Il diario di Abraham Plotkin,
sindacalista americano,
testimone dei giorni che precedettero
la presa del potere
dei nazisti in Germania,
fino alla notte del 27 febbraio del '33,
quando il Reichstag fu dato alle fiamme.
Abraham Plotkin alza il sipario.
Impugnando la penna e sulla scena di carta che calpesterà, avanza Abraham
Plotkin. Mostra il taccuino (di Plotkin) che resoconta l'avventura (di Plotkin)
nella terra gestante mostri. Vive e scrive di vivere. Vede e descrive quel che
vede, e l'atto del vedere. Il privilegio del diarista. Imprime una data. Il
ventidue. Novembre. Mille novecento trentadue. Menziona un luogo, Berlino. Tu
somma il luogo alla data e ricaverai l'intenzione di un folle: Abraham l'ebreo
Plotkin, Abraham l'americano Plotkin ma ucraino di nascita, Abraham Plotkin il
sindacalista viaggia nella Germania gravida di Hitler, s'intrufola nel
collasso, nel sisma, nella colata. Dove volano proiettili e coltelli, lui
desidera stare. Quando gli altri scappano, lui accorre: nell'inverno del
continente e per apprendere la ricetta del gulasch europeo, la pietanza tedesca
di povertà, disoccupazione, rimedi, sussidi, quanto basta di Stato sociale,
sindacato, socialdemocrazia; quel che non hanno in America: gli yankee Plotkin,
i miserabili Plotkin. «Voglio conoscere. Gli strumenti. Per essere forte.
Resistere alla depressione. Indossare il carapace. Che mi ripari dai tagli,
dalle ferite e dal pus.». Ma sarà il testimone di una storia diversa. Ma sarà
un testimone.
Novembre 1932
Viene da San Francisco dove ha
perso il lavoro e adesso Potsdamer Platz e una mansarda su Banhofstrasse per
Plotkin che indossa la spugnosità del viaggiatore (abito cucito attorno ai pori
ed elettrico) e lo sguardo permeabile nella catena gerarchica verso la penna,
verso la pagina come un pannolino che non rilasci dettagli. La ritenzione del
diarista immortala l'odore del clima, della neve, delle strade e le carnagioni
e gli stemmi della realtà. Non sono consentite perdite. Di realtà. La città
subissa (con ciò che appare) Plotkin che ora, nell'hotel Adlon, sceglie un
divano, s'addormenta e sogna. Ventitré milioni di tedeschi, nel sogno di
Plotkin (arredato dall'eco dell'attualità), sopravvivono grazie agli aiuti di Stato.
«Come fa la Germania a sopportare un carico simile? Qual è il suo segreto?», e
al risveglio, in questa città, un viandante assaggia e raffronta e sostiene che
Alexanderplatz assomigli a Hell's Kitchen ed espone «gli ebrei coi loro negozi
di seconda mano, i banchi dei pegni, i bordelli, la folla» nell'istantanea del
«quartiere che raccoglie la crema degli altri quartieri e la tramuta in
feccia». C'è un locale. C'è una ragazza che s'avvicina: «Ti va? Fanno due
marchi». «No, grazie. Mi va la birra. Perché fai questa vita?» «Mi piace fare
la vita. Prima dormivo in un letto che di giorno dovevo lasciare perché ci
dormisse un altro. Risparmiavo su tutto. Ho perso il lavoro. Sono finita sopra
una stalla. Non dormirò mai più in una stalla. Preferisco fare la vita. E
quando finirà, sarà finita per me. Hai letto Berlin, Alexanderplatz? Sì? Ma guarda un po', in America leggono
Döblin! Hai presente quando dice che il tempo è un macellaio e noi fuggiamo dal
suo coltello? Be', quella sono io. Siamo tutti noi.»
Dicembre 1932
Il diarista è il disegno che
disegna sé stesso per un'arte circolare dalla coda alla bocca del serpente.
L'eiezione. La partecipazione. La rappresentazione. Della realtà. Lo
coinvolgono come gesti di una trilogia che ha per titolo «Io, voi, la storia,
la mia storia». Il memorialista civetta col journal
intime, conversa col futuro, racconta all'avvenire, ricatta il presente
(«quanto mi dai, perché io ti consegni ai posteri?»). E il presente,
complottando con la sua coscienza spugnosa, implora Plotkin che ci regali
Herschel. Il giovane Herschel. L'ebreo Herschel. Impiegato in bottega. Povero.
