22.2.14

Banchieri e banditismo globale in un libro di Federico Rampini (mc)

Nella recensione che segue, firmata “mc”, si espone con chiarezza il succo di un libro che vale la pena, se non di leggere, almeno di sfogliare. Alla formula “banditismo globale”, certamente efficace, io preferisco quella del mio amico, prof. Giuseppe Carlo Marino, “globalmafia”, perché evidenzia il ruolo diretto e di primo piano che - dentro la rapina bancaria e finanziaria - hanno le grandi organizzazioni criminali a base etnica e le holding ad esse collegate. (S.L.L.) 
Ventesimo secolo. Un banchiere a Zurigo
Invitato a parlare di banditi al Festival internazionale della storia, a Gorizia, Rampini ha trovato senza fatica un’evidente similitudine tra le avventure del vecchio Jesse James che svaligiava le banche dell’Ovest selvaggio e l’avidità rapinatrice dei banchieri d’oggi. “I grandi banditi del nostro tempo sono i banchieri”, scrive con la franchezza del giornalista. Ma la similitudine s’accompagna a una differenza, non piccola: che mentre lo sfigato assaltatore del West alla fine doveva pagare le sue malefatte, questi banditi d’oggi si muovono con “la quasi certezza della loro impunità”. Anzi, qualche riga dopo, cancella pure l’attenuazione di quel giudizio: “Nessun bandito della storia ha mai potuto sognarsi d’infliggere tanti danni alla collettività quanti ne hanno fatto i banchieri. Eppure, non uno dei grandi boss di Wall Street è finito in galera”. Che è poi destino fortunato di cui, sia pur nel loro piccolo, hanno potuto godere anche quasi tutti i grandi boss del mondo finanziario italiano, nonostante che le loro colpe (i loro intemerati assalti alla diligenza dell’economia e della salute sociale del nostro paese) non siano stati granché diverse da quelle che Wall Street ha dovuto accettare e ripulire. La sola diversità sta, in parte, nella dimensione dei loro assalti, ma, soprattutto, nella complicità, assistenza, e servitudine, di un sistema politico che tutto gli consente e che ben poca pulizia ha voluto fare.
La lettura del libro di Rampini (Banchieri. Storie del nuovo banditismo globale, Mondadori, 2013) si integra magnificamente con il libro di Gallino segnalato qui accanto (n.d.r Il colpo di stato di banchieri e governi): il combinato disposto tra le due narrazioni traccia un inquietante profilo sul “banditismo globale”, e detta un monito che mette in guardia su quanto la deriva delle democrazie d’oggi sia debitrice alla rinuncia che la politica sta facendo della propria centralità a tutto vantaggio della finanziarizzazione. Gli effetti più drammatici di questa rinuncia sono essenzialmente due: che si è ridotta la quota che il lavoro acquisiva nella distribuzione del reddito nazionale e, di conseguenza, si è prodotta una crisi nel processo della crescita, perché il potere d’acquisto di lavoratori e classe media si è indebolito a tutto vantaggio dei trafficanti di rendite.
Si è allargata così l’ampiezza della forbice che rappresenta le differenze di reddito, mentre la dimensione speculativa delle attività finanziarie veniva fatta assorbire da un modello perverso che lasciava credere che il ruolo delle banche è sempre e comunque essenziale per la crescita dell’economia reale. Con il corollario che questa centralità finiva per pesare sulle povere spalle della società, costretta a salvare le banche “sempre e comunque”.
Scrive Rampini che “tutta la storia dell’economia occidentale dal 2008 in poi è una storia di socializzazione delle perdite bancarie”. Qualche tempo fa, all’inizio della crisi che ancora oggi stringe a tenaglia ogni credibile progetto di crescita (l’Italia è messa molto male, ma ha comunque una compagnia affollata), nell’America che faceva fallire la Lehman Brothers si sollevavano voci perché nelle università di studi economici si rafforzasse lo studio dell’etica.
Lo stesso “New York Times”, che raccoglieva in prima pagina quelle voci, scrive oggi malinconicamente che “i banchieri non sentono lo stimolo della legge né quello della morale”. E d’altronde, come non capirli se sanno bene che, alla fine, di tutta questa crisi di cui hanno larghe responsabilità nulla è stato fatto loro pagare. “Imperterriti, impuniti, colpiscono ancora”.
Gli effetti a cascata di questo “banditismo globale” hanno un risvolto che, non solo nel nostro paese,
ha aperto un aspro confronto sul ruolo dell’euro come moneta-simbolo d’una condizione statica di crisi, e le responsabilità dei sistemi politici nella ridotta efficacia di gestione della recessione vengono proiettate sulla debolezza della moneta europea.
Le reazioni sono, ovviamente, d’una furente carica a testa bassa, dove la razionalità dell’analisi cede facilmente agli umori più corrivi, usati con spregiudicatezza dalle frange più populiste dell’antieuropeismo. E l’uscita dall’euro viene offerta come soluzione d’una crisi che il concerto delle politiche governative comunitarie non ha saputo controllare.
Rampini – un attento analista politico oltre che uno studioso di macroeconomie – lega lo scontro sulla sorte dell’euro al ruolo, ancora una volta, del “banditismo bancario”, superando la strozzatura ingannevole che distingue tra banchieri cattivi (quelli che negano il mutuo e speculano con i prestiti che gli passa la Bce) e banchieri buoni (i governatori delle banche centrali, a cominciare da Draghi e, fino all’altro ieri, Bernanke). La distinzione è poco convincente, scrive Rampini, le porte girevoli (revolving doors) accompagnano le contaminazioni tra pubblico e privato, tra trafficanti della speculazione e gestori d’un progetto di controllo della crisi. La latitanza delle politiche di bilancio ha attribuito alla Bce, per esempio, un ruolo salvifico che però non ha potuto svolgere a pieno i propri effetti per le resistenze della banca tedesca ossessionata dal timore dell’inflazione.
E, di nuovo, la centralità della finanza scaccia la centralità della politica.


“L’Indice dei libri del mese”, gennaio 2014 

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