Uno scritto di Gramsci del 1917,
dall’edizione torinese dell’Avanti di cui era caporedattore. Un pezzo
bellissimo e rigoroso, in cui è esercitata al massimo grado l’arte della
critica, che è primariamente arte del distinguere e separare. (S.L.L.)
Un'immagine del canonico Cottolengo senza aureola |
Ieri ha finalmente avuto termine
a Roma la fiera che i clericali hanno allestito intorno alla figura del
Cottolengo (G. allude alle cerimonie per
la beatificazione, terminate il 29 aprile 1917; ndr). Il municipio ha
naturalmente dato la sua cordiale adesione alla fiera e ha inviato a Roma due
degli assessori più intinti della pece dell'ipocrisia. Affari di ordinaria
amministrazione per la giunta, che è il risultato di un connubio contro natura
tra sedicenti liberali e arnesi di sagrestia. Affari che interessano poco la
cittadinanza, la quale ormai ha giudicato questa accozzaglia di malnati della
vita pubblica.
Dispiace forse un po' che sia
stata scelta la figura del Cottolengo come idolo intorno al quale ballare il
trescone degli ubbriachi. Perché il Cottolengo non è stato uno qualunque e, ciò
che più importa, non è stato un clericale, ma è stato, da vivo, avversato
fieramente da clericali e da preti. Il Cottolengo era un uomo, semplicemente,
con tutti i difetti e tutte le virtù che caratterizzano gli uomini completi:
per caso era cattolico, ma anche se fosse stato buddista o maomettano la sua
opera non sarebbe stata diversa da quella che fu. Era un religioso, ma la sua
religione non si concretava obiettivamente in una o nell'altra delle credenze
in voga; nell'atto essa era la religione del dolore incompreso, della
sofferenza che non riesce a trovare nella società moderna un lenimento e un
riparo in nessuna organizzazione di comitati o di associazioni borghesemente anguste
e grette. Tutti i relitti di umanità, i pezzi anatomici che sono uomini solo
perché nella superficie fisica rassomigliano lontanamente all'uomo, ma nei
quali il caso ha messo troppo poco o addirittura niente di spirito e di
intelligenza : questi detriti, che provocherebbero la nausea e il disgusto
nelle damine benefiche dal cuore incipriato e dal cervello di farfalle in
fregola, hanno trovato a Torino il loro protettore, il loro sostentatore nel
Cottolengo.
Con una pazienza e una fermezza
di carattere che il cattolicismo non spiegherebbe (o perché non tutti i
cattolici, o almeno un buon numero di essi non rassomigliano a quest'uomo?)
egli ha drizzato un edifizio di carità che è diventato il suo monumento
maggiore. Il cattolicismo, dopo aver avversato quest'uomo in vita, dopo avergli
attraversato in tutti i modi la via, perché egli non seguiva le solite rotaie e
non accettava l'autorità ingombrante della gerarchia chiesastica, dopo che morì
non volle lasciar cadere l'occasione di sfruttare, per i suoi fini di setta,
gli effetti della sua opera. Ha voluto che l'alone di riconoscenza che
circondava la memoria dell'uomo fosse
trasportato sulla testa di un idolo della sua Kaaba. E lo ha beatificato. Il
morto ha insozzato il vivo, il lumacone chiesastico ha voluto deporre il suo
nastro argenteo bavoso su un idolo da piazza, perché diventasse redditizio.
Noi, che siamo uomini liberi,
riconosciamo i meriti grandi di quest'uomo e le sue virtù. I suoi principi
economici non sono certo i nostri; il suo modo di concepire la solidarietà
umana non può essere certo il nostro: il Cottolengo era un religioso, un
mistico, e noi siamo realisti e vogliamo che la solidarietà sia basata su un
ordinamento nuovo della società e non sul buon cuore dei singoli, che vivono e
muoiono con l'opera loro. Noi lavoriamo per l'eterno, per la continuità
immanente del concreto. Ma, da uomini liberi, ammiriamo gli uomini come il
Cottolengo, che hanno espresso il massimo dell'amore e della pietà umana, che
hanno realizzato integralmente, in una società avversa, sorda, opaca, un loro
ideale individuale. Perciò ci dispiace che di essi si impadronisca la piazza,
la turpe speculazione settaria e ipocritamente religiosa.
Non firmato, «Avanti!» ed.
piemontese, 30 aprile 1917 poi in Antonio Gramsci - Scritti giovanili, Einaudi, 1958.
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