Ancora qualche anno fa c’erano
professori di storia che tentavano di dimostrare quanto fosse bella la
“modernizzazione conservatrice” che aveva i suoi emblemi in Craxi e nelle tv di
Berlusconi. Chissà se ce ne sono ancora. Intanto può essere utile, come sintesi
di quell’apologia e materiale di riflessione, la presente recensione di uno dei
loro libri. (S.L.L.)
C'e' chi dice che noi italiani
siamo ancora premoderni. Sicuramente
ora siamo, e decisamente, postmoderni.
Accidenti, ma, allora, moderni mai? Così sembrerebbe... E, invece, sostiene
adesso qualcuno, sia pur per un non lunghissimo lasso di tempo, siamo stati
addirittura modernissimi. Negli adorati
(o famigerati) Anni Ottanta, dopo i quali nulla, effettivamente, sarebbe stato
più come prima.
«Cosa resterà di questi anni 80»,
cantava, alla fine di quel decennio, Raf. Già, proprio una bella domanda, che
prelude a un'eredità problematica e controversa, sulla quale si esercitano,
sempre di più, anche gli intellettuali. L'ultima occasione per discuterne la
fornisce un volume, uscito da poco, scritto dal giovane storico Marco Gervasoni
e dedicato, giustappunto, alla Storia
d'Italia degli anni Ottanta (Marsilio, 2010), che porta l'eloquente sottotitolo
Quando eravamo moderni.
Contravvenendo un po' alla
vecchia lezione preparatoria di metodologia della ricerca storica che si
insegnava nelle aule universitarie, secondo cui si può fare storiografia
soltanto su epoche abbastanza lontane nel tempo da garantire la «giusta
distanza» critica e di giudizio, il libro ci si tuffa, e ricostruisce, in modo
assai completo e dettagliato, tutto il coloratissimo periodo degli anni Ottanta
del secolo scorso (certo sfavillante di luci, ma non privo di ombre). Il decennio
delle televisioni commerciali (la «neotv», copyright Umberto Eco),
dell'eccesso, della «Milano da bere», dei paninari e dei rampanti, del
craxismo, della politica spettacolo, e, su scala internazionale,
dell'affermazione trionfale del neoliberismo e, dalle nostre parti, dell'ascesa
del berlusconismo. Insomma, l'età d'oro dell'edonismo reaganiano, per usare
l'espressione coniata, nel corso del programma Quelli della notte, da Roberto D'Agostino, futuro padre del sito di
gossip politico-economico Dagospia - ed è ormai di dominio comune quanto il
«pettegolezzo», da considerare qualcosa di ben diverso dal semplice sparlare o
farsi gli affari altrui, sia figlio di quell'epoca («più che notizie,
spetteguless» era uno dei tormentoni più in voga della trasmissione simbolo
dell'epoca, Drive In).
La tesi di Gervasoni, in buona
sostanza, è che i «mitici Ottanta» siano stati gli anni dell'«ultima modernità»
del nostro Paese, della sua compiuta secolarizzazione tra diffusione di nuovi
stili di vita e allargamento dei consumi. Il periodo del ritorno alla vita,
dopo i terribili anni di piombo, e della piena accettazione, senza più sensi di
colpa cattocomunisti, della libertà individuale (incluso il diritto alla
realizzazione professionale e al guadagno personale).
Anche in ambito intellettuale,
dove, tramontate le ideologie e finita la stagione della devozione coatta
all'arte «impegnata» della Corazzata
Potemkin (come ci suggerisce l'urlo liberatorio anti-cineforum del nuovo maitre-a'-penser ragionier Fantozzi),
finisce con l'imporsi il postmoderno, che sgretola le distinzioni tra «alto» e
«basso», sdoganando le varie manifestazioni della cultura pop e di massa.
