L'arcangelo Calabresi: a proposito di una poesia era il titolo di
una relazione letta da Massimo Raffaeli
a Firenze nell’ottobre 2005, durante una giornata dedicata al poeta
milanese per il primo anniversario della morte. “Il manifesto” ne pubblicò come
anticipazione una sintesi che qui riprendo. (S.L.L)
Milano, gennaio 1970. Giovanni Raboni fermato dopo una manifestazione sulla "strage di stato" |
Il pieno riconoscimento
dell'opera poetica di Giovanni Raboni, tra le massime dell'estremo Novecento
italiano, il fatto che sia entrata nel senso comune col segno di un lancinante
esistenzialismo, anche se ben smarcato dalla parola di Montale e persino da
quella del suo più antico maestro-compagno di via (ovviamente Vittorio Sereni),
coincidono con la ricezione di una testualità che rinforza nel tempo i tratti
della dissimulazione e dell'understatement linguistico-stilistico, specie nella
raccolta centrale di autoantologia e bilancio, A tanto caro sangue (1988). Tutto ciò ha forse lasciato si
dimenticasse che una radice fervida della sua poesia, fermentante sottotraccia,
corrisponde al sentimento più istantaneo della politica: un esser-ci, dove il
mondo esterno (i poteri, i segni scritti, le parole d'ordine, le crude azioni
del potere) precipita sul soggetto, lo segna e lo disorienta, si direbbe lo
rinserra nella prigione dell'«io» proprio nel momento in cui avrebbe voluto
emanciparsene.
In tutta la poesia di Raboni c'è
un «io» che si slancia mutamente verso un «noi», senza mai volerlo o poterlo
pronunciare, c'è un sospetto costante di deragliamento dalla percezione
puramente individuale delle cose, detta cioè in verticale, che nemmeno ha
bisogno di tematizzazione perché si manifesta nell'improvviso di un batticuore,
di un mancamento, ovvero di un sentirsi venir meno, di colpo, la voce e le
forze, come si trattasse d'un lento dissanguarsi. La posizione di Raboni,
borghese e cattolico indocile, poi collaboratore dei «Quaderni Piacentini» e
vicino alle formazioni della Nuova sinistra, appare dunque la più
anti-ideologica perché è quella di uno stoico: non nasce da una riflessione
astratta ma appunto da una concreta posizione, da un essere semplicemente lì,
in mezzo alla strada e alle cose di tutti, percependone il riflesso interno e
la prolungata vibrazione.
In questo, Cadenza d'inganno (1975) è la sua raccolta più politica ed è anche
quella dove il procedimento, indipendentemente dagli esiti qualitativi,
denuncia l'origine e il meccanismo del percepire lo stato presente della Polis.
(Va detto pure, per inciso, che «inganno» non solo è una parola chiave
dell'autore ma l'emblema di un decennio caratterizzato dalla cosiddetta
strategia della tensione, dal romanzo delle stragi, dall'insorgere imprevisto
del terrorismo e di una generalizzata repressione; «inganno» è sinonimo di
disorientamento come poi la parola chiave «inverno» lo sarà del generale
ripiegamento nel decennio successivo, testimoniato dai titoli di alcuni poeti
allora esordienti, da Antonella Anedda a Fabio Pusterla, da Francesco
Scarabicchi a Remo Pagnanelli).
Riprendendo lo spunto di un geniale
non addetto ai lavori, Piergiorgio Bellocchio, così Pier Vincenzo Mengaldo
scriveva di Cadenza d'inganno nella
scheda monografica dell'antologia Poeti
italiani del Novecento (1978) che per prima ha consacrato il percorso di
Raboni: «Non per nulla l'"impegno" più esplicito coagula attorno ad
episodi di repressione e onnipotenza poliziesca del Potere; e l'io oscilla fra
l'auto-annullamento nell'impersonalità del referto o denuncia, e la ritrazione
in un privato che sempre più acquisisce anch'esso i connotati della vita
vissuta come automatismo sonnambulo». Nel saggio ricordato, Bellocchio parlava
giustamente di un alternarsi del discorso indiretto (maggioritario nella poesia
di Raboni ) e invece di un discorso diretto minoritario, lasciato volentieri
allo stadio plastico della materia prima. È il caso ad esempio di una poesia,
probabilmente scritta a caldo, L'alibi
del morto, dedicata alla morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, volato giù
da una finestra della questura di Milano la notte fra il 15 e 16 dicembre del
1969. Pinelli era da due giorni abusivamente trattenuto in questura (dal
questore Guida, dal capo della sezione politica Allegra, dal commissario Luigi
Calabresi) per le indagini relative alla strage di piazza Fontana, cui peraltro
rimaneva del tutto estraneo. I suoi compagni allora sapevano, e oggi purtroppo
tutti sappiamo, che era innocente e che venne ammazzato. Sappiamo altrettanto
(da una pagina in presa diretta di Fortini, ora in L'ospite ingrato secondo) che Raboni aveva preso parte, con Vittorio
Sereni, ai funerali di Pinelli nel cimitero del Musocco: «Al campo 76 ci sarà
stato un centinaio di persone, un gruppo cupo sulla terra calpestata, sotto il
cielo verde e viola. Su di un viale poco discosto, sotto grandi pioppi ignudi,
una ventina di agenti in borghese guardavano i compagni del morto. Erano ai due
lati di una trincea. (...) Dall'altra parte del fossato ho rivisto la testa
candida di Giovanni. Scivolando sulla fanghiglia, facendomi largo tra i
fotografi, anch'io sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si
abbassavano».