Risentito. Cresce ruggine tra la vita e Herschel, che chiede: «Anche a New York
gettano gli ebrei giù dalla metro in corsa?», e poi sospira: «Noi siamo maledetti.
Dall'antisemitismo. Che devasta i nostri negozi. Che ci spinge a chiedere
pietà. Ma io non voglio carità. Io pretendo il diritto di vivere. Come giudeo.
In questa terra. Con gli stessi diritti degli altri» e Plotkin annuisce,
dubita, sottovaluta, incede nel couscous
avariato di Wedding, il quartiere che s'intesta la fame. Che nome ha la fame?
Forse quello di Herr Gehrig la cui complessione mostra il disoccupato, quattro
figli, la moglie, un pasto al giorno, patate, crauti, la domenica carne: una
libbra in cinque. Quaggiù: la mummificazione della classe operaia, macchie
ipostatiche sul lavoro, un lutto ipocrita e falso, dalla bocca dei futuri
cadaveri l'alito dei mestieri in malora e "questa è la stanza dove
viviamo, mangiamo, dormiamo e spesso moriamo. Questa è la latrina per l'uso di
nove famiglie. Questa è la stalla dove mungiamo le mucche e al di sopra del
fieno e delle feci vivono i nonni, i nipoti, le madri di Wedding». Eppure a
distanza di ore e metri il sindacalista Schultz rassicura Plotkin: «Noi socialdemocratici.
Abbiamo paura. Ma abbiamo fiducia. Ci siamo liberati di von Papen. Ci stiamo
per sbarazzare di Hitler, che ormai è disperato. Stia certo: il nazismo andrà
rapidamente in frantumi». Coro - Hanno fiducia? Hitler in frantumi? Il nazismo,
rapidamente, disperato? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto?
Seguitiamo. Come seguitano i mesi.
Gennaio 1933
Uccidono il giovane Wagnitz.
Walter dell'Hitlerjugend Wagnitz. Sulla scena palustre, brandeburghese,
antisemita una donna apostrofa Plotkin: «Io non parlo con gli ebrei». E questa
sera. Il palazzo enorme per giochi e adunate. Cresce sulla pietra e sul vetro.
Incide il quartiere di Schöneberg. Una torta edile. Sul tavolo della
conurbazione un dolce inscalfibile. Un anfiteatro per le arringhe dell'odio.
Questa sera. Lo Sportpalast apre le porte ai nazisti. Il testimone che si
testimonia racconta «spalti gremiti» così «siedo in alto» - «entra un gruppo
vestito di nero» - entra il lutto e nella coreografia si fa avanti «la madre di
Wagnitz» «tutti si alzano» - e «offrono il saluto nazista». Poi ecco Goebbels
che ha la «voce potente» e «trema» e «si contorce» e promette: «Noi siamo i
romani. Che combatterono. Anno dopo anno. Finché non distrussero Cartagine» e
il ducetto si chiede e risponde: «Chi è il colpevole della morte di Wagnitz?
Gli ebrei!», e la platea spruzza anatemi. Sugli ebrei. Esce Plotkin, dal teatro
dell'odio. Cammina per strada fino al giorno (poco dopo) in cui Hitler va al
governo assieme a von Papen e Hugenberg. Eppure il socialista Bading rassicura
l'uomo che vive e scrive di vivere: «Hitler non durerà. Non risolverà la
disoccupazione. Hitler aggraverà. La disoccupazione. E quando i tedeschi
l'avranno capito, inizierà il suo declino». Coro - Hitler aggraverà il proprio
declino? Hitler non risolverà i tedeschi? È quello che abbiamo sentito? È
quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.
Febbraio 1933
L'elenco delle proibizioni è il
ricettario della cattiva cucina. Istruzioni del veleno e il disgusto. Una
gastronomia carnivora, cannibale per i morti accoltellati, sparati, il divieto
di stampa comunista, la censura della stampa socialista e comizi, cortei,
discorsi pubblici: sono proscritti. La marea edittale, la marea violenta
nazista. Il viaggio di Plotkin non ha più senso. La Germania che pensava già
non c'è più. I fatti derubano Plotkin che adesso arretrando, un po' sbandato,
percettore di allarmi, assordato dalla minaccia ultrasonica, troppo storica,
cava bruciori dall'insonnia e domande gastralgiche che in una foresta rivolge
poi a Martin Plettl, il sindacalista: «Se Hitler farà questo, come reagirete?
