconta viene dall'esterno
e, più che raccontare, si affida al resoconto con occasionali e maldestri
tentativi di mimetismo. Fra costoro, ci si incontrava, ogni tanto, una ragazza
invecchiata di nome Vilma: Un giorno, a
questi discorsi di Vilma, ci si trovava, oltre a Iduzza, pure una donnetta
anziana; e non per niente, aggiunse, tutta la gioventù ebrea di buona famiglia,
che aveva i mezzi, s'era emigrata dall' Europa. Con queste povere
sgratticature (mi viene voglia di lasciare la parola sfuggita dalla mia
macchinetta) l'autrice vuole farci sentire che Ida sta davvero conversando con
le donne del Ghetto. Salvo che la donnetta anziana dice subito dopo una battuta
in dialetto e fa un discorso di quattordici righe in corrente italiano! E
perché il giovane ebreo anarchico Davide Segre, mantovano, parla in uno
pseudoveneto (putèla, belina, porcocan)? E i paragoni fasulli dove li mettiamo?
Il bambinello Useppe, all'età di due anni, sfollato in un una casupola della
periferia, ammira due ragazzotti stortarelli e rincagnati, di professione
incerta (borsari neri, oppure ladri, secondo i casi), ma per lui erano tali e
quali a due fusti di Hollywood o a due patrizi d'alto rango. Per lui? E che ne
sa Useppe di Hollywood e dei patrizi? Si dirà: l'autrice ha dato l'idea,
intendeva dire che per il bambinello quei due poveracci erano tipi
meravigliosi. Già, ma a chi l'ha data l'idea? Al popolo che ascolta, o legge, a
bocca aperta? Fastidiosamente falsa è sempre quella voce estranea alla
scrittura del testo, e che pretende di intrattenere il pubblico, senza
occuparsi se non saltuariamente di capire i propri personaggi e di renderseli
plausibili.
In compenso, la voce è assai
puntigliosa nel fornirci continuamente una massa di informazioni irrilevanti ai
fini del racconto; se, per fare un esempio, nomina una portinaia, ci fa sapere
quanti anni ha, che è nonna di molti nipoti ormai grandi, e ci descrive il suo
stambugio. Dove stanno i soldi?!,
chiede e richiede Nello, giovane magnaccia stolido e primitivo, alla sua
derelitta puttana Santina, che è brutta e vecchiotta e lo ama con dedizione
materna. E, dopo presi i soldi, se vuole, potrebbe pure andarsene: essa non gli
chiede nulla, in cambio. Ma invece, uguale ai pupi dopo che la madre gli ha
dato il latte, eccolo che si dà a sbadigliare, e si butta sul lettuccio, come
aspettasse la ninna nanna. Non mi sento obbligato a commentare un
sentimentalismo tanto mistificante. Esso vanifica l' effetto di una trama
meticolosamente commovente: muoiono tutti e la Storia, sorcaorca, continua.
“la Repubblica”, 4 novembre 1986
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