"Lu pisciatoriu", vale
a dire l'orinatoio o vespasiano, stava lungo il corso (via Vittorio Emanuele
II) a fianco della Matrice, di fronte al negozio di Totò Fontana, tabacchino,
cartoleria, libreria, rivendita di giornali. Lo ricordo di lamiera e senza
troppa puzza d’ammoniaca. Ma forse a quel tempo (a cavallo tra gli anni 50 e
60) gli odori – anche forti - li sentivamo meno: era ancora diffusa la
coabitazione con le bestie da soma e abituale era il loro transito per le vie
principali, si considerava normale il passaggio e il passeggio di un gregge numeroso
o della carriola con la "sarda viva", erano tanti i pollai sulla
strada, le galline e gli escrementi in circolazione. E le persone, le stesse
persone, grandi e piccini, si lavavano meno e mascheravano assai meno l'odore di
stallatico. Doveva dunque essere intenso nelle caldissime sere d’estate l’odore
della piazza piena di braccianti giornalieri (“jurnatari”) che affittavano la
propria forza-lavoro, cioè se stessi (“s’addruvavanu”).
Il sindaco Riggeri per un po’
mise in funzione anche un cesso pubblico per gli “atti grandi” – come dicevano
certe anziane pudibonde. Si trovava nel cortile interno del Cinema Italia, anzi
“Nuova Italia” (il nome era cambiato con l’avvento della Repubblica), ove aveva
sede anche l’ECA, l’ente comunale di assistenza, a quel tempo molto attivo
(erano in centinaia ad avere la “tessera dei poveri”). “Lu cacaturi” era stato
affidato a un tipo basso, dall’accento “’ncarcatu” (un “sangisipparu”
probabilmente): credo che si chiamasse Giovanni e lo si chiamasse “zzì
Giuvanni”. Non aveva stipendio, ma per la sorveglianza e la pulizia (approssimativa)
era ricompensato con i proventi del servizio offerto: 20 lire a cacata, che egli
esigeva (“siggìva”) alla consegna della chiave. Era rigido: senza soldi non si
cacava. S’era fatto scrivere un cartello in versi da “lu zzì Roccu”, che aveva
casa proprio sul cortile, un vecchio mafioso poeta, arrestato e fatto
condannare da Mori e liberato dai “liberatori” dopo una quindicina d’anni di
“collegio”. Così recitava il cartello, in verità non molto originale: “Entra
amico e nell’entrar tu pensa / che ti
farò buon viso ma non credenza. / La feci un dì per non mostrarmi ingrato /
Persi l’amico e non fui pagato”.
“Lu zzì Giuvanni” (o comunque si
chiamasse) non fece molti affari. I più, scoraggiati dall’esosità, se
riuscivano a trattenersi, evitavano la cacata a pagamento e andavano giù per la
via Umberto, verso la Chiesa Nuova (così era chiamata la Chiesa
dell’Addolorata) e la piazza della Vittoria. Lì era stato costruito un pronto
soccorso detto “lu spitalettu”, mai entrato in funzione, e perciò diventato ben
presto una specie di rudere a causa dell’incuria e dell’ingordigia: alcuni avevano
divelto le “tazze” dai W.C., altri recuperato i tubi e c’era chi aveva smontato
e portato via porte e finestre, nonostante la ridicola recinzione fatta mettere
dal sindaco. Quella piazza era pochissimo illuminata e dentro “lu spitalettu”
si poteva cacare senza spesa e senza dovere andare “a di fora”, cioè fuori
dall’abitato, in campagna.
“Lu spitalettu” era usato anche
“pi fari cosi luordi” tra ragazzi e ragazzine. Talora ci andava anche un
omosessuale semipubblico che chiamavano “liuni”, il quale generalmente usava
“minarla” ai ragazzi del popolo dentro il cinema, compensandoli con dieci lire
o con il regalo di “calia e simenza”. Ma con qualcuno riusciva a ottenere di più:
dava convegno a “lu spitalettu”. Quando qualcuno dei cacanti scorgeva nel buio
dell’edificio diroccato ombre intente a codesti atti impuri raccattava
sassolini, che lì non mancavano, e li lanciava contro i fornicatori gridando
“Zzù puorcu!” o consimili insulti.
Come facevano le donne? Il problema era ridotto, giacché in pochissime e di rado uscivano di casa. In genere le donne, “ppi sbarrari” (per evacuare), chiedevano e ottenevano ospitalità da conoscenti. Oppure tornavano a casa. Solo quando si trovassero in un quartiere distante dal proprio domicilio, “all’atra punta di paisi”, le più giovani andavano anche loro “a di fora” per i bisogni. Si mettevano dietro un “supalu”, una sorta di siepe di sassi, alta, e c’era sempre qualcuno di famiglia o un gruppo di amiche che, a distanza, faceva la guardia.
Come facevano le donne? Il problema era ridotto, giacché in pochissime e di rado uscivano di casa. In genere le donne, “ppi sbarrari” (per evacuare), chiedevano e ottenevano ospitalità da conoscenti. Oppure tornavano a casa. Solo quando si trovassero in un quartiere distante dal proprio domicilio, “all’atra punta di paisi”, le più giovani andavano anche loro “a di fora” per i bisogni. Si mettevano dietro un “supalu”, una sorta di siepe di sassi, alta, e c’era sempre qualcuno di famiglia o un gruppo di amiche che, a distanza, faceva la guardia.
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