Nel 1990, su “la talpa libri” del
“manifesto”, in occasione di una nuova edizione degli Epigrammi di Callimaco (trad. di Alceste Angelini, Einaudi),
apparvero la breve biografia del poeta e l’accurata recensione redatte da
Jolanda Insana, poeta messinese. Riprendo l’una e l’altra. (S.L.L.)
Callimaco di Cirene
Nato a Cirene poco prima del 300,
Callimaco, figlio di Batto come l'omonimo fondatore della città, si trasferisce
presto ad Alessandria dove per mantenersi agli studi fa il maestro elementare
nel sobborgo di Eleusi. Finché non viene chiamato a corte con l'incarico di
riordinare e catalogare le opere della Biblioteca di cui non fu mai direttore.
(Sulle vicende della Biblioteca di Alessandria è avvincente il racconto di
Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa,
appena ristampato da Sellerio). Nel 246/45 dedica alla moglie di Tolomeo III Evergete,
sua conterranea, La chioma di Berenice»,
l'epilogo cioè degli «Aitia», nota
fin dall'antichità nella traduzione di Catullo (carme LXVI). Muore intorno al
240. Delle varie e numerosissime opere di Callimaco, 800 secondo gli antichi,
in versi e in prosa, ci restano Moltissimi titoli, alcuni riassunti, i sei
«Inni» (tradotti, insieme a «La chioma di Berenice», da Valeria Gigante
Lanzara, nel 1984 per Garzanti), gli «Epigrammi», alcuni «Giambi», frammenti
dei poemi «Aitia» e «Ecale», nonché dei 120 libri dei «Pìnakes», le tavole del
catalogo.
Gli Epigrammi
Sono davvero duecento per ogni
secolo, anche se specialissimi, i lettori di Callimaco, come sostiene Montale
(chissà poi chi l'ha scritto!) nella Farfalla
di Dinard? I poeti esagerano, si sa, e se i lettori di poesia sono scarsi,
sono però meno scarsi di quanto si voglia far credere, volendo far credere che
nei canti si perde tempo, e non nei conti.
Su Callimaco ha pesato e pesa
tuttora la pregiudizievole contrapposizione tra mezzogiorno ellenico e tramonto
ellenistico, tra solarità e crepuscolo. Succede infatti che pensando alla
letteratura ellenistica, il pensiero dei più corre, anzi non corre e resta
fisso, al concetto di decadenza, in evidente contrasto con l'idea che si ha
invece delle arti visive. Tant'è che i pezzi più famosi (non da duecento spettatori)
sono tutti ellenistici come la Venere di
Milo o la Nike di Samotracia.
E non solo. Tutta l'estetica, la
teorizzazione dell'arte ellenica poggia su un pezzo ellenistico, francamente
brutto, il Laocoonte che poi è copia
romana di un originale in bronzo del II sec. a.C: tronfio e teatrale, esteriore
e ridondante, che tutto si muove e in realtà non si muove per niente, è
diventato però modello esemplare di classicità. E pure è l'equivalente delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Com'è
allora che l'arte è bella classica e misurata (e tutti lì a vedere la Venere la
Nike), e la scrittura è brutta superflua e decadente (e tutti lì a non
leggere)? Trionfo del luogo comune che inneggia allo spettacolo di facile
accesso, e tutti in fila per l'orgia collettiva della visione dove non si vede
niente? e la gente avanzando a marce forzate di piccoli passi collassa, non
perché colpita dal 'bello' (tutto un falso la sindrome di Stendhal) ma perché
manca l'aria, e quel po' che arriva ai polmoni sa di chiuso al naso e non arriva
alla testa.
