4.3.14

Plotkin. Un ebreo Usa nella Berlino di Hitler (Davide Orecchio)

Il diario di Abraham Plotkin,
sindacalista americano,
testimone dei giorni che precedettero
la presa del potere
dei nazisti in Germania,
fino alla notte del 27 febbraio del '33,
quando il Reichstag fu dato alle fiamme.
 
Berlino 1933. L'incendio del Reichstag
Abraham Plotkin alza il sipario. Impugnando la penna e sulla scena di carta che calpesterà, avanza Abraham Plotkin. Mostra il taccuino (di Plotkin) che resoconta l'avventura (di Plotkin) nella terra gestante mostri. Vive e scrive di vivere. Vede e descrive quel che vede, e l'atto del vedere. Il privilegio del diarista. Imprime una data. Il ventidue. Novembre. Mille novecento trentadue. Menziona un luogo, Berlino. Tu somma il luogo alla data e ricaverai l'intenzione di un folle: Abraham l'ebreo Plotkin, Abraham l'americano Plotkin ma ucraino di nascita, Abraham Plotkin il sindacalista viaggia nella Germania gravida di Hitler, s'intrufola nel collasso, nel sisma, nella colata. Dove volano proiettili e coltelli, lui desidera stare. Quando gli altri scappano, lui accorre: nell'inverno del continente e per apprendere la ricetta del gulasch europeo, la pietanza tedesca di povertà, disoccupazione, rimedi, sussidi, quanto basta di Stato sociale, sindacato, socialdemocrazia; quel che non hanno in America: gli yankee Plotkin, i miserabili Plotkin. «Voglio conoscere. Gli strumenti. Per essere forte. Resistere alla depressione. Indossare il carapace. Che mi ripari dai tagli, dalle ferite e dal pus.». Ma sarà il testimone di una storia diversa. Ma sarà un testimone.

Novembre 1932
Viene da San Francisco dove ha perso il lavoro e adesso Potsdamer Platz e una mansarda su Banhofstrasse per Plotkin che indossa la spugnosità del viaggiatore (abito cucito attorno ai pori ed elettrico) e lo sguardo permeabile nella catena gerarchica verso la penna, verso la pagina come un pannolino che non rilasci dettagli. La ritenzione del diarista immortala l'odore del clima, della neve, delle strade e le carnagioni e gli stemmi della realtà. Non sono consentite perdite. Di realtà. La città subissa (con ciò che appare) Plotkin che ora, nell'hotel Adlon, sceglie un divano, s'addormenta e sogna. Ventitré milioni di tedeschi, nel sogno di Plotkin (arredato dall'eco dell'attualità), sopravvivono grazie agli aiuti di Stato. «Come fa la Germania a sopportare un carico simile? Qual è il suo segreto?», e al risveglio, in questa città, un viandante assaggia e raffronta e sostiene che Alexanderplatz assomigli a Hell's Kitchen ed espone «gli ebrei coi loro negozi di seconda mano, i banchi dei pegni, i bordelli, la folla» nell'istantanea del «quartiere che raccoglie la crema degli altri quartieri e la tramuta in feccia». C'è un locale. C'è una ragazza che s'avvicina: «Ti va? Fanno due marchi». «No, grazie. Mi va la birra. Perché fai questa vita?» «Mi piace fare la vita. Prima dormivo in un letto che di giorno dovevo lasciare perché ci dormisse un altro. Risparmiavo su tutto. Ho perso il lavoro. Sono finita sopra una stalla. Non dormirò mai più in una stalla. Preferisco fare la vita. E quando finirà, sarà finita per me. Hai letto Berlin, Alexanderplatz? Sì? Ma guarda un po', in America leggono Döblin! Hai presente quando dice che il tempo è un macellaio e noi fuggiamo dal suo coltello? Be', quella sono io. Siamo tutti noi.»

