Sul finire degli anni Ottanta,
Silvio Mursia – figlio, credo, dell’editore Ugo – si fece, a sua volta editore
di una rivista mensile di cui era anche direttore e che intitolò “Racconti”. Si
trattava del tentativo, presto fallito, di “offrire nuovi scrittori a nuovi
lettori”. Il corpo della rivista, infatti, doveva essere costituito da nuovi
racconti d’autore italiano, scelti tra quelli partecipanti ai concorsi
letterari della penisola o inviati alla rivista. Accanto ai racconti c’era una
parte redazionale di articoli e rubriche, tra le quali “il classico del mese”.
Tra i testi redazionali del primo
numero c’era una sorta di storia del “genere rosa”, da Liala agli anni Ottanta,
appunto, firmata da Rosaria Guacci. Costei, per definire il genere usava come
criterio quello suggerito da un critico importante, Vittorio Spinazzola, cioè
il pubblico: considera pertanto rosa il romanzo, il racconto, il fotoromanzo,
il serial televisivo che si rivolge a un pubblico (quasi) esclusivamente
femminile ed ha come argomento (quasi) esclusivo vicende sentimentali.
La prima parte del saggio, quella
che qui riprendo, racconta dei fasti italiani della letteratura “rosa”,
periodizzando, indicando autori e temi fino agli anni sessanta.
La seconda parte del breve saggio,
omessa,– in conseguenza del criterio scelto – era dedicata a produzioni
internazionali che sembravano all’epoca colonizzare il pubblico “rosa” come i
romanzi della Cartland o della serie Harmony. Viene ripreso, questo proposito,
un giudizio di Spinazzola: “Ora l’Italia è diventata importatrice di rosa che
si vendono a peso, come gli Harmony. Quel tanto di autenticamente testimoniale
è scomparso in un appiattimento quasi ossessivo nella sua ripetitività: le
protagoniste sono antifemminili (e antifemministe); partono da emancipate,
usano un linguaggio spregiudicato, ma poi cedono sempre al maschio-padrone che
le sposa e le allontana dal loro lavoro. Mi sgomenta un poco il successo di
questi rosa senza personalità, che paiono usciti da una catena di montaggio:
vuol dire che comunque vengono incontro a esigenze molto diffuse”.
A voler prendere il rosa italiano
da lontano, nei suoi incroci con una narrativa di maggior pretesa, non rimane
che l'imbarazzo della scelta. Valgano per tutti il Verga prima maniera di Tigre reale, Storia di una capinera e Eva,
dramma di amore-passione di tipo romantico che decisamente trascolora nel rosa,
o il D'Annunzio dei "romanzi della rosa" (Il piacere, L'innocente, Il trionfo della morte), cantore di un
mondo dove donne dai nomi improbabili, di bellezza e ardore inesausti,
abbigliate à la mode, ton sur ton, attendono in salottini
fumiganti d'incensi che i vari Andrea Sperelli d'Ugenta, in vestaglia di
moerro, si apprestino a possederle.
Certo D'Annunzio scriveva e
approfondiva ciò che era congeniale e assimilabile al "suo spirito
crudo" e a un gusto di profanazione dei tabù che lui avrebbe definito di
marca barbara e noi, con meno enfasi retorica, troveremmo più abruzzese.
Non diverso, come gusto del
proibito, da quello di alcuni autori degli anni '20 e '30 come Guido da Verona,
Mario Mariani, Luciano Zuccoli, la cui Freccia
nel fianco, storia di un amore maledetto tra un'intemerata fanciulla e il
giovane Brunello Trialdi di S. Pietro, conosciuto bambino di otto anni e amato
all'età di venti, provocò più di un frisson
alle lettrici del ventennio.
Come loro debitore di molti
artifici verbali al vocabolario, D'Annunzio risulta certamente meno ironico di
un altro scrittore allora all'indice, Pitigrilli. In Cocaina, per esempio, la protagonista Maud, "creatura internazionale,
transoceanica, acclimatabile a pelli maschili di tutte le razze", è di una
sensualità astratta, più in accordo alle necessità della narrazione che a
qualcosa di voyeuristicamente abbordabile dal lettore.
Questa disciplina del genere è
assolutamente "rosa", cosi come il "rosa", parafrasando una
definizione di Umberto Eco coniata per Pitigrilli, è
"anarcoconservatore".
All'inizio della sua storia il
romanzo rosa, inteso come storia d'amore animata dal gioco dei contrasti e
degli equivoci, con una donna come protagonista d'obbligo, si gioca su due
possibili modelli, uno aggressivo, di marca straniera, dove la donna compete
con il maschio, cui comunque soggiacerà alla fine con maggior gusto di entrambi
(si sa che la lotta eccita!), l'altro nostrano, conservatore, dove la donna si
prepara non senza rinunce al suo ruolo di moglie e di madre.