Se è cosi, e tutto è destinato al
rapido consumo, è giusto che gli Epigrammi
di Callimaco siano destinati a uno o due lettori, e dunque al diletto della
lettura e della rilettura. Ma non è vero, e non era vero neppure ieri: a Roma,
infatti, nel I secolo d.C. veniva graffito su una parete di casa un epigramma
di Callimaco - diffuso tòpos letterario, presente anche in Lucrezio, Properzio
e Ovidio. Dell'inopportuna serenata davanti alla porta dell'amato il poeta
accusa il vino e la passione, e si scusa così: «Ma quando giunsi non gridai il
mio nome/ o di chi sono: baciai la soglia:/ se questa è colpa, sì, sono
colpevole». Questo epigramma è il XLII dell'edizione einaudiana che presenta,
con il testo greco a fronte, i 63 epigrammi della tradizione manoscritta oltre
a cinque frammenti pervenuti per citazione, amorevolmente curati con un
ricco apparato di note e rinvii preziosi, e felicemente tradotti da Alceste
Angelini.
Questi epigrammi possono anche
essere un'occasione per rileggere Penna alla luce di Callimaco, senza supporre
necessariamente una diretta derivazione, o Callimaco alla luce di Penna, non
dimenticando quell'anima 'lithòleustos'
(degna di sassate, da lapidare) che va a ragazzi e s'aggira smaniosa d'amore e
per amore si sdoppia secondo un motivo antichissimo che comincia con Saffo,
compare in Teognide, ritorna in Anacreonte e con Catullo approda a Roma.
E se l'amore è il demone del
Simposio platonico che possiede l'amante infelice fino al punto di spolparlo e
di ridurlo tutto «ossa e capelli», spia della passione è il vino che scopre le
ferite nascoste, svela l'interno affanno, e in un guizzo popolaresco il 'doctus poeta' sigilla l'epigramma XLIII:
«ladro riconosco l'orma del ladro» che in qualche modo è la battuta di
Vitaliano Brancati «il ladro non vede che furti» nella Governante. (Ma perché Angelini traduce in terza persona usando la
forma del proverbio, che invece Callimaco adatta alla prima persona? in questa
traduzione così leggera e intonata, frutto di paziente lavoro, stupisce l'unica
nota stonata «pel sole» di pag.63 - lapsus calami, forse, o hendekasyllabi.)
Numerosi accanto agli erotici gli
epigrammi sepolcrali per i morti giusti, per i morti bambini, per i morti per
acqua secondo la ricorrente metafora (la vita «traversa il mare come una
folaga») che arriverà a quello scricchiolio linguistico e psicologico che è Il naufragio del Deutschland di Hopkins
o a T.S.Eliot di Morte per acqua.
Senz'acqua invece l'Allegria di naufragi di
Ungaretti.
E sono epitafi reali, dettati da
partecipe tenerezza e commo¬zione, o immaginari, nati per scherzo, enigma o
scaramanzia. Notevole tra i primi è la storia tremenda di Basilicò, la ragazza
di Cirene che, deposto sul rogo il piccolo fratello, non sopporta di vivere, e
al tramonto si uccide. Tra i fittizi spicca il XIII dove modalità linguistiche
del quotidiano, nel dialogo a tre voci (passante-tomba-defunto), vengono
adottate, con effetti di deflagrazione, per raccontare dell'aldilà: regna il
«buio pesto», di ritornare manco a parlarne, è tutta una balla e Plutone è una
favola, però «un manzo costa appena un soldo giù nell'Ade». E c'è
l’autoepitafio. In punta di penna il poeta dice che il figlio di Batto conosce
l'arte di cantare e ridere nei banchetti - un modo elegante per ribadire la
libertà di scelte formali.
E dunque coscienza di sé e
della propria scrittura; lui, scaltro erudito, acre
polemista e infaticabile catalogatore, autore di inni, elegie, epilli, epinici
e forse anche drammi satireschi, commedie e tragedie, lui, «Ipponatte redivivo»
dei Giambi, libresco e citazionista,
non disdegna i versi leggeri, le battute fulminee e fulminanti, le ambiguità
foniche, cui affida la parte sua più vera per quanto sofisticata, più privata
per quanto ostentata.