Dicembre 1932
Il diarista è il disegno che disegna sé stesso per un'arte circolare dalla coda alla bocca del serpente. L'eiezione. La partecipazione. La rappresentazione. Della realtà. Lo coinvolgono come gesti di una trilogia che ha per titolo «Io, voi, la storia, la mia storia». Il memorialista civetta col journal intime, conversa col futuro, racconta all'avvenire, ricatta il presente («quanto mi dai, perché io ti consegni ai posteri?»). E il presente, complottando con la sua coscienza spugnosa, implora Plotkin che ci regali Herschel. Il giovane Herschel. L'ebreo Herschel. Impiegato in bottega. Povero. Risentito. Cresce ruggine tra la vita e Herschel, che chiede: «Anche a New York gettano gli ebrei giù dalla metro in corsa?», e poi sospira: «Noi siamo maledetti. Dall'antisemitismo. Che devasta i nostri negozi. Che ci spinge a chiedere pietà. Ma io non voglio carità. Io pretendo il diritto di vivere. Come giudeo. In questa terra. Con gli stessi diritti degli altri» e Plotkin annuisce, dubita, sottovaluta, incede nel couscous avariato di Wedding, il quartiere che s'intesta la fame. Che nome ha la fame? Forse quello di Herr Gehrig la cui complessione mostra il disoccupato, quattro figli, la moglie, un pasto al giorno, patate, crauti, la domenica carne: una libbra in cinque. Quaggiù: la mummificazione della classe operaia, macchie ipostatiche sul lavoro, un lutto ipocrita e falso, dalla bocca dei futuri cadaveri l'alito dei mestieri in malora e "questa è la stanza dove viviamo, mangiamo, dormiamo e spesso moriamo. Questa è la latrina per l'uso di nove famiglie. Questa è la stalla dove mungiamo le mucche e al di sopra del fieno e delle feci vivono i nonni, i nipoti, le madri di Wedding». Eppure a distanza di ore e metri il sindacalista Schultz rassicura Plotkin: «Noi socialdemocratici. Abbiamo paura. Ma abbiamo fiducia. Ci siamo liberati di von Papen. Ci stiamo per sbarazzare di Hitler, che ormai è disperato. Stia certo: il nazismo andrà rapidamente in frantumi». Coro - Hanno fiducia? Hitler in frantumi? Il nazismo, rapidamente, disperato? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

Gennaio 1933
Uccidono il giovane Wagnitz. Walter dell'Hitlerjugend Wagnitz. Sulla scena palustre, brandeburghese, antisemita una donna apostrofa Plotkin: «Io non parlo con gli ebrei». E questa sera. Il palazzo enorme per giochi e adunate. Cresce sulla pietra e sul vetro. Incide il quartiere di Schöneberg. Una torta edile. Sul tavolo della conurbazione un dolce inscalfibile. Un anfiteatro per le arringhe dell'odio. Questa sera. Lo Sportpalast apre le porte ai nazisti. Il testimone che si testimonia racconta «spalti gremiti» così «siedo in alto» - «entra un gruppo vestito di nero» - entra il lutto e nella coreografia si fa avanti «la madre di Wagnitz» «tutti si alzano» - e «offrono il saluto nazista». Poi ecco Goebbels che ha la «voce potente» e «trema» e «si contorce» e promette: «Noi siamo i romani. Che combatterono. Anno dopo anno. Finché non distrussero Cartagine» e il ducetto si chiede e risponde: «Chi è il colpevole della morte di Wagnitz? Gli ebrei!», e la platea spruzza anatemi. Sugli ebrei. Esce Plotkin, dal teatro dell'odio. Cammina per strada fino al giorno (poco dopo) in cui Hitler va al governo assieme a von Papen e Hugenberg. Eppure il socialista Bading rassicura l'uomo che vive e scrive di vivere: «Hitler non durerà. Non risolverà la disoccupazione. Hitler aggraverà. La disoccupazione. E quando i tedeschi l'avranno capito, inizierà il suo declino». Coro - Hitler aggraverà il proprio declino? Hitler non risolverà i tedeschi? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

