Al tempo di Craxi, con una serie
di mostre (una milanese di grande successo) cominciò la rivalutazione
dell’Italia degli anni Trenta del 900, l’epoca del fascismo trionfante. Si
cominciò a dire che nonostante la dittatura c’era molto di buono e che la stessa
dittatura non era poi così cattiva come s’era detto. Quell’ondata
revisionistica non è ancora cessata, anzi… Ragione di più per rileggere e tenere
in evidenza il ritaglio dell’articolo che segue, di uno storico che si oppose
all’andazzo e che in quella “moda” leggeva i prodromi di cambiamenti più
profondi. (S.L.L.)
C'è qualcuno oggi, in Italia
almeno, che — senza tirar fuori la retorica o i vecchi anatemi — abbia voglia
non dico di arrabbiarsi, ma di avanzare qualche dubbio di fronte
all'esaltazione crescente degli Anni Trenta?
E' probabile che qualcuno ci sia,
ma finora si è guardato bene dall'intervenire.
Eppure da cinque o sei anni
ormai, la naturale ripresa di interesse per quel periodo si è colorata di
a-spetti singolari. Si sta consolidando, attraverso slogans più o meno
indovinati, e rievocazioni più o meno mutile e addomesticate, un nuovo mito. Al
luogo comune che ha avuto corso per troppo tempo, e che ci ha restituito
un'immagine a tutto tondo di quel periodo come di un tempo in cui tutto era
nero e oscuro, ora rischia di sostituirsi una nuova immagine, che espelle dal
quadro ciò che contrasta con la mitizzazione nostalgica di quell'età.
A guardare oltre la facciata,
oltre la vernice politica e ideologica, dicono i fabbricatori del mito-Anni
Trenta, le cose non stavano come ci è stato sempre insegnato e trasmesso: la
dittatura c'era, non si può negarlo, ma era provvida e paterna; i giornali
erano conformisti, è vero, ma (come ha ricordato Montanelli, intervistato alla
televisione) bastava dedicarsi alle pagine interne invece che alla prima
pagina, e anche quel boccone si poteva ingoiare. Quanto all'arte, non c'è alcun
dubbio: la pittura attraversava un periodo felice e memorabile e la stessa
architettura — a parte qualche omaggio occasionale alle gerarchie — era in
ottime condizioni di salute. Lo stesso dicasi per le arti cosiddette minori e
per quella che si potrebbe definire 1 '«italian
way of life», la vita quotidiana: i salotti, le case, le vacanze, le
canzoni e così via.
Insomma, si dice e si ripete, è
ora di accostarsi a quel periodo con occhio nuovo, di sottolineare finalmente
gli aspetti positivi che contrassegnarono quell'età. E forse fin d'ora si potrebbe,
insinua più d'uno, presentarla in modo diverso: non «anni di piombo» o, peggio
ancora, di «ferro e di fuoco», come dissero i contemporanei: ma l'età del
«realismo» o, che so io, d'una «belle epoque» in ritardo.
Ora, di fronte a un'operazione
del genere, che arriva ai mass-media dopo lunga gestazione e larghe anticipazioni
in altre sedi, occorre distin¬guere e parlare con molta chiarezza.
Ho già detto all'inizio che il
problema non è quello di difendere vecchie immagini, che a volte la memoria dei
testimoni, in altri casi un inevitabile manicheismo, possono avere diffuso. Ma
alcuni dati sono indiscutibili.
Gli Anni Trenta furono, a livello
politico, contrassegnati dall'ascesa di regimi dittatoriali in Occidente come
in Oriente. E furono un periodo in cui la politica tese più che mai a invadere
la vita anche privata della gente. Non fu indifferente per nessuno che Hitler
salisse al potere in Germania (e basta vedere lo straordinario Mephisto di Szabo per rendersene conto
ancora una volta), che Franco vincesse la guerra civile in Spagna, che
Mussolini, rafforzato dal plebiscito e dal Concordato, desse mano all'impresa
d'Etiopia e alle guerre future.
Si moltiplicarono in quel periodo
i campi di concentramento per gli avversari interni in Germania e nella Russia
di Stalin, i tribunali speciali per i sovversivi in Italia e in tanti altri
paesi; dovunque le polizie segrete e criminali si organizzarono con grandi mezzi
e nuovi espedienti. Agli italiani come ai tedeschi e agli spagnoli, per non
citare tutti i paesi dell'Est o il Giappone autoritario e militarista, si disse
coi fatti: signori, non occupatevi più della cosa pubblica; per questo ci siamo
noi, e voi dovete subire senza protestare. Chi si ribella è un uomo morto.
