Una rievocazione del 1986, in
qualche passaggio difficile, perché difficile è talora lo stile “alto” di
Fortini; e tuttavia intensa e vera, tale da stimolare domande in serie: “Ma
sono mai esistiti Fortini, Vittorini, Calvino e tutti gli altri? E perché nulla
è rimasto di loro? Non hanno lasciato nulla o abbiamo sperperato tutto?”.
(S.L.L.)
“Uno degli anni in cui noi uomini
d’oggi si era ragazzi o bambini…”. Con questo “c’era una volta” comincia
l’ultima opera, postuma, di Vittorini Le
città del mondo. E vuol dire nell’infanzia del mondo e in quella nostra. È
un universo adamitico, Sicilia che un Icaro sorvola, veduta celestiale dal
“Balcone delle Madonie”. Sono proprio queste o altre simili pagine di
Vittorini, lucidi idillii piscatorii o favole silvestri, a farci intendere
quale spietata metamorfosi il secolo abbia apparecchiata a tutti noi, non solo
a quel poeta bucolico.
Negli anni Venti e Trenta, più
vicino agli ermetici, Bilenchi cercava un suo nudo disegno attonito. Vittorini,
come certamente Montale, dai divieti del Ventennio trovava fomento ad un uso
dei simboli, delle mitologie delle origini e dei poteri tellúrici o magici,
quali aveva letti in Lawrence e in tanti altri inglesi, anche più che negli
americani, che tutti sempre rammentano. Di quelle contaminazioni culturali,
avventurose e spesso rovinose per gli autodidatti, elaborò il suo miele. Ma,
per riuscirvi, ebbe bisogno di strafare; tanto col faticoso sistema di
iterazioni ed ecolalie che fu la più riconoscibile delle sue sigle, quanto col
manierismo sottilissimo del suo maggiore esito; che, poco ascoltata, Maria
Corti aveva fin dal 1974 indicato proprio in Le città del mondo.
Come i suoi amati arabi o
l’Ariosto o gli spagnoli d’oro o il Marino, sbagliando, errando, riesce fino a
verdi radure luminosissime dove si ode il canto delle fenìci. Mentre sono
piuttosto le figure e le situazioni da Garofano
a Sempione a Erica a Le donne di Messina e La
Garibaldina, a parere oggi più remote di quanto non sarebbero ad una
lettura meno prevenuta. Fa eccezione il nero meteorite psichico di Conversazione proprio pochi giorni or
sono ripubblicata da Rizzoli con disegni di Guttuso, e al centro di un convegno
che si svolge a Viareggio l’1 e il 2 febbraio.
Per parte mia credo che la sua
opera abbia raggiunto vittoria solo in due momenti, opposti fra loro. Il primo
è quello lirico, che si suddivide a sua volta in due parti, tenebrosa la prima
(discesa alle Madri, di Conversazione),
lucente la seconda (e rapita di stupefazione onirica, in Le città), l’altro è un libro a torto ritenuto macchinazione
propagandistica, errore e fallimento: Uomini
e no. Intendo, nella sua prima versione, 1945. Unico fra i lettori e i
critici italiani, Noventa vide fin da allora che Vittorini si sporgeva in quel
libro al di là di sé medesimo, in una situazione “russa”, dove l’episodio
resistenziale e terroristico è, a un tempo, tutto convenzionale ma anche tutto
– oggi lo sappiamo bene – profetico. Berta è il solo personaggio vittoriniano
che (in termini non ignoti a un Cernicevskij) contesti radicalmente, con
pochissimi gesti e parole, l’eroicismo letterario dell’autore. Pragmatismo e
comportamentismo che per poco più di un decennio egli aveva potuto credere
marxistico avevano reso Vittorini (e il suo sosia) diffidente di ogni
comunicazione soprattutto verbale. Ed è invece a parole che Berta vuole
chiarire la sua situazione di donna di due uomini; dove la parola non è in
funzione di letteratura o di melodia ma di scelte etiche. Enne Due, posto di fronte
a una donna che è anche linguaggio comunicativo, fugge allora verso l’infanzia,
manca il rapporto erotico; e la sua volontà di purezza e tensione, verginale e
asessuata, si rovescia in virilismo e durezza.
Lo straordinario esito del libro,
nel suo apparente scacco romanzesco, è di darci uno dei più inattesi e profondi
autoritratti dell’autore (e di molti, di allora e di oggi), del suo
arcangelismo, segnato da una crepa o ferita occulta che gli amici avvertirono
sotto l’apparenza integra di Elio. Tanto che Vittorini è tornato ad apparire
loro in sogno o visione e sempre come figura di profilo o di fuga; a segno da
farli dubitare avesse mai avuta realtà.
Ci siamo urtati, spesso e a
lungo, caratteri irreconciliabili. Lui “contatto passionale con le cose”, come
scrisse, e col particolare e il concreto, io, con l’astratto, il negativo, e
l’invisibile. Non mancò chi speculasse su quei contrasti, attizzandoli.
Distanti, ne abbiamo sofferto. Ma Elio non aveva dimenticato, né io, il primo
quinquennio del dopoguerra. Dopo di allora gli ho sentito pronunciare parole
cattive (anche contro di me); meschine mai. Sfavillava d’ira contro i pedanti,
i professori, gli esangui. Odiava tenebre e pietà... Una volta, ammalato, in
casa sua (penombra, un letto basso) disse, con quel suo affetto irato: “In
punto di morte vorrei ancora guardare laggiù, dalla finestra” – e verso le
persiane voltava di scatto la mascella e la gran bocca saracena, immobili le
spalle e le mani piantate sul lenzuolo.
