Nel volume Udi: laboratorio politico delle donne (edizioni Libera Stampa
Cooperativa, pagg. 481, lire 30.000) Maria Michetti, Margherita Repetto e
Luciana Viviani ci forniscono "idee e materiali per una storia" della
più grande organizzazione delle donne italiane di sinistra in questo
dopoguerra. Si tratta, in realtà, di una vera e propria storia, anche se
ricostruita, attraverso documenti e saggi analitici, dall'angolo visuale del
gruppo dirigente. Osservando il quadro che ne risulta, è lecito dire che il
movimento delle donne costituisce una componente essenziale della storia di
quegli anni; comunque, una sfida consistente a chi volesse scriverne un'altra
da un punto di vista "maschile". Questa considerazione può servire a
dare un'idea della dimensione reale del ruolo svolto dall'Udi nel nostro recente
passato. E' di Gramsci l'affermazione che "scrivere la storia di un
partito significa scrivere la storia generale di un paese"; ora, non c'è alcuna
esagerazione in questo caso se, rovesciandola, dicessimo che non si può
scrivere la storia d'Italia in questo quarantennio senza tenere nel dovuto
conto quella del movimento delle donne organizzato dall'Udi.
Può darsi che nella strategia dei
dirigenti della sinistra (Togliatti, anzitutto) la fondazione dell'Udi, sullo
scorcio del 1944, fosse un caso particolare (ma rilevante) di quella apertura
di massa che mirava ad affrontare una lunga guerra di posizione e che portò
alla invenzione, appunto, del "partito di massa": mutazione, più che
variante, del partito di tradizione leninista. Ma il campo assegnato all'Udi
era talmente vasto ("la democrazia ha bisogno della donna, la donna della
democrazia", disse Togliatti) che anche la fisionomia della organizzazione
"cinghia di trasmissione" fra il partito e le masse più lontane
(concezione di Stalin più che di Lenin) poteva essere stravolta e riplasmata
dalla pratica politica creativa, quando questa si avventurava ad esplorare per
la prima volta la metà rimasta oscura della società italiana. E se così non fu,
o non lo fu abbastanza (il gruppo dirigente dell' Udi ne discuterà criticamente
già nel 1953), ciò fu dovuto al concorrere di tanti fattori, che si può ben
dubitare dell'inevitabilità storica di quel limite. Non converrà dimenticare,
certo, che quelli fra il 1947 e il 1953 furono gli anni in cui la sinistra
giocò una partita decisiva per la vita e per la morte. Se sopravvisse, subì
tuttavia perdite gravi (arroccamento e dipendenza strategica, "quadrato"
nella sfera politica, ritirata e perdita di collegamenti nella sfera sociale,
impoverimento culturale), che si risentiranno nel decennio successivo. Come
poteva l'organizzazione di massa delle donne non rimanere compressa, appiattita
forse, in quella stretta?
Eppure l'Udi iniziò la propria riflessione
critica già nel '53; i sindacati lo faranno solo nel '55, dopo la sconfitta
alla Fiat; il Pci non lo farà (e lo farà in maniera distorta dai terremoti
intervenuti nell'Urss) prima della seconda metà del '56. Dunque si potrebbe
perfino sostenere (le autrici non lo fanno) che nel gruppo dirigente delle
donne vi fu, precocemente, la coscienza di un limite che era allora di tutta la
sinistra: una insufficiente capacità di autonomia, intesa non come pura e
semplice eterodipendenza, ma come insufficienza nell'analisi della realtà di
quegli anni e nell'impegno intelligente per trasformarla: sia pure, s'intende,
entro gli orizzonti delimitati da Togliatti (che, del resto, erano molto
vasti)...
Non si dimentichi, inoltre, che -
come i sindacati, del resto - l'organizzazione di massa delle donne era sorta
dall'alto, senza gestazione e senza retroterra, e quindi non poteva
riallacciarsi a nessuna storia reale, fosse anche per mutarla, come aveva fatto
Togliatti per il partito. In questo volume si ritorna più volte sul difetto di
memoria storica rispetto al femminismo italiano sul volgere del secolo. Anche
altri lo ha fatto. Ma si tratta di un punto di vista discutibile; questo
riferimento non è forse una ricerca di paternità (mi scuso, di maternità) un
po' meccanica e convenzionale? Fatti i conti con l'innegabile interruzione
nella trasmissione dell'informazione e con la censura tipica, su questo tema,
nella tradizione del movimento operaio, che cosa poteva offrire la predicazione
di isolatissime avanguardie della fine-principio del secolo al primo tentativo
di organizzazione delle masse femminili, nella seconda metà degli anni
Quaranta, sulle rovine lasciate dalla guerra? Lo scetticismo con cui
risponderei a questa domanda sarà certamente maschile, ma esso corrisponde alla
mia convinzione che, come la rivoluzione proletaria ha espresso un certo
livello storico della coscienza della società e della classe, così il
femminismo, per divenire un' idea-forza di massa, doveva nascere e fiorire da
una storia, da un'esperienza, anzi da una ricchezza di esperienze vissute e
sofferte e, attraverso la sofferenza, cresciute nella coscienza. Non si parte
dal femminismo: ci si arriva, o meglio, ci si può arrivare.