Spesso l'intento d'ordine in
questo rosa italiano non è disgiunto da quello pedagogico. Così Liala, maestra
del genere, si vanterà di aver scritto i primi manuali di bon ton per signorine, insegnando le norme più rudimentali di
igiene insieme alle tattiche migliori per domare la brutalità maschile. La sua
donna ideale è “piacevole, pulita, molto educata, che non chiacchieri troppo.
Se non è intelligentissima e coltissima, non importa. Non deve dare fastidi.
Poi, se non è un'aquila, pazienza. Anche se la donna è un'ochetta, ciò non
guasta. Non deve dare pensieri, non deve fare interrogazioni: sempre che voglia
piacere agli uomini. Loro non vogliono essere annoiati e nella donna vogliono
trovare un po' di riposo". E l'uomo ideale?
"Deve essere alto almeno un
metro e ottanta. Avere spalle larghe ed essere intelligente. Lui sì, lo voglio
intelligente."
Quanto al giudizio sul proprio
valore letterario non c'è problema: "Il mio autore preferito sono io. Non
leggo nessun altro perché non voglio essere influenzata. I miei libri sono
comunque educativi. Insegno le buone maniere e la pulizia. Liala è arrivata
prima del deodorante".
La vita di Liala, al secolo
Amaliana marchesa Negretti, si confonde con quella delle sue eroine come quella
di molte 'maestre d'amore' che hanno fatto scuola.
Nata nobile, di pelle chiara e di
capelli fulvi, Amaliana si sposa col primo amore, bello, alto probabilmente
secondo lo standard raccomandato poi alle lettrici, avvolto nel maschio odore
di esotiche sigarette, marchese (di Villafranca).
Dopo il matrimonio lui comincia a
trascurarla, Amaliana ne soffre, finché un giovane aviatore splendido nella sua
divisa da ufficiale la rapirà nell'estasi dei sensi.
Il marito, molto dandy e blasé,
acconsente al divorzio in Ungheria, ma il destino ha deciso altrimenti.
L'aviatore precipita col suo aereo nel lago di Como. È il 1926, la data della
fine del sogno d'amore. Amaliana torna con il marito che, sempre più indifferente,
la riprende con sé senza entusiasmo. Da allora Amaliana scriverà novelle e
racconti "per non impazzire". Il suo primo romanzo, Signorsì, edito da Mondadori, è esaurito
dopo venti giorni.
Scrivendo di lei, i critici la
scambiano per un uomo, forse perché è strano che una donna si intenda così bene
di aerei. D'Annunzio la vuole conoscere e la battezza Liala, perché
"un'ala sta bene nel nome di una scrittrice d'aviazione".
Da allora Liala ha pubblicato
settanta romanzi e innumerevoli novelle, conversazioni e ricordi, ha guadagnato
un fiume di denaro, ristampato regolarmente i suoi libri, continuato a narrare
di abluzioni profumate nonostante i progressi della pratica cosmetica.
Già Liala, ed il fascismo in
generale, portano nella letteratura rosa il segno dei tempi, una flessione
rispetto a una certa narrativa femminile di fine Ottocento. A parte il fenomeno
Carolina Invernizio, onesta artigiana di intrighi e trame romanzesche, alcune
scrittrici dell'epoca tentano un'analisi della condizione femminile che
travalica la letteratura di facile consumo cui i loro nomi sono legati.
Neera dipinge in Teresa, il
quadro di certe agre solitudini femminili in provincia, consumate in segreto
nelle case parentali, e sullo stesso tema di grande attualità in una certa ristretta
borghesia insistono Matilde Serao, Annie Vivaldi e la Marchesa Colombi con il
suo Matrimonio in provincia, tornato
di moda non molti armi fa.
È interessante la tipologia di
scrittrice che queste donne rappresentano: tra loro ci sono giornaliste, poetesse,
romanziere che non nascondono l’intento di far circolare idee nuove, nuovi
modelli. E non importa se la scrittrice in questione è madre e sposa
integerrima come Neera, spregiudicata come Annie Vivanti o avventuriera come la
Contessa Lara, uccisa dal giovane amante. Tutte sentono
la missione pedagogica di educare
la donna descrivendone la vita spesso misera e frustrata e informandola,
all'occorrenza. Il fascismo riprende e stravolge questi temi, dalla protezione
della maternità e dell'infanzia all'educazione dello spirito e del corpo (la
ginnastica) per le ragazze.
Dopo i fasti e i nefasti del
gruppo delle Grandi Firme cui aveva aderito il già menzionato Pitigrilli,
inizia la martellante campagna della sposa e madre prolifica. Fanno eccezione
le amanti platoniche che si struggono per l'eroico soldato in guerra e le
morette sensuali del romanzo coloniale che contrappuntano con il loro caldo
erotismo l'assenza e la santità della fidanzata bianca.
