25.2.14

L’UDI e la “rivoluzione permanente” delle donne (di Aldo Natoli)

Nel volume Udi: laboratorio politico delle donne (edizioni Libera Stampa Cooperativa, pagg. 481, lire 30.000) Maria Michetti, Margherita Repetto e Luciana Viviani ci forniscono "idee e materiali per una storia" della più grande organizzazione delle donne italiane di sinistra in questo dopoguerra. Si tratta, in realtà, di una vera e propria storia, anche se ricostruita, attraverso documenti e saggi analitici, dall'angolo visuale del gruppo dirigente. Osservando il quadro che ne risulta, è lecito dire che il movimento delle donne costituisce una componente essenziale della storia di quegli anni; comunque, una sfida consistente a chi volesse scriverne un'altra da un punto di vista "maschile". Questa considerazione può servire a dare un'idea della dimensione reale del ruolo svolto dall'Udi nel nostro recente passato. E' di Gramsci l'affermazione che "scrivere la storia di un partito significa scrivere la storia generale di un paese"; ora, non c'è alcuna esagerazione in questo caso se, rovesciandola, dicessimo che non si può scrivere la storia d'Italia in questo quarantennio senza tenere nel dovuto conto quella del movimento delle donne organizzato dall'Udi.
Può darsi che nella strategia dei dirigenti della sinistra (Togliatti, anzitutto) la fondazione dell'Udi, sullo scorcio del 1944, fosse un caso particolare (ma rilevante) di quella apertura di massa che mirava ad affrontare una lunga guerra di posizione e che portò alla invenzione, appunto, del "partito di massa": mutazione, più che variante, del partito di tradizione leninista. Ma il campo assegnato all'Udi era talmente vasto ("la democrazia ha bisogno della donna, la donna della democrazia", disse Togliatti) che anche la fisionomia della organizzazione "cinghia di trasmissione" fra il partito e le masse più lontane (concezione di Stalin più che di Lenin) poteva essere stravolta e riplasmata dalla pratica politica creativa, quando questa si avventurava ad esplorare per la prima volta la metà rimasta oscura della società italiana. E se così non fu, o non lo fu abbastanza (il gruppo dirigente dell' Udi ne discuterà criticamente già nel 1953), ciò fu dovuto al concorrere di tanti fattori, che si può ben dubitare dell'inevitabilità storica di quel limite. Non converrà dimenticare, certo, che quelli fra il 1947 e il 1953 furono gli anni in cui la sinistra giocò una partita decisiva per la vita e per la morte. Se sopravvisse, subì tuttavia perdite gravi (arroccamento e dipendenza strategica, "quadrato" nella sfera politica, ritirata e perdita di collegamenti nella sfera sociale, impoverimento culturale), che si risentiranno nel decennio successivo. Come poteva l'organizzazione di massa delle donne non rimanere compressa, appiattita forse, in quella stretta?
Eppure l'Udi iniziò la propria riflessione critica già nel '53; i sindacati lo faranno solo nel '55, dopo la sconfitta alla Fiat; il Pci non lo farà (e lo farà in maniera distorta dai terremoti intervenuti nell'Urss) prima della seconda metà del '56. Dunque si potrebbe perfino sostenere (le autrici non lo fanno) che nel gruppo dirigente delle donne vi fu, precocemente, la coscienza di un limite che era allora di tutta la sinistra: una insufficiente capacità di autonomia, intesa non come pura e semplice eterodipendenza, ma come insufficienza nell'analisi della realtà di quegli anni e nell'impegno intelligente per trasformarla: sia pure, s'intende, entro gli orizzonti delimitati da Togliatti (che, del resto, erano molto vasti)...
Non si dimentichi, inoltre, che - come i sindacati, del resto - l'organizzazione di massa delle donne era sorta dall'alto, senza gestazione e senza retroterra, e quindi non poteva riallacciarsi a nessuna storia reale, fosse anche per mutarla, come aveva fatto Togliatti per il partito. In questo volume si ritorna più volte sul difetto di memoria storica rispetto al femminismo italiano sul volgere del secolo. Anche altri lo ha fatto. Ma si tratta di un punto di vista discutibile; questo riferimento non è forse una ricerca di paternità (mi scuso, di maternità) un po' meccanica e convenzionale? Fatti i conti con l'innegabile interruzione nella trasmissione dell'informazione e con la censura tipica, su questo tema, nella tradizione del movimento operaio, che cosa poteva offrire la predicazione di isolatissime avanguardie della fine-principio del secolo al primo tentativo di organizzazione delle masse femminili, nella seconda metà degli anni Quaranta, sulle rovine lasciate dalla guerra? Lo scetticismo con cui risponderei a questa domanda sarà certamente maschile, ma esso corrisponde alla mia convinzione che, come la rivoluzione proletaria ha espresso un certo livello storico della coscienza della società e della classe, così il femminismo, per divenire un' idea-forza di massa, doveva nascere e fiorire da una storia, da un'esperienza, anzi da una ricchezza di esperienze vissute e sofferte e, attraverso la sofferenza, cresciute nella coscienza. Non si parte dal femminismo: ci si arriva, o meglio, ci si può arrivare.
