Il titolo originario di quest’articolo-recensione,
ritrovato su una “talpa-libri” del 1984, era diverso da quello da me scelto e
poteva indurre in inganno. Santa Domenica
e gli appestati fa pensare che la religiosa, al cui processo di
canonizzazione l’articolo accenna, sia “santa”. E invece no: nonostante gli
sforzi dei granduchi e delle granduchesse di Toscana, Medici e Lorena, suor
Domenica Narducci, nativa del rione fiorentino del Paradiso, al canone dei
santi della Chiesa romana non venne mai ammessa. Colpa delle sue giovanili
simpatie per fra’ Gerolamo Savonarola che il papa e la curia di Roma avevano
fatto bruciare vivo come eretico.
L’articolo potrebbe peraltro indurre
ad un altro equivoco, lasciar credere che la Domenica in questione fosse in
vita nell’anno di peste 1630. Non è così: la suora, fondatrice e badessa di un
sottordine domenicano, nata nel 1473 da una famiglia di ortolani, era morta in
odore di santità nel 1553, alla venerabile età di 80 anni. Quello che si sta
svolgendo nel 1630, diversi decenni più tardi, è il suo processo di
canonizzazione, ai cui atti ampiamente attinge Giulia Calvi, autrice del volume
di cui si ragiona: Storie di un anno di
peste. Comportamenti sociali e immaginario nella Firenze barocca (Bompiani,
1984).
Ciò chiarito, l’articolo è
consigliato non solo per gli orientamenti che dà sulla materia specifica, ma
anche perché fornisce indirettamente notizia sui temi del dibattito
storiografico negli anni Ottanta del secolo scorso. (S.L.L.)
Storie di un anno di peste. L'anno è il 1630, le storie si svolgono
a Firenze, investita, come Napoli o Milano nello stesso secolo, dalla terribile
epidemia. Meno nota forse perché meno drammatica nei suoi effetti e più
contenuta nelle sue espressioni coreografiche (niente tumulti o cacce agli
untori), la peste di Firenze ci viene restituita, nella ricostruzione di Giulia
Calvi, come teatro dell'agire collettivo, entro un quadro che è di vita non di
morte. Il tempo immobile dell'emergenza sanitaria, i bandi che impongono di
serrare e isolare, scardinano i tempi accelerati della comunicazione sociale,
della normalità: la tensione che ne deriva agisce da rivelatore di
comportamenti e mentalità socialmente differenziati. Popolo minuto, ceti medio-alti,
professionisti della sanità, la famiglia stessa granducale vengono così messi a
fuoco, definiti nei loro ruoli rispettivi e colti tuttavia anche negli intrecci
asimmetrici che li collegano.
Sono dunque la trasgressione ai
bandi, i processi istruiti per la loro violazione, la chiave per decifrare,
come scrive la Calvi, questa peculiare «semantica sociale». I verbali restituiscono
la voce del «basso»: gli imputati appartengono quasi per intero al popolo
minuto o agli infimi ranghi del personale sanitario. Le loro storie sono esempi,
inseriti in una calibrata griglia analitico - interpretativa, costruita
induttivamente e per accostamenti.
Prendiamo il lungo capitolo dedicato
alla proprietà : le storie di furti, di affrettati e furtivi trafugamenti di
cose per lo più povere, suppellettili e indumenti, schiudono gli universi
sociali della famiglia, del mestiere, del vicinato, del modo soggettivo in cui
queste reti di relazioni vengono vissute e confermate di contro all'emergenza.
Gli spazi rigidamente delimitati dai bandi, che riproducono una divisione
sociale (all'aperto e fuori città i nobili e i ricchi, al chiuso i poveri e i
sospetti di contagio) vengono clandestinamente riaperti: la forza delle
configurazioni sociali e culturali preesistenti, del tempo normale, la vince
sulla paura del contagio. I familiari, i compagni di lavoro, i vicini dei
malati o dei morti sottraggono alla Sanità gli oggetti appartenuti ai loro cari
e li serbano per il dopo, per la vita che riprenderà. Calvi utilizza qui la
griglia analitica della community of the
suffering elaborata da Victor Turner: quel tessuto connettivo informale
che, coinvolgendo morti e vivi, risarcisce dalle lacerazioni psicologiche e
esistenziali prodotte dall'epidemia e rende pensabile il futuro.
O prendiamo il capitolo sui corpi
malati: gli esempi illustrano soprattutto le differenze socio - culturali e di
genere. Tra il popolo minuto degli artigiani, ad esempio, emergono queste
ultime, rivelate dalla stessa compattezza con cui il nucleo familiare reagisce
all'epidemia: l'occultamento degli infetti rinvia a una concordata divisione di
ruoli. Con gli uomini che si trasferiscono a vivere in bottega perché il lavoro
non si interrompa e le donne chiuse in casa con vecchi e bambini a curare i
malati. Ma anche i ceti medio - alti trasgrediscono ai bandi, opponendosi alle
disposizioni che vietano la sepoltura nelle chiese e destinano i cadaveri alle
fosse comuni.