Ma, soprattutto, i fascismi si
diedero a preparare la guerra. Di fronte a una crisi economica come quella del
'29, che aveva segnato la fine del capitalismo liberale rendendo inevitabile un
massiccio intervento dello Stato nella politica economica, Hitler pose mano al
più gigantesco progetto che mai fosse stato fatto di «assalto al potere
mondiale». E, anche per illudere le masse che nulla fosse cambiato, i dittatori
incoraggiarono l'evasione nelle canzoni, nella vita quotidiana e così via.
Tanto, sarebbe venuta la guerra a farle rigar diritto.
Naturalmente, in questo quadro,
che pure è impossibile metter da parte nelle sue linee essenziali, è necessario
considerare la particolare la situazione italiana e segnalare le differenze che
ci furono, quando ci furono. La dittatura fascista restò parecchio indietro
rispetto a quella nazionalsocialista nel realizzare lo «Stato totalitario»;
Mussolini doveva tener conto della forza perdurante di istituzioni come la
China, la monarchia, l'esercito, e non poteva stringere oltre un certo limite
le maglie del dominio fascista.
Questa differenza comportò, rispetto
alla Germania nazista, alcune conseguenze non trascurabili, particolarmente in
campo intellettuale e artistico. E' assurdo a mio avviso, fabbricare oggi il
mito di un'arte libera da condizionameni i e non toccata dal regime; ma sarebbe
antistorico affermare che non vi furono in quegli anni intellettuali o artisti
degni di questo nome, solo in quanto erano ossequienti al fascismo. La
dittatura intervenne pesantemente in campo culturale, ma non volle — né forse
ebbe bisogno — di fare quello che Hitler aveva fatto hi Germania: così
restarono aperti spazi e possibilità per opere di cultura come l'Enciclopedia
Treccani (cui collaborarono tanti studiosi non fascisti rimasti in Italia) o
come tanti quadri di Sironi o di Casorati (l'uno per molto tempo vicino al
fascismo, l'altro da sempre lontano).
Detto questo, un'esaltazione nostalgica
di quel periodo in Italia significa omettere troppe cose e accantonare troppe
testimonianze incontestabili: anche nel nostro paese la politica era proibita
ai non addetti ai lavori, dire di no era impossibile o molto difficile, una
polizia segreta perseguitava gli oppositori, e si preparavano imprese belliche
che in seguito sarebbero costate milioni di morti.
Ci vorrebbe, insomma, un atteggiamento
meno superficiale e meno incline a dimenticare o a trasfigurare un passato per
tanti versi così vicino e incombente. Un mito degli Anni Trenta non ha ragione
di essere, anche se è giunto il tempo — su questo non c'è dubbio — di
analizzare con molto rigore quello che contraddiceva o correggeva gli aspetti
fondamentali di un quadro nel suo complesso oscuro. Ma, al di là delle indispensabili
precisazioni sul piano storico, del richiamo a regole elementari di analisi
corretta del passato (un passato sul quale abbiamo un'abbondanza eccezionale di
documenti), la nostalgia degli Anni Trenta, la mitizzazione di quel periodo, si
spiega forse anche con il particolare momento che stiamo attraversando. Sarebbe
ridicolo e fuor di luogo fare confronti complessivi, o cercar somiglianze tra
quegli anni e quelli in cui viviamo. Ma di una cosa sono convinto: anche oggi,
come allora, stanno nascendo e si stanno preparando trasformazioni e mutamenti
destinati a realizzarsi in un futuro prossimo e imprecisato.
Guerre? Regimi di tipo nuovo? Cambiamenti
radicali nel nostro modo di vivere, anche privato e quotidiano? Non mi sento di
azzardare pronostici o previsioni. Ma la sensazione di vivere in un periodo che
precede avvenimenti di grande portata è diffusa tra noi. Questa sensazione
spiega anche certi atteggiamenti, certa mentalità, certi modi di vivere
altrimenti difficilmente comprensibili: il concentrarsi nel privato, la rinuncia
a progetti di lunga scadenza, un certo distacco dalla politica. Insomma, alcune
delle cose che succedevano negli Anni Trenta.
“la Repubblica” Venerdì 12 febbraio,
1982
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