Juan Gelman con la nipote Macarena |
15 gennaio 2014
Aveva 83 anni. Un lunghissimo
esilio e una vita segnata dalla tragedia, di cui è impastata la sua opera
poetica. La morte ieri a Città del Messico
Di Juan Gelman, il grande poeta
argentino scomparso ieri ottantatreenne a Città del Messico, l'amico Eduardo
Galeano ha notato, nel Libro degli
abbracci: “Scrive sollevandosi sulle proprie rovine, sopra la propria
polvere e impurità”. Sintesi efficace di un'opera che è impastata nella
tragedia e che non ne è mai sopraffatta.
Nato nel 1930 a Buenos Aires in
una famiglia ebrea da poco emigrata dall'Ucraina, Gelman si iscrive a quindici
anni al partito comunista e a venticinque è tra i fondatori di un movimento
letterario il cui nome è un programma, “El pan duro”. Col passare del tempo,
alternando scrittura poetica (la sua prima raccolta, Violín y otras cuestiones, è del '56) e attività di giornalista e
traduttore, l'impegno di Gelman non si attenua, anzi: si avvicina al movimento
dei Montoneros, che nel '75 gli chiedono di denunciare all'opinione pubblica
mondiale la violazione dei diritti umani in Argentina sotto la presidenza della
vedova di Perón, Isabel. Proprio per questo incarico lo scrittore è lontano al
momento del golpe che nel 1976 porta al potere i militari.
Cominciano anni dolorosissimi:
non solo Gelman è costretto a un esilio dal quale, in definitiva, non tornerà
più, ma suo figlio e la nuora, incinta, vanno ad aggiungersi all'interminabile
lista dei desaparacidos. Solo nel
1990 i resti del giovane verranno ritrovati e alcuni anni dopo, nel '98, lo
scrittore ritroverà, dopo avere pubblicato sui giornali argentini e uruguayani
una lettera aperta, la nipote mai conosciuta, Macarena.
Di quella lunga fase, segnata
dalla sofferenza e al tempo stesso dalla volontà tenace (“una ossessione”,
secondo la sua stessa definizione) di mantenere saldo il contatto con la
poesia, Gelman dirà nel corso di una intervista: «È stata una scrittura con
continui soprassalti e interruzioni. Durante la ricerca avevo la testa, il
cuore, il sangue rivolti altrove».
Eppure nascono in quegli anni
testi poetici di rara potenza, nei quali Gelman non teme di plasmare,
contorcere, la lingua, a sua immagine e somiglianza. Come nella splendida
raccolta del 1980 Si dulcemente, dove
il poeta inserisce un neologismo, “deshijándome”,
“disfigliandomi”, che espone la tragedia sua, e dell'Argentina, più di mille
discorsi.
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