Anche gli editori Perino e
Salani, insieme a Le Monnier e Sonzogno, si pongono il problema di fabbricare
rosa come prontuari per signorine, attrezzate così ad amare senza troppo
concedere se non al momento giusto e a respingere voglie e appetiti che il
rosa, evocando, esorcizza. Non mancano contraddizioni nel genere, o meglio si
suggeriscono diverse destinazioni (di fanciulle), destini, qualità
temperamentali a seconda dello strato sociale che l'inquieta borghesia del
tempo, vera balena di Giona, contiene nel suo grande ventre.
Così Liala consiglia alla
fanciulla di modesta condizione di avere pretese modeste, accettando la corte
sbrigativa del soldato, rude sì, ma pur sempre maschio virile e franco:
"Non so se sono il tipo adatto a te: sono certo che tu sei la donna adatta
a me e quindi è inutile stare a fare tante discussioni: io ti voglio e ti
prendo. No, non scostarti, ti prendo in moglie. Capisco bene che la mia
proposta deve sbalordirti, ma io non sono abituato a perdere tempo... Sono un
galantuomo: qui vedi? ho due medaglie d'argento. Vuol dire elle non sono un
coniglio. 'Tempo da perdere, ripeto, non ne ho. Chiedo subito il permesso di
sposarti, perché essendo ufficiale effettivo debbo avere il permesso dal
ministero'"'.
Nel 1937 in un classico rosa
della Salani compare La donna forte, Nietzschéenne
nel titolo originale, che si ispira addirittura al superuomo di Nietzche ed è
forte perché capace di affiancare un capitano d'industria, capitalista
emergente.
La contraddizione marca il rosa
anche ad altri livelli.
Donne intrepide, i cui sensi
assopiti sono risvegliati al piacere e alla vita in situazioni eccitanti,
devono a fine romanzo retrocedere affondando nella rinuncia e nella
rassegnazione o in un matrimonio appagante perché sedativo di fremiti avvenuti
prima dell'esito pacificante (o mortifero?). Come Peter Pan, costretto a
rientrare a casa dopo la meravigliosa fuga nei giardini di Kensington, o come
le eroine di Jane Austen, di certo più ironiche e savie delle nostre, impaniate
in un matrimonio necessario alle regole sociali ma non alla mente dell'autrice.
Liala, La Mura, Luciana
Peverelli, Brunella Gasperini (la più sofisticata), il primo Scerbanenco che
negli anni '50 dirigeva Annabella e
aveva fatto la scommessa con se stesso, dopo una quantità di romanzi e racconti
abbastanza lunghi, di scrivere novelle di due cartelle al massimo, dettano
legge nel rosa degli anni '40 e '50.
Avranno un'influenza decisiva
sull'editoria popolare italiana e in particolare su quella sentimentale
disegnata.
Nel 1946 nascono il settimanale
di novelle Confidenze di Liala, che
ha per madrina Luciana Peverelli, e Grand
Hotel, inizialmente di sole dodici pagine ma destinato ad aumentare di
consistenza sia cartacea che di prestigio nel nuovo mondo del rosa a fumetto.
Il pubblico si allarga da quello piccolo-medio borghese a quello di massa, che
grazie ai disegni comincia a leggere per la prima volta, un giornale .
Di vicende reali e di guerre
ovviamente non si parla, si parla solo di schermaglie amorose, litigi tra
innamorati, gelosie presto o tardi pacificate in un roseo e radioso avvenire.
La struttura narrativa e l'ambientazione dei testi si semplificano sempre più.
Le eroine, come il loro pubblico, non sono avide di sapere e non spacciano
nobiltà letterarie o culture inesistenti.
Ma il rapporto con la
consumatrice è in qualche modo onesto: si vendono sogni a consolazione della
miseria del presente, il dopoguerra, e si soddisfano nel rapporto solitario con
la lettrice richieste sentimentali altrimenti inevase.
La trama del nuovo fumetto
risente dell'influenza narrativa della stampa del cuore tradizionale. In una
vicenda chiaroscurata da equivoci e sospetti amorosi a catena, tra molti 'non
detto' e altrettanti 'troppo detto', due esseri di rara avvenenza e bontà, o
finta alterigia che nasconde timidezza e ansia d'amore, si incontrano e
scontrano, si perdono e ritrovano, sono istradati su false piste da
avventurieri/avventuriere che li
vogliono per loschi fini (l'arricchimento a loro spese è il più gettonato),
viaggiano per dimenticare, ma alla fine, dopo travagli d’ogni genere, c’è l’agnizione
finale e l’amore può divampare nella legalità matrimoniale.
Tutti i luoghi topici dei Grand Hotel e dei romanzi rosa sono racchiusi
in questa storia esemplare e verranno rigorosamente mantenuti per tutti gli
anni a venire.
Il piacere della lettura si fonda
sulla ripetizione, sul ritrovamento confortevole del già noto che permette di
costruire per indizi ciò che accadrà. Chi legge rivive in proprio la storia ma
diventa cosciente del gioco implicito nel testo. Può allora giocare con piacere
e libertà crescenti il desiderio di stare in quella storia e il controllo della
medesima.
da “Racconti”, anno I n.1, maggio
1988
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