Febbraio 1933
L'elenco delle proibizioni è il ricettario della cattiva cucina. Istruzioni del veleno e il disgusto. Una gastronomia carnivora, cannibale per i morti accoltellati, sparati, il divieto di stampa comunista, la censura della stampa socialista e comizi, cortei, discorsi pubblici: sono proscritti. La marea edittale, la marea violenta nazista. Il viaggio di Plotkin non ha più senso. La Germania che pensava già non c'è più. I fatti derubano Plotkin che adesso arretrando, un po' sbandato, percettore di allarmi, assordato dalla minaccia ultrasonica, troppo storica, cava bruciori dall'insonnia e domande gastralgiche che in una foresta rivolge poi a Martin Plettl, il sindacalista: «Se Hitler farà questo, come reagirete? Se Hitler farà quest'altro, cosa risponderete?». Plettl è calmo e sorride, e spiega: «Abbiamo valutato. Tutti gli scenari. Ogni possibilità. Siamo preparati. In caso di emergenza. La grande macchina del sindacato. Saprà reagire. Entro un'ora. L'intera organizzazione. In ogni parte della Germania. Reagirà. Ma non si preoccupi, non ci sarà una dittatura. Hindenburg non lo consente». Coro - L'ingenuità di Plettl svetta sulle conifere, sradica persino l'edera. Tra due settimane il Reichstag brucerà. Tre mesi e mezzo e il sindacato terminerà. Tre mesi e mezzo e arrestano Plettl, il candido. Da questo bosco prende il volo una miopia che impedisce al sé di riconoscere l'altro e sé stesso in relazione con l'altro. L'inverno, le marce, le strade di pietra, la mandria dei berlinesi erbivori e innocui; i provvedimenti che il potere, vestito da realtà, prende contro il dominato, nell'abito della realtà; l'attesa, la considerazione di ipotesi sul corso degli eventi. Da questo mucchio selvaggio (una pasta di cemento) risulta una mano, poi l'altra mano e il volto di Plotkin: sporco, infangato dalla democrazia che crolla, apre la bocca, prende fiato, si lascia trasportare da un'ora. Può essere una carrozza, o anche un tassì: un'ora. Può avere le ruote, i pedali oppure i binari: un'ora di tempo e Plotkin si ferma nel ristorante Aschinger a bere un caffè e riflette e riposa. È la notte. Del ventisette febbraio. Quando qualcuno entra nel locale e grida: «Brucia!». Cos'è che brucia? Ancora e di nuovo, nel ciclo continuo del cammino e del resoconto, Plotkin è costretto a testimoniare il cappotto, la sciarpa, la strada. Esce. S'arrampica su Charlottenstrasse, verso un chiarore. Anche la folla, che lo circonda e accompagna, vede vampate. Un fuoco nel cielo. Una morte che vive. I bagliori come spermatozoi che fecondano il domani di cenere. Oggi brilla, domani sarà carbone e la domanda (di Plotkin) ritorna: «Cos'è che brucia?». Poi la risposta (di Plotkin): «Accidenti, è il Reichstag che brucia».
Coro - Salutate Plotkin. Per via delle fiamme ci fermiamo. Tra pochi giorni i nazisti avranno il potere assoluto. Ma noi sopravviviamo, finendola qui.

Postilla
Abraham Plotkin visse a Berlino tra l'inverno del 1932 e la primavera del 1933. Il suo diario (An American in Hitler's Berlin. Abraham Plotkin's Diary, 1932-33, a cura di Catherine Collomp e Bruno Groppo, University of Illinois Press, Urbana and Chicago, 2009) è una testimonianza preziosa dei mesi cruciali che precedettero la presa del potere nazista. Malati di posterità, siamo abituati a considerare l'ascesa di Hitler un fatto inevitabile in quanto accaduto. L'attitudine ha una sua logica, non lo nego. Ma i contemporanei - come ci mostra Plotkin con le sue pagine, i suoi ragionamenti, le sue valutazioni e congetture - usavano una logica diversa, ipotizzavano scenari che non avrebbero dato esiti, eppure altrettanto verosimili, se non probabili, del cupo avverarsi del totalitarismo. In quei mesi, in Germania, tutto era a tal punto possibile che un sindacalista americano, ed ebreo, sceglieva di trasferirsi a Berlino per imparare le tutele dello Stato sociale, le protezioni assicurate ai disoccupati (aiuti inesistenti negli Stati Uniti). Il volume pubblicato nel 2009 raccoglie una parte dei diari di Plotkin, conservati integralmente presso il Kheel Center for Labor-Management Documentation and Archives, Martin P. Catherwood Library, Cornell University, Ithaca. Plotkin frequentò molte personalità della classe dirigente socialdemocratica e sindacale berlinese, testimoniandone la caduta, la debolezza, la miopia. 

il manifesto, 4 agosto 2013

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