I loro comportamenti mettono in
luce una diversa cultura somatica rispetto al popolo minuto : se da
quest'ultimo il corpo viene letto alla luce della coppia oppositiva
forza/debolezza con referente obbligato il mestiere, per i ceti medio - alti risulta
intollerabile la deritualizzazione della morte, la morte infamante. La
salvaguardia della morte degna, l'inumazione nella tomba di famiglia, viene
perseguita come contrassegno di status e simbolo di continuità del lignaggio.
I comportamenti risultano dunque
socialmente differenziati. Ma la cifra interpretativa adottata non è quella della
contrapposizione. Uno dei meriti principali della ricerca della Calvi è infatti
di non isolare il «basso» ma di porre l’accento sulla circolarità di saperi e
comportamenti e sulla sostanziale coesione del tessuto sociale.
E in questo risiede la storicità
della sua ricostruzione. Quella coesione non è il prodotto artificioso di una
particolare strategia di ricerca o un pregiudizio ideologico ma dà conto della
diversità di Firenze rispetto a Napoli o Milano: una diversità su cui si è già
soffermata la tradizionale storiografia politico - istituzionale. La differenza
è che qui il procedimento è rovesciato; dalla microstoria dei comportamenti si
risale alla densa trama di rapporti che investono la società intera e si
perviene alla politica; la frammentarietà degli esempi viene reintegrata in una
lettura tendenzialmente «globale».
È la funzione assolta, nel testo,
dalla documentazione relativa al processo di canonizzazione di Domenica da
Paradiso. Santa medicea e eroina salvifica, Domenica viene descritta e
raccontata dai testimoni — medici, artistici, ceti medi, religiosi, la stessa
arciduchessa Cristina di Lorena — come un modello che ci contrappone all'esperienza
visibile della peste (il corpo roseo e intatto di contro al nero dei cadaveri
corrosi degli appestati) e che al tempo stesso legittima, sublimandoli, i
comportamenti trasgressivi e rifonda il potere sacrale dello Stato in una difficile
fase di transizione.
Riferire così sommariamente dei
risultati della ricerca della Calvi fa certamente torto alla quantità di acuti
spunti interpretativi del volume (sulla cultura femminile, ad esempio). E
tantomeno restituisce la folla di caratteri che popolano le sue pagine, e le
loro storie, appunto, che ne rivelano le mentalità, le passioni, gli affanni ma
anche la testarda determinazione e le complesse strategie aggiranti con cui
rimontano l'esperienza di una crisi catastrofica. Ricorre spesso, nel volume,
l'aggettivo «veloce», a connotare il tempo mobilissimo dell'agire sociale,
della vita, cioè, di contro all'immobilità della morte: mentalità e
comportamenti sfuggono così alla catalogazione fissa e ripetitiva della lunga
durata cui sembra condannarli la tradizione specialmente francese che con
questi temi si è misurata; e non a caso i riferimenti privilegiati dalla Calvi
sono invece di preferenza anglosassoni (dal già ricordato Turner, alla Zemon
Davis, a Clifford Geertz).
È una storia che pone al centro
la soggettività, le opzioni individuali e collettive, i sentimenti e le
passioni quali risultano dai verbali dei processi che registrano le singole
vicende con minuzia di particolari e largo uso di dialettismi, quasi a restituire
la vivacità e l'immediatezza del parlato. E una finzione, in parte, accentuata
dalla trasparente bravura con cui la Calvi riassume e riscrive le battute dei
processi. Ed è probabilmente questa, assieme allo spessore emotivo delle storie
narrate, che ha fatto accostare la sua scrittura (lo ha fatto Beniamino Placido
su “Repubblica”) alla scrittura di un romanzo. Certo, tra gli storici che
troppo spesso mostrane di considerare la forma dell'esposizione un puro
requisito esterno, una garanzia di leggibilità — è rara una così esplicita
consapevolezza dell'uso e del significato della scrittura, e della storia come
scienza argomentativa. Ma se la materia è in parte la stessa dei romanzi — i
sentimenti, le passioni — essa viene affrontata con mezzi in parte diversi.
Basta riflettere sulla voluta pluralità dei registri linguistici adottata dalla
Calvi: una scrittura volta a volta mimetica, come nei resoconti dei processi,
«letteraria» specie quando descrive gli ambienti domestici, ma anche «scientifica»,
quando si tratta di svelare la funzione che svolgono le storie in quanto esempi,
come si accennava in precedenza.
Del resto c'è un luogo, nel
volume, dove la stessa Calvi mette a confronto letteratura e storia. È quando
racconta le storie dei viandanti — vagabondi, ciarlatani, soldati sbandati —
fermati alle porte della città quali potenziali portatori del contagio e ne
contrasta l'immagine con quella tramandataci dalla letteratura picaresca: ai
suoi tipi e alle sue maschere immutabili, la documentazione storica, purché lo
storico sappia farla parlare, oppone caratteri e soggetti, spezzando catalogazioni
fìsse e assolvendo così a una funzione liberatoria. È allora solo per un
riflesso corporativo che ho letto questo libro come una convinta e appassionata
apologia non della letteratura ma della storia?
“la talpa libri - il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1984.
Nessun commento:
Posta un commento