In questo senso, la storia dell'Udi,
così come viene ricostruita, fra documenti e riflessioni, in questo volume, è
la straordinaria vicenda della crescita lenta, contraddittoria, infinitamente
dolorosa, mai irreversibile, della consapevolezza di una inferiorità ingiusta
ed umiliante, imposta alle donne dalla storia, cioè dalla società e dalle
istituzioni costruite dagli uomini; consapevolezza che giungerà al più alto
livello di lucidità quando saprà rispecchiare se stessa (autocoscienza,
soggettività) e scoprire la radice della propria alienazione nella privatezza
(non puramente naturale, ma anch'essa storica: penso a un celebre passo di Marx
nei Manoscritti del 1844) del
rapporto uomo-donna, nel suo essere inquinato dall' archetipo padrone-servo, da
ruoli e gerarchie sociali, morale e pregiudizi conformi.
Non c'è alcuna linearità nel
pluridecennale percorso dell'Udi, dalla emancipazione alla liberazione; talora
- dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta -
essa sembra trasportata sulla cresta delle profonde trasformazioni in corso
nell' economia e nella società. Ma, ancora una volta, non è senza interesse
notare quanto la presa di coscienza nel gruppo dirigente dell'Udi sia precoce
rispetto ai "ritardi" della sfera politica, sia di governo che di
opposizione. L'Udi cerca, e comincia a trovare la propria autonomia pur entro
una tematica tipica del movimento operaio, il lavoro come mezzo di
emancipazione della donna: una via obbligata sul volgere degli anni Cinquanta,
ma ricca di risultati immediatamente positivi, anche se parziali (riformistici,
si dirà più tardi). Ma essa sviluppa anche l'approccio a una questione più
intrinseca alla propria natura di organizzazione delle donne: il rapporto
donna-famiglia, il lavoro originariamente sfruttato delle casalinghe, sia nelle
città che nelle campagne. Un tema apparentemente più "arretrato", ma
straordinariamente più vicino alla radice dell' inferiorità organica della
donna, perché scava inconsapevolmente e ancora alla cieca nei recessi del
privato.
C'è però un velo impenetrabile,
ancora, che annebbia la presa di coscienza e che non sarà superato. L'obiettivo
della pensione alle casalinghe, oltre che deludente, per la cinica
manipolazione che ne faranno le istituzioni, sarà anche mistificante,
fuorviante; la via maestra per uscire dal ghetto familiare resterà il lavoro e,
naturalmente, la creazione di una rete di servizi sociali. Vi è una crisi
politica dell'Udi negli anni del centro-sinistra: contesa fra socialisti e
comunisti, oscillante fra governo e opposizione, giungerà vicina alla
"paralisi". Ma sarà proprio in questo periodo (giugno 1963) che l'Udi
si svincolerà dalla disciplina monolitica della Federazione internazionale
delle donne, governata da Mosca. Uno strappo anche qui precoce, si direbbe, che
provocò frizioni almeno con una parte del gruppo dirigente del Pci. Su questo
versante si aprì un' incrinatura destinata ad approfondirsi senza ritorno.
L'autonomia dell'Udi si rafforzerà progressivamente con il crescere della
consapevolezza dello "specifico" femminile, con il suo esprimersi in
obiettivi, forme di organizzazione e metodi di lotta sempre più lontani dal
quadro moderato, politicamente sovramediato, della linea del Pci. Già nel 1964
l'Udi giunge alla scoperta della radice maschile della violenza; ma la sua
"paralisi" le impedirà di essere fra i protagonisti della
contestazione del ' 68.
Solo più tardi ne coglierà e
maturerà i frutti, quando, negli anni Settanta, darà contributi di primo piano,
non senza affrontare aspre lotte interne, alla lotta per la conquista delle
leggi sul divorzio e sull'aborto e alla vittoria sulla controffensiva
reazionaria. Una lunga "anabasi" e, nel corso di essa, una lotta
contro la sclerosi e il burocratismo, un risveglio di coscienze, uno stimolo a
una civile ribellione. Una sorta di "rivoluzione permamente", un
capitolo che non era stato ancora scritto della storia d'Italia degli ultimi
quarant' anni. Un capitolo - forse è inutile dirlo - tutt' altro che chiuso.
“la Repubblica”, 26 marzo 1985
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