L’anno appena incominciato sarà
segnato da costanti riferimenti alla ricorrenza centenaria dello scoppio della
Grande guerra (1914). Non si dovrebbe parlare di celebrazioni, anche se qualche
tentazione in tal senso è prevedibile. Speriamo che l’involuzione intellettuale
dispiegatasi in molti campi con la cosiddetta, e a torto esaltata, «fine delle
ideologie» non porti ad un recupero del peggior patriottismo e riproponga la
retorica della nostra entrata in guerra nel maggio 1915, dopo dieci mesi di
neutralità, come «quarta guerra d’indipendenza»: definizione usuale nei manuali
di storia di epoca fascista. È ormai nota quasi in ogni dettaglio la storia del
nostro cinico comportamento consistente nel mercanteggiare con entrambi gli
schieramenti ormai in guerra il maggior lucro da trarre dall’uno o dall’altro
eventuale alleato. (Ma eravamo legati ad un patto di alleanza con Austria e
Germania, rinnovato ancora alla vigilia quasi del conflitto, il 5 dicembre
1912).
Il 6 maggio 1891 era stata già
rinnovata la Triplice Alleanza (Italia, Austria, Germania). Il testo che
ribadiva e ulteriormente rinnovava l’alleanza sanciva, all’articolo IX, che
Germania e Italia «s’impegnano a mantenere lo statu quo nel Nord-Africa e in
particolare in Cirenaica, Tripolitania e Tunisia» e che però, se - dopo maturo
esame - Germania e Italia avessero constatato l’impossibilità di mantenere lo
statu quo nella regione, la Germania si impegnava a sostenere l’Italia in
qualunque azione «compresa l’occupazione di territori o altre forme di garanzia
che l’Italia decidesse di intraprendere in quelle regioni».
Nel 1911 l’Italia invase la
Libia, e nel protocollo del secondo rinnovo della Triplice (5 dicembre 1912) il
punto 1 recitava: «Resta inteso che lo statu quo menzionato nell’articolo IX
del Trattato implica la sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica».
Insomma i nostri appetiti coloniali venivano accontentati e assecondati dal
partner più interessato - la Germania - alla spartizione coloniale dell’Africa:
un aiuto fattivo e arricchito del costante riferimento alle eventuali
«provocazioni» da parte della Francia.
Nei libri per le scuole in epoca
fascista l’attacco italiano alla Libia veniva raccontato così: «Nel 1911, per
rafforzare la sua posizione nel Mediterraneo, l’Italia si accinse, dopo una
pacifica penetrazione, ad occupare la Libia, terra africana che comprende la
Tripolitania e la Cirenaica, ed era sottoposta al governo dei Turchi»; «Ma la
Turchia ancora non cedeva. Allora nella primavera del 1912 l’Italia portò la
guerra nel Mare Egeo, dove occupò le isole del Dodecaneso e inoltre la grande e
importante isola di Rodi, soggetta ai Turchi. A Losanna finalmente fu firmata
la pace» (L. Steiner, «Nozioni di Storia, Geografia e cultura fascista per i
corsi annuali di avviamento professionale, Paravia, Torino, 1937, terza ed.,
pp. 94-95).
Pur nella sua rozza faziosità,
questa sintetica descrizione della vicenda fa emergere chiaramente l’effetto
destabilizzante che le ripetute aggressioni italiane, in Nord Africa e nell’Egeo
ebbero sugli equilibri sempre meno solidi dell’anteguerra. Quando poi la guerra
esplose, piantammo in asso la Triplice che ci aveva appoggiati nell’avventura
coloniale e puntammo sull’appoggio anglo-francese per sottrarre all’Austria
terre tedescofone, e a tal fine cambiammo fronte. La politica italiana si
inseriva comunque, e sia pure in modo aggressivo, dentro un più generale quadro
di lotta inter-imperialistica per l’egemonia e per la spartizione del bottino
coloniale. Tale infatti fu la Grande guerra, matrice perciò della più radicale
crisi che l’Europa abbia mai attraversato (anche più violenta del 1848) e cioè
il quinquennio 1917-1922, al termine del quale era cambiata la faccia, e la
sostanza, dell’intero pianeta.
