Nella recensione che segue,
firmata “mc”, si espone con chiarezza il succo di un libro che vale la pena, se
non di leggere, almeno di sfogliare. Alla formula “banditismo globale”,
certamente efficace, io preferisco quella del mio amico, prof. Giuseppe Carlo
Marino, “globalmafia”, perché evidenzia il ruolo diretto e di primo piano che - dentro la rapina bancaria e finanziaria - hanno le grandi organizzazioni
criminali a base etnica e le holding ad esse collegate. (S.L.L.)
Invitato a parlare di banditi al Festival
internazionale della storia, a Gorizia, Rampini ha trovato senza fatica
un’evidente similitudine tra le avventure del vecchio Jesse James che svaligiava
le banche dell’Ovest selvaggio e l’avidità rapinatrice dei banchieri d’oggi. “I
grandi banditi del nostro tempo sono i banchieri”, scrive con la franchezza del
giornalista. Ma la similitudine s’accompagna a una differenza, non piccola: che
mentre lo sfigato assaltatore del West alla fine doveva pagare le sue
malefatte, questi banditi d’oggi si muovono con “la quasi certezza della loro impunità”.
Anzi, qualche riga dopo, cancella pure l’attenuazione di quel giudizio: “Nessun
bandito della storia ha mai potuto sognarsi d’infliggere tanti danni alla collettività
quanti ne hanno fatto i banchieri. Eppure, non uno dei grandi boss di Wall
Street è finito in galera”. Che è poi destino fortunato di cui, sia pur nel
loro piccolo, hanno potuto godere anche quasi tutti i grandi boss del mondo finanziario
italiano, nonostante che le loro colpe (i loro intemerati assalti alla
diligenza dell’economia e della salute sociale del nostro paese) non siano stati
granché diverse da quelle che Wall Street ha dovuto accettare e ripulire. La
sola diversità sta, in parte, nella dimensione dei loro assalti, ma,
soprattutto, nella complicità, assistenza, e servitudine, di un sistema
politico che tutto gli consente e che ben poca pulizia ha voluto fare.
La lettura del libro di Rampini (Banchieri. Storie del nuovo banditismo
globale, Mondadori, 2013) si integra magnificamente con il libro di Gallino
segnalato qui accanto (n.d.r Il colpo di
stato di banchieri e governi): il combinato disposto tra le due narrazioni
traccia un inquietante profilo sul “banditismo globale”, e detta un monito che
mette in guardia su quanto la deriva delle democrazie d’oggi sia debitrice alla
rinuncia che la politica sta facendo della propria centralità a tutto vantaggio
della finanziarizzazione. Gli effetti più drammatici di questa rinuncia sono
essenzialmente due: che si è ridotta la quota che il lavoro acquisiva nella
distribuzione del reddito nazionale e, di conseguenza, si è prodotta una crisi
nel processo della crescita, perché il potere d’acquisto di lavoratori e classe
media si è indebolito a tutto vantaggio dei trafficanti di rendite.
Si è allargata così l’ampiezza della
forbice che rappresenta le differenze di reddito, mentre la dimensione
speculativa delle attività finanziarie veniva fatta assorbire da un modello
perverso che lasciava credere che il ruolo delle banche è sempre e comunque essenziale
per la crescita dell’economia reale. Con il corollario che questa centralità finiva
per pesare sulle povere spalle della società, costretta a salvare le banche
“sempre e comunque”.
Scrive Rampini che “tutta la
storia dell’economia occidentale dal 2008 in poi è una storia di
socializzazione delle perdite bancarie”. Qualche tempo fa, all’inizio della
crisi che ancora oggi stringe a tenaglia ogni credibile progetto di crescita
(l’Italia è messa molto male, ma ha comunque una compagnia affollata),
nell’America che faceva fallire la Lehman Brothers si sollevavano voci perché nelle
università di studi economici si rafforzasse lo studio dell’etica.
Lo stesso “New York Times”, che
raccoglieva in prima pagina quelle voci, scrive oggi malinconicamente che “i
banchieri non sentono lo stimolo della legge né quello della morale”. E
d’altronde, come non capirli se sanno bene che, alla fine, di tutta questa crisi
di cui hanno larghe responsabilità nulla è stato fatto loro pagare.
“Imperterriti, impuniti, colpiscono ancora”.
Gli effetti a cascata di questo
“banditismo globale” hanno un risvolto che, non solo nel nostro paese,
ha aperto un aspro confronto sul
ruolo dell’euro come moneta-simbolo d’una condizione statica di crisi, e le
responsabilità dei sistemi politici nella ridotta efficacia di gestione della
recessione vengono proiettate sulla debolezza della moneta europea.
Le reazioni sono, ovviamente,
d’una furente carica a testa bassa, dove la razionalità dell’analisi cede
facilmente agli umori più corrivi, usati con spregiudicatezza dalle frange più populiste
dell’antieuropeismo. E l’uscita dall’euro viene offerta come soluzione d’una
crisi che il concerto delle politiche governative comunitarie non ha saputo controllare.
Rampini – un attento analista
politico oltre che uno studioso di macroeconomie – lega lo scontro sulla sorte
dell’euro al ruolo, ancora una volta, del “banditismo bancario”, superando la
strozzatura ingannevole che distingue tra banchieri cattivi (quelli che negano
il mutuo e speculano con i prestiti che gli passa la Bce) e banchieri buoni (i
governatori delle banche centrali, a cominciare da Draghi e, fino all’altro
ieri, Bernanke). La distinzione è poco convincente, scrive Rampini, le porte
girevoli (revolving doors)
accompagnano le contaminazioni tra pubblico e privato, tra trafficanti della
speculazione e gestori d’un progetto di controllo della crisi. La latitanza delle
politiche di bilancio ha attribuito alla Bce, per esempio, un ruolo salvifico
che però non ha potuto svolgere a pieno i propri effetti per le resistenze
della banca tedesca ossessionata dal timore dell’inflazione.
E, di nuovo, la centralità della finanza
scaccia la centralità della politica.
“L’Indice dei libri del mese”,
gennaio 2014
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