Se Hitler farà quest'altro, cosa risponderete?». Plettl è calmo e sorride, e
spiega: «Abbiamo valutato. Tutti gli scenari. Ogni possibilità. Siamo
preparati. In caso di emergenza. La grande macchina del sindacato. Saprà
reagire. Entro un'ora. L'intera organizzazione. In ogni parte della Germania.
Reagirà. Ma non si preoccupi, non ci sarà una dittatura. Hindenburg non lo
consente». Coro - L'ingenuità di Plettl svetta sulle conifere, sradica persino
l'edera. Tra due settimane il Reichstag brucerà. Tre mesi e mezzo e il
sindacato terminerà. Tre mesi e mezzo e arrestano Plettl, il candido. Da questo
bosco prende il volo una miopia che impedisce al sé di riconoscere l'altro e sé
stesso in relazione con l'altro. L'inverno, le marce, le strade di pietra, la
mandria dei berlinesi erbivori e innocui; i provvedimenti che il potere,
vestito da realtà, prende contro il dominato, nell'abito della realtà;
l'attesa, la considerazione di ipotesi sul corso degli eventi. Da questo
mucchio selvaggio (una pasta di cemento) risulta una mano, poi l'altra mano e
il volto di Plotkin: sporco, infangato dalla democrazia che crolla, apre la
bocca, prende fiato, si lascia trasportare da un'ora. Può essere una carrozza,
o anche un tassì: un'ora. Può avere le ruote, i pedali oppure i binari: un'ora
di tempo e Plotkin si ferma nel ristorante Aschinger a bere un caffè e riflette
e riposa. È la notte. Del ventisette febbraio. Quando qualcuno entra nel locale
e grida: «Brucia!». Cos'è che brucia? Ancora e di nuovo, nel ciclo continuo del
cammino e del resoconto, Plotkin è costretto a testimoniare il cappotto, la
sciarpa, la strada. Esce. S'arrampica su Charlottenstrasse, verso un chiarore.
Anche la folla, che lo circonda e accompagna, vede vampate. Un fuoco nel cielo.
Una morte che vive. I bagliori come spermatozoi che fecondano il domani di
cenere. Oggi brilla, domani sarà carbone e la domanda (di Plotkin) ritorna:
«Cos'è che brucia?». Poi la risposta (di Plotkin): «Accidenti, è il Reichstag
che brucia».
Coro - Salutate Plotkin. Per via
delle fiamme ci fermiamo. Tra pochi giorni i nazisti avranno il potere
assoluto. Ma noi sopravviviamo, finendola qui.
Postilla
Abraham Plotkin visse a Berlino
tra l'inverno del 1932 e la primavera del 1933. Il suo diario (An American in Hitler's Berlin. Abraham
Plotkin's Diary, 1932-33, a cura di Catherine Collomp e Bruno Groppo,
University of Illinois Press, Urbana and Chicago, 2009) è una testimonianza
preziosa dei mesi cruciali che precedettero la presa del potere nazista. Malati
di posterità, siamo abituati a considerare l'ascesa di Hitler un fatto
inevitabile in quanto accaduto. L'attitudine ha una sua logica, non lo nego. Ma
i contemporanei - come ci mostra Plotkin con le sue pagine, i suoi
ragionamenti, le sue valutazioni e congetture - usavano una logica diversa,
ipotizzavano scenari che non avrebbero dato esiti, eppure altrettanto
verosimili, se non probabili, del cupo avverarsi del totalitarismo. In quei
mesi, in Germania, tutto era a tal punto possibile che un sindacalista
americano, ed ebreo, sceglieva di trasferirsi a Berlino per imparare le tutele
dello Stato sociale, le protezioni assicurate ai disoccupati (aiuti inesistenti
negli Stati Uniti). Il volume pubblicato nel 2009 raccoglie una parte dei diari
di Plotkin, conservati integralmente presso il Kheel Center for
Labor-Management Documentation and Archives, Martin P. Catherwood Library,
Cornell University, Ithaca. Plotkin frequentò molte personalità della classe
dirigente socialdemocratica e sindacale berlinese, testimoniandone la caduta,
la debolezza, la miopia.
il manifesto, 4 agosto 2013
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