La Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali
di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri
proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di
ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande
poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso
modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava -
col suo trattato politico - contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del
potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità.
Pur consapevoli del rischio di
frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di
una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla
formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero
memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo
suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della
Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a
comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in
ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale
processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a
volta regnanti. I quali - in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di
poteri vastissimi - possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta.
Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di
Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro
di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale
è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace
universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno
dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel
secondo libro rivendica, come già nel Convivio,
al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più
delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità
direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno
del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso
all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo -
cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia - è autonomo rispetto al
fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui
l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa,
così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega
bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza,
venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di
Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato
al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del
Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la
forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace
universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene
concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già
esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i
popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli
Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi
non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu
viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole
potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.
Corriere della Sera, 7 ottobre
2013
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