Uno dei capitoli migliori del
libro del contemporaneista dell'Università del Molise (già autore di una interessante
biografia di Francois Mitterrand) è, infatti, quello consacrato al «pensiero
Anni Ottanta», capace di congedarsi in modo definitivo dal retaggio di
quell'engagement politico che, nella forma prevalente, aveva provocato qualche
ansia anche all'indiscutibilmente progressista Italo Calvino. Proprio le sue Lezioni americane, con le conferenze
consacrate alle virtù della leggerezza, della rapidità, dell'esattezza, della
visibilità e della molteplicità, spalancano di fatto le porte a un universo
valoriale intriso di categorie e idee-forza diversissime da quelle della fase
precedente. Beninteso, Calvino rimane uno «scrittore morale», come aveva detto
di lui Alberto Asor Rosa, ma il nuovo spirito dei tempi soffia potentemente
anche nel paesaggio culturale.
E, così, gli Anni Ottanta saranno
quelli di un certo elogio della diserzione in campo letterario, dalla nuova
egemonia culturale costruita dalla casa editrice Adelphi di Roberto Calasso e
dei suoi sodali (che si applica, potremmo dire scientificamente, a picconare i
piloni della cultura della sinistra italiana) alla Rimini postmoderna di Pier
Vittorio Tondelli, sino al successo planetario del Nome della rosa. Gli anni dei reciproci annusamenti tra «nuova
destra» e spezzoni di sinistra (non di rado di matrice operaista), sotto
l'egida della comune passione per il «pensiero negativo» tedesco e per la gaia
apocalisse della Finis Austriae. Gli anni della fantascienza post-atomica e
catastrofista alla Blade Runner, alla Mad Max e alla Terminator che faceva il paio
con la circolazione delle teorie sulla fine della Storia e l'inizio
irreversibile della decadenza (l'Aids non era forse la «peste del XX secolo»?).
Della Transavanguardia, il gruppo di artisti tenuti a battesimo da Achille Bonito
Oliva, accomunati dal rifiuto di qualunque ideologia forte e dall'edonismo del
«movimento concettuale». Della massmediologia come scienza finalmente
certificata (anche perché ci si era accorti, nel frattempo, dell'impressionante
influenza popolare esercitata dai mezzi di comunicazione di massa). Del
pensiero debole di Gianni Vattimo (la cui «serata Nietzsche» aveva fatto il
tutto esaurito al Teatro Carignano di Torino nell'88) e Pier Aldo Rovatti, nato
a sinistra, ma che invitava a fare i conti con la fine del razionalismo e delle
«illusioni» dell'Illuminismo.
Tutto pacifico, dunque?
Nient'affatto, perché, accanto
agli adoratori e ai simpatetici, gli Ottanta annoverano anche schiere di
avversari e antipatizzanti. Come lo storico Guido Crainz che in quel periodo
vede l'inizio della fine, i segni della «mutazione antropologica» determinata
dal prevalere di una cultura dell'egoismo sociale che, saldatasi con i tratti
peggiori del nostro atavico familismo e clientelismo, avrebbe fatto saltare per
aria le già deboli propensioni italiane alla solidarietà e alla legalità. O
come Edmondo Berselli, il cui ultimo libro (L'economia
giusta, Einaudi), denuncia senza sconti dell'«imbroglio liberista» e
perorazione della causa di un mercato che sappia avvicinarsi nuovamente alla
società, è una sorta di corpo a corpo con il decennio della modernizzazione
reazionaria dei Reagan e delle Thatcher e del pensiero unico neoliberale del
«consenso di Washington».
Non c'e' niente da fare, amati
(al punto da essere già vintage e
oggetto di amarcord per alcune generazioni) o detestati, agli anni Ottanta si
applica integralmente uno slogan che potrebbe sembrare quasi inventato allora,
nel periodo che ha reso per la prima volta davvero di massa la società dello
spettacolo. «Bene o male, purché se ne parli», come avrebbe commentato Oscar
Wilde, anch'egli, a suo modo, un personaggio alquanto «Anni Ottanta».
“La Stampa”, 28-10-2010
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