Su “La letteratura e noi”, il
sito diretto da Romano Luperini, sono stati pubblicati di recente, per
l’introduzione e la cura di Maria Borio due inediti. Si tratta di due articoli,
L’uomo d’affari e Il collaboratore avventizio, apparsi nel
1883 su «L’Inevitabile», periodico triestino, e firmati Justus, dei quali
alcune recenti scoperte documentarie rendono sicura l’attribuzione a Italo
Svevo. Ringrazio Riccardo Cepach, direttore del Museo sveviano di Trieste, per
la aver permesso la circolazione in rete di questi sapidi testi, tra cui quello
qui ripreso. Mi pare evidente che “uomo d’affari” aveva allora un significato
leggermente diverso dall’attuale: oggi si direbbe “faccendiere”, per di più di
basso livello. (S.L.L.)
Tra i mille e un mestieri, cui si
consacra la misera umanità per combattere la grande battaglia del pane
quotidiano ve n’ha uno di recente invenzione che si chiama: far degli affari.
Far degli affari vuol dir nulla, e vuol dir tutto; vuol dire: andare in busca
di quel che capita, far d’ogni erba fascio e attaccarsi anche alle lame dei
rasoi per istrizzare il soldo di borsa al prossimo, poiché, come ha detto
benissimo Dumas figlio: les affaires
c’est l’argent des autres.
Ma badiamo a non cadere in
equivoci. Gli affari propriamente detti, sono le grandi speculazioni
industriali, commerciali e finanziarie, le operazioni di borsa, le imprese
ferroviarie, i lavori publici, [sic] ecc. Ma, a questi si dedicano, com’è
naturale, banchieri, capitalisti, grossi negozianti, uomini di polso, che
occupano già un posto in società. Il mestiere di far degli affari consiste,
invece, nel non averne mai sottomano nessuno e andarne cercando a fiuto, per la
piazza, come il maiale cerca i tartufi. Chi esercita un siffatto mestiere è,
generalmente, una pecora segnata: o merciaiuolo fallito, o impiegatuzzo messo
alla porta per uno di quegli irresistibili allungamenti di zampe, che la umana
benignità ha convenuto di chiamare indelicatezze.
Nei primi tempi, dopo la sua
disgrazia, pensò un momento al suicidio, tanto più che è di moda; ma l’acqua
gli parve sempre troppo fredda, il fuoco troppo caldo, le finestre troppo alte,
il carbone troppo soffocante e troppo ignobile l’impiccagione. Fece quindi il
sacrificio di vivere e, non riuscendo a trovare impieghi, pe’ quali d’altronde
provava un’invincibile repugnanza nella congenita sua tendenza al dolce far
nulla, si consacrò sin che gli riuscì facile, a quello accattonaggio
inguantato, che consiste nell’arrestare per via l’amico, il conoscente, spesso
il primo capitato e dopo avergli sciorinato tutta una interminabile geremiade
di sventure e di guai, domandargli a prestito una diecina di fiorini con
l’obbligo sottinteso di non restituirli mai più.
Ma, per quanto vecchio, è sempre
vero il proverbio, che è il giuoco che dura poco. A non lungo andare, i primi
capitati, i conoscenti ed amici odorarono in lui il repellente tanfetto del
frecciatore, e cominciarono a guardare i cornicioni delle case, quando
l’incrociavano per via, a salutarlo in fretta, non più salutarlo e, se messi
alle strette, tirar a lungo con una significante sgrullata di spalle, o
lanciargli sul naso un conchiusivo: “seccatore importuno!” Allora si vide
nuovamente spalancato sotto i piedi quello sconfinato abisso della miseria, che
non ha altre uscite fuor che lo spedale o l’ergastolo, e allora si decise a far
degli affari.
Se si fosse trovato in possesso
solo del tanto quanto necessario ad appigionare uno stambugio di botteguccia;
avrebbe aperto, lì per lì, un’agenzia di collocamento: sarebbe stato il suo
sogno! Ma gli mancavano perfino quei quattro da farsi risuolare le scarpe. Si
buttò, quindi, come a nuoto, per le publiche vie e per le piazze,
frammettendosi a sensali di professione, rigattieri e piccoli cottimanti di
lavori, e studiandosi di insinuarsi, a mo’ di conio, nelle loro operazioni.
L’ufficio suo si limita a
scuoprire bighellonando gli affarucci che si trovano, dirò così, in istato
d’incubazione. C’è una famigliola che si vorrebbe disfare di un gioiello, di un
quadro, di un mobile? Ed egli galoppa diritto dal rigattiere e gli susurra
all’orecchio: “Eh, ci sarebbe il tale oggetto da vendere!” Sa che un
proprietario, un pigionale, un negoziante vuol fare eseguire alcuni restauri
alla sua casa, al suo quartiere, alla sua bottega? Corre dal cottimista, dal
capomastro, magari dal muratore, e gli mormora sotto i buchi del naso: “Eh, c’è
un lavoro da fare!” Trova un mercante di campagna, un fittaiuolo, che ha
disponibile una partita di grano, di legna da ardere, di fichi secchi? E vola
dal sensale e gli grida levando alte le braccia e gli occhi al cielo:
“Magnifico affare! magnifico affare!” E se il magnifico affare viene conchiuso,
o il restauro eseguito, o l’oggetto comprato, stende la mano e raccoglie nel
palmo il “caffè”.
Voi lo vedete, là, ad un canto di
Piazza del Teatro o a girondolare nei caffè, unto, bisunto, col cappello
sfondato, la camicia sudicia, la cravatta cenciosa, il panciotto assente, la
giacca a rappezzi, i pantaloni a frange, le scarpe a crepacci... aspettare in
agguato l’“affare” che passa.
Justus
da “L’inevitabile” del 17 ottobre
1883
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