Nome e opera di Vittorini
dimorano oggi nella medesima luce d’eclisse che già aveva avvilito Pavese. E,
credo, per le medesime ragioni; pessime ma irresistibili. Che il suo nome non
torni mai se non per ironia sulle pagine dei nostri attuali maestri del
non–pensiero non dovrebbe però troppo deporre a suo favore: quel che è mutato è
proprio quel che egli perseguì con maggiore coerenza e cioè l’idea di una
letteratura vivente che avesse il compito di evitare l’invecchiamento del
mondo. Si è adempiuto uno dei voti di Asor Rosa: che la letteratura smettesse
di pretendere di essere tutto, augurandosi proprio per questo di poter essere
qualcosa. E lo è, infatti, quanto basta perché si sorrida come di ingenui
ragazzi di coloro che ancora venti o trenta anni fa, pensavano di poter dire,
nella tradizione romantica rianimata dalle avanguardie, qualcosa sulle “verità
ultime” nelle forme della lingua nazionale
Certo, se torno a leggere i
tormentosi appunti che una pietà forse ingiusta di studiosi e di amici volle
pubblicare poco più di venti mesi dopo la morte di Vittorini, col titolo di Le due tensioni, ritrovo lo scoramento
che me ne venne allora, di fronte a quell’ininterrotto accumulo di affermazioni
esasperate e di razionalizzazioni incalzanti, dove si leggeva il meglio e il
peggio della sua intelligenza. Il peggio, che era presunzione di onnipotenza
intellettuale; il meglio, che era fede in valori verificabili potenzialmente da
tutti. Da quel peggio gli era sempre venuta la scarsissima attenzione a idee
che, contraddicendolo, richiedessero alla sua mente la pazienza, virtù a lui
sempre nemica, e quindi la orgogliosa disperazione del rovello autocritico,
fatta di rovesciamenti radicali e perciò infruttuosi.
Da quel meglio traeva invece una
sovrabbondante passione per i moti innovatori degli individui e della storia
che, nella oratoria della sua prosa saggistica, non si dispiegava soltanto ma
coraggiosamente proponeva a modello di un possibile altro; e comune linguaggio
della comunicazione, di un “volgare” di genti liberate. Diario in pubblico, titolo perfetto, fu l’ultimo gesto di scrittura
italiana rivolto in quella direzione, dove si cercasse ancora equilibrio fra il
narcisismo della letteratura che parla di se stesso e l’altruismo di un
linguaggio che si vuole di relazione. L’ultimo; perché se Vittorini aveva
saputo superare e conservare l’estetismo della sua educazione nell’ampiezza di
una letteratura internazionale di grandi miti e di catastrofi atroci e
generose, non aveva retto ai trionfi del nuovo Capitale, nella cui “scienza”
aveva pur continuato a credere fino alla fine.
Era infatti un “progressista”; e
le contraddizioni del progresso lo ammutolirono. Lavorava ancora al progetto
d’una rivista internazionale quando s’accorse che l’età dei viaggi, ossia del
suo più amato mito e simbolo, era finita. Volse in odio l’amore per la propria
giovinezza. Delirò di industria come luogo della ricerca innovatrice e
rivoluzionaria. Eppure nel suo ospedale, poco prima della morte, lette le
accuse di populismo rivolte alla sua opera passata, lo sentii rivendicare, da
amico quale era, le radici della propria e mia natura e difenderle da quelle
che vedeva come imminenti esaltazioni tecnocratiche.
Chissà che anno era. Forse la
prima manifestazione di studenti attaccata dalla polizia. Contro la Spagna di
Franco. Una carica, alcuni arresti. Con altri vidi Vittorini venire avanti;
sceso dalla sua casa di via Gorizia. Non gli andai incontro, anzi mi
allontanai. Due carabinieri mi fermano e fra di loro, come Pinocchio, mi avvio
al cellulare. La strada sgombra sotto le lampade; la folla, in un silenzio
improvviso, premuta sui marciapiedi. Alta, gridando, la voce di Elio: “Arrestate
anche me, sono uno degli organizzatori!”. Detto fatto. Agguantano anche lui ed
eccoci fra i giovani arrestati. Il giorno dopo lasciai alla portineria di Elio
un esemplare della prima edizione italiana dei Miserabili, con un biglietto, per farlo ridere, alla pagina celebre
“Ci sono anch’io”, quando la guardia nazionale fucila gli insorti.
Siamo stati insieme, in questo
senso, molto a lungo, fino al comune modo di vivere il XX Congresso sovietico e
l’Ungheria del 1956, fino alle comuni amicizie francesi negli anni d’Algeria,
1958-1960, e fino a quella mattina dell’ottobre del ’62, crisi di Cuba, quando
ognuno con i propri fiori in braccio, ci si incontrò nel punto dove la sera
prima una camionetta della Celere aveva ammazzato il suo primo studente,
Ardizzone. Bisogna rileggere le prose non narrative di Vittorini per capire che
cos’è, quando c’è, il coraggio mentale. E dovessi rispondere a un giovane “Leggi
Diario in pubblico”, direi, “tutto”.
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