Contrasti e dispute letterarie si
stringono alla vita, in scorci narrativi e drammatici, calati nella dimensione
della città reale - Alessandria con le sue strade e fontane, portici e teatri,
e i larghi trivi dove i ragazzi giocano alla trottola. Ed è un paesaggio urbano
dove il livello di vita materiale è fortemente migliorato rispetto all'antica polis: Alessandria è più bella, più
ricca, più igienica e funzionale ai bisogni; non è soltanto vetrina di
ostentazioni di potere e ricchezza, ma offre strumenti razionali per traffici,
commerci e attività culturali.
Callimaco è uomo del suo tempo,
di un mondo e di una civiltà che pure esibendosi nelle superdimensioni del
Colosso di Rodi, del Mausoleo di Alicarnasso o l'ara di Pergamo, ama la piccola
dimensione del cammeo e della gemma, la glittica e l'arte orafa (si veda
nell'epigramma XLVII la descrizione della saliera in forma di navicella),
produce macrosculture e microsculture, come le belle Tanagrine in terracotta,
così dette da Tanagra in Beozia, di cui Alessandria fu grosso centro di
produzione. E sono giovani in atto danzante, in pose flessuose, in vesti
eleganti, figure di fanciulli e fanciulle intente al gioco o allo studio, ma
anche animali e giocarelli, molti dei quali si leggono negli epigrammi votivi e
descrittivi. E come la statuina coesiste col gigantismo statuario, così accanto
al vasto poema cresce e si sviluppa l'epigramma con tutte le possibili fratture
e variazioni dello 'stichos' originario, - il rigo inciso sulla stele funeraria
o su un oggetto, - tipo la divertita iscrizione sulla cintura verginale, di un
epigramma di Asclepiade, dove arte glittica e letteraria coincidono
perfettamente. Che poi Asclepiade sia di Samo forse non è casuale.
A Samo, infatti, punto di
passaggio tra occidente e oriente, tra Asia ed Egitto (dove l'arte di incidere
la pietra dura aveva una tradizone millenaria), fin dal VII secolo a.C. l'arte
orafa ha una grande fioritura con famosi maestri, da Teodoro a Mnesarco, padre
di quel Pitagora che emigrando in Magna Grecia vieterà l'uso di anelli con
figure divine...
E come alle grandi forme si
contrappongono le piccole («non mi piace il raglio dell'asino ma il canto delle
cicale», dice Callimaco), così ai grandi 'sentimenti' dell'epica o della
tragedia si contrappongono quelli più quotidiani, e sono tutti lavorati, al
modo dei vari materiali, dai più malleabili ai più resistenti, con estrema
disinvoltura, con impiego di paronomàsia, assonanze e allitterazioni, con
accumulo di decorazioni concettuali e musicali. Nel rifiuto dell'ideologia e
nel trionfo del realismo, venato di spregiudicatezza e scetticismo, grande è la
padronanza delle tecniche, potente il gusto di sperimentare in ogni campo del
sapere, fino alle messa a nudo del corpo e al gioco infinito delle parti, per
cui gli dei sono trascinati a terra e qualche volta pargoleggiano, come l'Eros
paffutello.
Nel desiderio di dare «voce ai
sassi», secondo il principio aristotelico di verosimiglianza, contano allo
stesso modo il calco del cadavere (tanto di moda per i ritratti funerari, con
la nuova tecnica messa a punto da Lisistrato, fratello di Lisippo, l'artista
prediletto da Alessandro Magno) e il grappolo d'uva, nature morte e animali,
avanzi di banchetto e piante, sia nelle arti visive, comprese le così dette
minori, che nella scrittura. Nell'esperienza visiva, dell'immagine che arriva
all'occhio e varia a ogni variare del punto di osservazione (per cui appare
infinita la serie dei fenomeni, pur conservando ogni fenomeno, cioè ogni aspetto della realtà, il
proprio valore intrinseco) può succedere che sfuggano alla stretta
sorveglianza, cui prima erano costretti, elementi di pathos, toni sentimentali.
Fino all'esplosione, al grido, agli echi dell'eco.
“il manifesto”, 1 giugno 1990
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