Tutta esplicita e scandita dal
discorso diretto, L'alibi del morto è
la poesia meno raboniana che l'attuale senso comune possa immaginare e perciò,
paradossalmente, la più rivelatrice di un antico impulso politico e delle sue
relative procedure. Il protocollo è frontale, così secco e disossato da
sembrare una variazione (tramite Fortini) da Bertolt Brecht, la cadenza
ossessiva e anaforica insieme con le soluzioni di montaggio dicono, viceversa,
una adiacenza con le partiture del Roversi di Descrizioni in atto e i tracciati di Giorgio Cesarano, due grandi
figure cui il poeta milanese non ha mai lesinato né attenzione né stima, come
ci ricorda il recente e bellissimo volume di pagine saggistiche intitolato La poesia che si fa. Cronaca e storia del
Novecento poetico italiano (a cura di Andrea Cortellessa, Garzanti).
Ecco la quartina iniziale,
laddove il «Giuda» può essere tanto l'allegoria di Calabresi quanto l'acre
metaplasmo che storpia il cognome del questore Guida: solo da ricordare che il
primo era presente nella stanza da cui volò Pinelli, il secondo invece era
assente. Dunque: «Giuda dice che l'alibi del morto/ era crollato: per questo
motivo è sceso nel cortile./ Ma l'alibi era buono; il morto è riabilitato:/
nessuno dice che Giuda aveva torto./»; i versi di clausola sono i seguenti:
«Non predicate la dittatura di una classe sull'altra, non è il vostro lavoro./
Non dite niente che possa suscitare/ l'odio di classe: ci pensano già loro.//
Parlo per me ma forse anche per voi./ Amici, diciamo la verità:/ di sentirci
oppressi ci sentiamo felici;/ ci importa adesso esser vittime, non esser liberi
poi.» Qui la posizione stoica di Raboni muta il falso ideologico di massa o
meglio una presunta coscienza di classe (che invece è riflesso condizionato,
talora vittimismo, alibi rassicurante) nella coscienza elementare di un'impasse, il che vuol dire anche che la
posizione stoica diviene apertamente dialettica: è come se al poeta non tanto o
non solo premesse una commemorazione di Pinelli, quanto la fuoruscita da una
logica che risulta mortale, alla lettera, perché da vittima esige altra
vittima, in un massacro speculare/complementare potenzialmente senza fine.
Pochi mesi dopo, in una poesia
consanguinea all'Alibi del morto (cioè
Notizie false e tendenziose, scritta
dopo l'oscura morte di Feltrinelli e anch'essa compresa in Cadenza d'inganno,
libro che succede all'assassinio di Luigi Calabresi) il poeta vedrà se stesso
ormai spiazzato e fuori gioco, isolato in campagna, escluso dalla Polis; in
quel luogo defilato si agitano spettri di vittime e carnefici, esplode
all'improvviso un gioco delle parti funerario. Lo stoicismo (lo spirito
dialettico dissimulato) sembra però suggerirgli che laddove non c'è pietas e rispetto/riconoscimento delle
«creature», lì c'è solo la dinamica della ritorsione, ora suffragata dal codice
penale ora mascherata da lotta di classe: fissando la fiammella della a stufa a
kerosene (l'ambiguo gesto del bruciare per essere riscaldati) Raboni fissa in
realtà la meccanica del cannibalismo. Il suo medesimo stoicismo implica il
fatto che chiunque pianga Pinelli, ucciso da un'istituzione dello stato,
chiunque continui a sentirlo un «compagno» e insieme una disarmata «creatura»,
non può, insieme con gli imperativi della solidarietà, non sentirne anche e
nello stesso tempo un fisico rimorso, un oscuro e progressivo senso di colpa.
Vale a dire che non può, in ogni senso, chiamarsene fuori.
Forse è così che Giovanni Raboni
ha scritto i suoi versi più stremati e difficili, i più duri da leggere a tanta
distanza di anni: «Vivo, stando in campagna, la mia morte./ Appeso a trespoli,
aiole, / alle radici del glicine, ai raggi della ruota,/ aspetto (il barattolo
del nescafé / a portata di mano, l'acciarino/ fra le dita del piede) che
l'arcangelo Calabresi scenda a giudicarmi.»
“il manifesto”, 19.10.2005
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