In questo senso, la storia dell'Udi, così come viene ricostruita, fra documenti e riflessioni, in questo volume, è la straordinaria vicenda della crescita lenta, contraddittoria, infinitamente dolorosa, mai irreversibile, della consapevolezza di una inferiorità ingiusta ed umiliante, imposta alle donne dalla storia, cioè dalla società e dalle istituzioni costruite dagli uomini; consapevolezza che giungerà al più alto livello di lucidità quando saprà rispecchiare se stessa (autocoscienza, soggettività) e scoprire la radice della propria alienazione nella privatezza (non puramente naturale, ma anch'essa storica: penso a un celebre passo di Marx nei Manoscritti del 1844) del rapporto uomo-donna, nel suo essere inquinato dall' archetipo padrone-servo, da ruoli e gerarchie sociali, morale e pregiudizi conformi.
Non c'è alcuna linearità nel pluridecennale percorso dell'Udi, dalla emancipazione alla liberazione; talora - dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta - essa sembra trasportata sulla cresta delle profonde trasformazioni in corso nell' economia e nella società. Ma, ancora una volta, non è senza interesse notare quanto la presa di coscienza nel gruppo dirigente dell'Udi sia precoce rispetto ai "ritardi" della sfera politica, sia di governo che di opposizione. L'Udi cerca, e comincia a trovare la propria autonomia pur entro una tematica tipica del movimento operaio, il lavoro come mezzo di emancipazione della donna: una via obbligata sul volgere degli anni Cinquanta, ma ricca di risultati immediatamente positivi, anche se parziali (riformistici, si dirà più tardi). Ma essa sviluppa anche l'approccio a una questione più intrinseca alla propria natura di organizzazione delle donne: il rapporto donna-famiglia, il lavoro originariamente sfruttato delle casalinghe, sia nelle città che nelle campagne. Un tema apparentemente più "arretrato", ma straordinariamente più vicino alla radice dell' inferiorità organica della donna, perché scava inconsapevolmente e ancora alla cieca nei recessi del privato.
C'è però un velo impenetrabile, ancora, che annebbia la presa di coscienza e che non sarà superato. L'obiettivo della pensione alle casalinghe, oltre che deludente, per la cinica manipolazione che ne faranno le istituzioni, sarà anche mistificante, fuorviante; la via maestra per uscire dal ghetto familiare resterà il lavoro e, naturalmente, la creazione di una rete di servizi sociali. Vi è una crisi politica dell'Udi negli anni del centro-sinistra: contesa fra socialisti e comunisti, oscillante fra governo e opposizione, giungerà vicina alla "paralisi". Ma sarà proprio in questo periodo (giugno 1963) che l'Udi si svincolerà dalla disciplina monolitica della Federazione internazionale delle donne, governata da Mosca. Uno strappo anche qui precoce, si direbbe, che provocò frizioni almeno con una parte del gruppo dirigente del Pci. Su questo versante si aprì un' incrinatura destinata ad approfondirsi senza ritorno. L'autonomia dell'Udi si rafforzerà progressivamente con il crescere della consapevolezza dello "specifico" femminile, con il suo esprimersi in obiettivi, forme di organizzazione e metodi di lotta sempre più lontani dal quadro moderato, politicamente sovramediato, della linea del Pci. Già nel 1964 l'Udi giunge alla scoperta della radice maschile della violenza; ma la sua "paralisi" le impedirà di essere fra i protagonisti della contestazione del ' 68.
Solo più tardi ne coglierà e maturerà i frutti, quando, negli anni Settanta, darà contributi di primo piano, non senza affrontare aspre lotte interne, alla lotta per la conquista delle leggi sul divorzio e sull'aborto e alla vittoria sulla controffensiva reazionaria. Una lunga "anabasi" e, nel corso di essa, una lotta contro la sclerosi e il burocratismo, un risveglio di coscienze, uno stimolo a una civile ribellione. Una sorta di "rivoluzione permamente", un capitolo che non era stato ancora scritto della storia d'Italia degli ultimi quarant' anni. Un capitolo - forse è inutile dirlo - tutt' altro che chiuso.

“la Repubblica”, 26 marzo 1985

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