Nessuno conosce meglio dei
siciliani, come s’è detto e ripetuto tante volte, il sentimento della noia, e nessuno
più di loro – da quella che per molti si è da sempre rivelata una condizione
devastante – è in grado di trarne giovamenti e vantaggi insospettabili e
produttivi, trasformandone gli effetti ipnotici, collosi e avvolgenti tipici
della materia di cui è fatta addirittura in suprema sprezzatura, in sapienza,
in disincanto, in conoscenza profonda delle cose e dei traffici del mondo. Pare
tuttavia che il 1937 sia stato, sotto tale aspetto, un anno spettacolare, a
memoria d’uomo privo di pietre di paragone che servissero al confronto. Al
punto che Vitaliano Brancati non se ne dimenticò più se ancora nel 1944 sentì
la necessità di storicizzare il meraviglioso accadimento in un racconto poi
incluso nel volume Il vecchio con gli
stivali: «Chi non conosce la noia che si stabilì in Italia nel 1937, manca
di una grave esperienza che forse non potrà avere più mai, nemmeno nei suoi
discendenti, perché è difficile che si ripetano nel mondo quelle singolari condizioni».
In quel tratto d’epoca, durante
la gagliarda e sonnacchiosa stagione dell’impero, di ritorno da Roma, Domenico
Vannantò – un trentenne, la medesima età dello scrittore di Pachino – decide di
fermarsi
a Caltanissetta, dove gli pare che
la «brutalità dell’annoiarsi brutalmente» raggiunga livelli di esemplarità mitica.
Il protagonista conosce alla perfezione il grafico della noia. La sua può essere
«avida e feroce», «sorda e plumbea» oppure, d’un sol colpo e come per miracolo,
«lugubre e nera». Conta al dunque, per noi, che Vannantò, mortalmente annoiato
innanzitutto di se stesso, porti a compimento la propria ascesi (perché di questo
si tratta) a Caltanissetta, dove la noia tocca «un punto che altrove non aveva
mai sfiorato», insomma la noia «al grado d’esultanza».
In quella città e in
quell’indimenticabile anno – e mentre Brancati varcava ogni mattina da
insegnante il portone dell’Istituto magistrale – due adolescenti si ritrovarono
compagni di banco e da allora divennero amici per la vita, indivisibili da
subito e per sempre, senza mai un litigio, uno screzio, un impulso a volersi
separare. Uno, chiamato dagli intimi Nanà, classe 1921, era nato a Racalmuto,
in provincia di Agrigento; l’altro, Stestè, era invece venuto alla luce a Delia
(la patria di Luigi Russo) nel 1922. Si incontrarono, confessa oggi Stestè,
grazie a «una provvidenziale e veramente felice bocciatura» ad opera di una insegnante
«di insolita, divertente ignoranza, che mi fece quel dono di cui, ancora, non
ho lingua per ringraziarla, come da noi usa dire». Fu così che Stestè, al
secolo Stefano Vilardo, conobbe quel «timido e impacciato ragazzo d’un
intelletto non comune», con il quale, ricorda, «facevamo spesso lunghe
passeggiate nei campi ricchi di messi dorate» o, continua, «andavamo discutendo
di libri, di poesie, di cinema» per strade di campagna o sotto la luce
«deliziosamente schiva» dei lampioni che a quel tempo illuminavano le vie del
centro della città.
A scuola con Leonardo Sciascia (Sellerio, pp. 110, € 10, 00) è un piccolo
e bellissimo libro che ci offre un ritratto inedito, sorprendente, innamorato dello
scrittore da cucciolo – un adolescente riservato, acutissimo, aiutato da una
formidabile memoria che gli consentiva di ricordare ogni benché minimo
dettaglio di ciò che andava leggendo, curioso di tutto e punto di riferimento
per tutti e che ordiva scherzi in qualche caso di divertita ferocia a danno di
coetanei e di professori.
Nella prima parte del volume
Vilardo risponde alle domande di Antonio Motta che lo incita a ricordare, a
dire, a rivelare, a ricostruire nessi con la storia politica e del costume di
quegli anni. Proprio questa cifra dialogica è uno dei pregi del libro, laddove
il testimone o l’amico oggi rimasto solo sublima il piacere del ricordo e il
conseguente strazio del lutto in affabilità, in tenerezza insieme forte e
svagata. Ma anche in tensione morale, riandando alle qualità di quel futuro
scrittore e alla fatica titanica del comune cammino verso il sapere, la
crescita intellettuale, la scoperta del mondo in tempi difficili, chiusi,
sonnolenti, coercitivi.
Perché, dopotutto, A scuola con Leonardo Sciascia rievoca
il clima di un’epoca vissuta in una città di provincia della Sicilia profonda,
un intero ambiente, un processo di formazione di due giovani che si sarebbero di
lì a poco entrambi votati alla letteratura – Sciascia alla maniera che sappiamo,
Vilardo in qualità di poeta (va almeno menzionato Tutti dicono Germania Germania, pubblicato da Garzanti nel 1975 e
nel 2007 ristampato da Sellerio) e di scrittore (Una sorta di violenza è del 1990, Uno stupido scherzo del 1997). Egli rievoca, inoltre, la
temperatura conformistica di quello snodo storico – temperatura «di scervellata
acquiescenza, Dio ci perdoni. Di euforica gratitudine per il Grande Capo che ci
aveva donato l’Impero, per l’Uomo del Destino, come qualche incosciente
porporato predicava benedicendo bandiere e gagliardetti. Ricordiamoci che siamo
negli anni Trenta. Faccetta nera e altre minchiatelle del genere erano il nostro
pane quotidiano. La stampa inneggiava, la radio inneggiava, i membri (membro
può avere anche sconcia valenza) dell’Accademia d’Italia inneggiavano, i
professori si adeguavano, e noi? Noi seguivamo pecorescamente il loro melmoso cammino,
e inneggiavamo, esultanti come beoti, al Fondatore dell’Impero».
Ma la noia, si diceva, per i
siciliani può essere una risorsa, uno schermo, una corazza. Per capire meglio, per
capire di più, bastava leggere qualche libro di Dos Passos, di Steinbeck o Babbitt
di Lewis o andare a teatro per vedere Piccola città di Wilder o persino una
rivista di Nino Taranto, ad esempio Dodici
gambe dodici o Tutto va ben Madama la
marchesa.
Insieme al vessillo
dell’amicizia, Vilardo alza qui quello del lutto. E capiamo come il lutto non
si addica neppure all’uomo che, per privilegio d’età, ha visto sparire gli
affetti più intimi e più cari. Il lutto lo si subisce e basta.
“la Talpa – il manifesto”, 8
luglio 2012
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