In che misura le avventure
italiane furono il detonatore del conflitto? Due studiosi italiani, non nuovi
ad imprese congiunte, Franco Cardini medievalista e Sergio Valzania polemologo,
hanno studiato questo segmento tutto italiano dell’anteguerra in un libro
imminente per la Mondadori, La scintilla:
forse intenzionale allusione alla testata del giornale di Lenin, «Iskrà».
Titolo appropriato, perché l’inchiesta storiografica che essi hanno svolto ha
fatto emergere la concatenazione di avvenimenti che conduce, a partire dall’invasione
italiana della Libia, alla deflagrazione della grande crisi. L’attacco italiano
all’impero ottomano infatti innescò una reazione a catena inducendo anche le
piccole potenze balcaniche a pretendere, a danno del «grande malato» come
allora veniva chiamato l’impero euro-asiatico, incrementi territoriali. Presto
si mossero Bulgaria, Serbia, Montenegro, e anche la Grecia. Dopo due «guerre
balcaniche», nella seconda delle quali intervenne anche la Romania, la Serbia
ebbe quasi raddoppiato il suo territorio: era ormai la più grande delle piccole
potenze regionali, per adoperare un’antica formula delle Lettere slave di Mazzini. Era insomma la principale spina nel
fianco dell’Austria. E la Grande guerra partirà appunto di lì: dallo scontro,
drammatizzato al massimo dalla corte di Vienna dopo l’attentato di Sarajevo,
tra l’Austria e la Serbia. La quale, dopo il crollo austro-tedesco del novembre
1918, diventerà la grande Jugoslavia (denominazione assunta ufficialmente nell’ottobre
del 1929), risultando così la vera vincitrice degli interminabili conflitti
balcanici dell’anteguerra. E intanto - non senza un conflitto locale con la
Grecia - verrà a maturazione anche il tracollo della vecchia impalcatura
imperiale ottomana e sorgerà, ridimensionata territorialmente, una nuova
Turchia laico-parafascistica sotto la guida di Kemal Atatürk, dal 1921 capo
carismatico a vita della risorta Turchia. Alla luce di questo vasto e
consequenziale sviluppo, non appare dunque affatto improprio definire
«scintilla» di tutto ciò la deplorevole avventura giolittiana nel «Bel suol d’amore»
della Tripolitania. I due autori della Scintilla
hanno brillantemente assolto al loro compito, e il lettore è grato. Ma lasciano
nell’aria una domanda sulla possibilità stessa di individuare una sola
«scintilla».
Naturalmente essi seguono un filo
molto articolato e coerente. E tuttavia, nella comprensione dei fatti storici,
può apparire piuttosto unilaterale il privilegiamento di una «causa». Anche il
grande Tucidide si trovò di fronte ad una grande guerra, incominciata anch’essa
con un conflitto locale (tra Corinto e Corcira) e via via cresciuta su se
stessa fino a coinvolgere, come egli scrive all’inizio della sua opera, «la
gran parte dell’umanità». Tucidide non smise di indagare sulle cause, e, man
mano che la guerra si ingigantiva, di porsi sulle tracce delle cause «vere». Il
frutto di tali ricerche occupa un intero libro, il più lungo degli otto che
compongono l’opera. Alla fine si convinse di averla scoperta, la «causa
verissima e inconfessata», come egli la chiama: il conflitto di potenza, la
lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Gli Spartani - scrive - si
convinsero che la guerra fosse inevitabile perché Atene era ormai diventata
troppo forte. Si potrebbe dire che c’è un che di tautologico in questo tipo di
spiegazione. Ma c’è anche la presa d’atto dell’insufficienza delle spiegazioni
settoriali, parziali, uniche. La guerra del 1914 fu «inevitabile» per le stesse
ragioni per cui lo fu la guerra del Peloponneso. E speriamo che le grandi
potenze che oggi si fronteggiano nell’Oceano Pacifico non giungano prima o poi
ad analoghe, irreparabili, determinazioni.
Corriere della Sera, 10 gennaio
2014
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