Primi anni '60. Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni (quasi invisibile) si esibiscono per Dario Fo e Franca Rame |
Doveva essere una “cosa grande”
Milano, prima del dominio dei Craxi, dei Ligresti e, soprattutto, di Berlusconi,
una rete di circoli, di esperienze, di intelligenze. Nell’intervista che segue
Renato Pozzetto, opportunamente sollecitato da Egle Santolini, ne restituisce
qualche frammento, più che sufficiente a scatenare in noi la nostalgia per un
tempo che abbiamo perduto e per un luogo che abbiamo sognato. (S.L.L.)
1965. Foto di gruppo alla Pasticceria Gattullo |
«Ci vede, lì nella foto che hanno
appeso al muro, con le nostre belle cravattine precise? Umberto Bindi, Bruno
Lauzi, Jannacci, io, Cochi, Sergio Endrigo, Augusto Martelli, Giorgio Gaber.
Era il 1965. E il posto era questo, il solito Gattullo». Se un mattino di
giugno alle otto e mezza Renato Pozzetto ti convoca in una pasticceria a Porta
Lodovica, di sicuro ci vai di corsa. Perché è l'occasione di capire, nel posto
giusto e dal testimone più prezioso, come lo spirito del surrealismo sia
planato, tra dopoguerra e boom, sul pavè di Milano. In principio era il derby,
non inteso ancora come tempio del cabaret ma come duello Milan-Inter. «In
quelle domeniche là era tanta l'attesa della partita che ci inventavamo una
sfilza di scuse finte per dire agli amici che no, a noi non c'importava, allo
stadio non ci saremmo andati: ho la zia da andare a trovare! la comunione del
cuginetto! I fiori a portare al cimitero!»
Di che anni stiamo parlando, e voi chi eravate?
Più i 50 che i 60, andavamo
ancora a scuola, Milano era piccola piccola e il Gattullo un buco. Noi eravamo
io e Cochi che ci conoscevamo da bambini, più gli amici della compagnia: il Cobianchi,
lo Zambelli, il Ciccarelli»
Ma il gruppo storico? Beppe Viola, Jannacci?
Nooooo. Per loro c'è tempo. Coi
ragazzi si stava seduti sulle panchine, si giocava a palla, si beveva un bianchino.
Si prendeva il tram numero 3 e si andava in centro a guardare le vetrine. Non
avevamo niente. Niente, a parte le parole. E con quelle giocavamo».
È lì che sono nati i tormentoni del cabaret e poi della tivù?
«Più che altro avevamo un gergo:
andare a mangiare si diceva "al pito", bere "al trinco",
partire per le ferie "andare al Sant'Anselmo della spesa". Fare
l'amore, che di quei tempi era una parola grossa, era “prendersi il gusto”. E
le ragazze “le bastone”, nel senso che ci tenevano sotto schiaffo. Ma l’aspetto
più interessante era un certo humour nero. Moriva qualcuno nel quartiere e
ci davamo la notizia con un
gesto: "hai presente il Mario dell'edicola? Ciao-oo...". E il cancro
era il fantolo: gli è venuto un fantolo al melone».
Ma il Cobianchi, lo Zambelli e il Ciccarelli non sono diventati
famosi, e lei e Cochi invece sì. Com'è successo che il mondo dello spettacolo è
poi arrivato da Gattullo?
«Siamo stati noi a portarlo lì.
Milano allora era mescolatissima, capitava che noi studenti finissimo alla
galleria d'arte notturna "La Muffola" di Velia e Tinin Mantegazza e
conoscessimo Lucio Fontana, Piero Manzoni che poveretto è morto giovane,
Luciano Bianciardi, e poi il Dario, Dario Fo: dopo un po' saltava fuori una
chitarra e ci si metteva a cantare. Si andava anche all'Oca d'oro di via
Lentasio, qualche volta al Giamaica dove passava spesso Mariangela Melato che
stava in Montebello: ma io con Mariangela andavo soprattutto a ballare il
rock'n'roll in una balera di corso Europa. Con Cochi eravamo appassionati di
canti popolari, anarchici e di protesta, come quelli sullo scandalo della Banca
romana: "S'affondano le mani nelle casse - crac! si trovano sacchetti
pieni d'oro - crac! e noi per governare, come fare? Rubar, rubar, rubar,
sempre rubare!"».
Niente di nuovo sotto il sole.
«Appunto. Gino Negri ci ha notati
e ci ha portati a cantare nei circoli di sinistra. Ma anche in piedi nelle sale
biliardo, se capitava. Ecco, quei nuovi amici son venuti a trovarci da
Gattullo, e il posto gli è piaciuto. Dopo la chiusura la cucina la occupavamo
noi, c'era un tizio detto il Diavolo che faceva da mangiare da padreterno».
E poi la passione si è trasformata in lavoro.
«È arrivato Jannacci e ha imposto
le regole: è stato lui a spiegarci che, se si voleva fare sul serio, bisognava
impegnarsi nel lavoro, essere puntuali, non scadere nella volgarità. Ci ha dato
coraggio e ci ha aiutato a scrivere le prime canzoni, a cominciare da A me mi piace il mare. Quando è nato il
Caber64 in via Santa Sofia è stata la svolta cruciale: dagli scherzi con gli
amici si è passati all' "ecco a voi". Poi è arrivato il Gruppomotore,
con Enzo, Teocoli, Lino Toffolo. E il Derby, con Dario che è venuto a impostare
il lavoro. E la tivù, e Beppe Viola che lavorava in Rai. Bar di riferimento,
sempre Gattullo».
Ci racconta la storia
dell'ufficio facce?
«Era una specie di circolo virtuale, inesistente, però
organizzato come il Rotary o il club di Topolino. Essere ammessi era
un'impresa, e se ti riusciva ti davano il timbro. Il presidente era il
Cobianchi, ovvio, anche se noi immaginavamo che sopra di lui ci fosse una
figura più evanescente, occulta. Qualche anno dopo un ufficio facce me lo
volevo comprare davvero, un negozio qui in via Col di Lana, avrei aperto
bottega e messo la targa. Poi ho pensato che quegli anni erano finiti, non è
più tempo di ufficio facce».
Ma lei è ancora quello
del bar.
«E il mio orgoglio è stato quello di aver portato in teatro,
al cinema e in tv proprio quell'umorismo lì. Un po' freddo, anzi glaciale.
Senza sorridere, senza chiamare l’applauso. Lo faccio da sempre. Lo facevamo
tutti a Porta Ludovica».
La Stampa, 16 giugno 2013
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