Nell’agosto 2007 “il manifesto”
propose come lettura per le vacanze dei “ritagli d’autore”, vale a dire dei
testi inediti, dimenticati o comunque curiosi di scrittori importanti. Questo
scritto balzacchiano degli anni 40 dell’Ottocento, che aprì la serie, è una
sorta di “critica della critica” e denuncia una figura di letterato che nella Francia
dell’Ottocento stava divenendo importante, ma a Balzac appariva sostanzialmente
parassitaria. (S.L.L.)
Le qualità generali di un critico
sono certamente degne dell'attenzione di tutti. Lo sono, quanto meno, per il
fatto che in ogni critico esiste un autore impotente. Generalmente, il
«critico» ha iniziato la sua carriera pubblicando libri nei quali, forse, gli è
anche riuscito di scrivere con un buon linguaggio, ma senza idee, né
caratterizzazione dei personaggi. Libri, quindi, privi di ogni interesse.
Un tempo, l'istruzione,
l'esperienza, i lunghi studi erano presupposti necessari per abbracciare la
professione del critico. Ragione per cui tale professione si poteva esercitare
solo molto avanti con gli anni. Ma ai nostri giorni, direbbe Molière, «abbiamo
cambiato tutto». Ci sono stati critici che si sono considerati tali al primo
tentativo e che, comprendendo le regole del gioco senza essere capaci giocare,
si sono messi a elargire consigli a destra e a manca.
Una sorta di dogana
Il ragazzo di venti anni - quello
che a Parigi è definito «il giovane critico biondo» - giudica a casaccio. In
questo modo, la critica ha cambiato forma. Non si tratta più di avere idee, per
questo si tiene di più a una certa maniera di dire, anche se poi tutto si
risolve in ingiurie. Il tipo del «critico del momento» è stato reso
perfettamente da Bertrand nella terribile farsa intitolata Robert Macaire.
Quando il signor Gogo, l'azionista del giornale, chiede i conti, Bertrand si
alza e dice: «Eh, per prima cosa fare notare che il signor Gogo è un
farabutto!».
Oggi, ahinoi, si comincia proprio
da dove finivano gli studiosi di una volta. Tutto è diventato materiale, e la
«critica» stessa si è ridotta a una specie di dogana da cui far passare idee,
opere e commerci da libreria. Saldate i diritti, e via, andare! Gentile nei
riguardi delle stupidaggini e delle scempiaggini, la critica non impugna il
frustino, non imbocca la sua tromba piena di calunnie, non si mette la maschera
e non prende il fioretto se non quando si tratta di parlare di «grandi opere».
Non è snaturata, ama semplicemente i suoi simili: accarezza e coccola la
mediocrità.
I critici di ogni tipo tengono soprattutto
al fatto di farsi passare per bravi ragazzi, se fanno del male non è per
specularci sopra, ma perché il pubblico ama vedersi servire, ogni mattina, tre
o quattro autori infilati allo spiedo come pernici e coperti di ridicolo. Ciò
che il critico trova divertente e di gran gusto è stringervi la mano e farsi
credere vostro amico, proprio mentre vi sta penetrando con gli artigli
avvelenati dei suoi articoli. Se vi sta facendo l'elogio in un giornale
parigino, poi vi assassinerà senza problemi in un giornale londinese. Un
assioma: la critica, oggigiorno, non serve che a una cosa, a far vivere il
critico.
Questo critico se ne sta andando,
non lo si può osservare che nel «Journal des Savants» (il più antico giornale
scientifico francese, fondato nel 1665, ndt), in qualche raro articolo del
«Constitutionnel», arca di Noè di tutte le anticaglie, in qualche raccolta in
cui il suo stile decente e la sua delicatezza fanno l'effetto di un passo di
danza di mademoiselle Noblet al cospetto di ballerine della «nouvelle école»,
come le Elssler, le Carlotta Grisi, le Taglioni e altre ancora destinate a
passare come meteore.
È un critico, questo, che crede
di dover essere per le idee ciò che il magistrato è per le forme giudiziarie e
ha persino ragione, il buonuomo. D'altronde, pieno com'è di uno stile oratorio
simile a quello degli antichi retori attici, egli non si piega mai all'attacco
personale, ma tiene a mostrarsi furbo. L'Académie
française è la sua sola ambizione, il critico crede di avervi diritto,
poiché ha consacrato tutta la sua vita alle lettere. Dopo aver occupato, spesso
per più di venti anni, uno scranno del Ministero, chiede di entrare a far parte
della corte d'assise. È un uomo onesto, si sentirebbe disonorato se
acconsentisse a scrivere un particolo «per», dopo aver scritto un articolo
«contro». Quando, per essere considerati dal giornale o per amicizie potenti,
deve parlare di un libro che non approva, allora questo critico scrive un
articolo «su». Ecco la sua teoria. Non esce da queste tre forme: «per»,
«contro», «su». In trenta anni, il «Journal des Débats» ha sfornato una nidiata
di buoni vecchi critici, gente di intelligenza e di talento, di cuore persino,
profondamente colti, che costituiva la «haute école» della critica. L'ultimo di
questi «antichi» è morto. Il vecchio Duvicquet ha avuto un mancamento, davanti
al giovane critico biondo. Duvicquet può passare per l'ultimo, perché tanto
Feletz quanto Jay, diventati accademici, non hanno più scritto nulla.
L'universitario
Il critico di antica e comprovata
moralità si dà sotto due forme: l'universitario e il mondano. Il critico
universitario, persona poco feconda, prende un libro, lo legge, lo studia,
prende consapevolezza del pensiero dell'autore, lo esamina sotto il triplice
rapporto dell'idea, dell'esecuzione, dello stile. Nel giro di un mese, si mette
a scrivere i suoi tre articoli analizzando prima di tutto l'opera. Esercita la
critica come André-Charles Boulle (maesto ebanista del XVIII secolo, ndt)
faceva i propri mobili.
Dopo tre mesi, quando il libro è
quasi dimenticato, il buon vecchio critico reca il suo pesante e coscienzioso
lavoro. Rifugiatosi nelle altezze del quartiere latino, nelle profondità delle
biblioteche, questo vegliardo ha visto tante di quelle cose, che non si cura
più di guardare il tempo presente. Se ne va in giro vestito di nero, decorato
con la Légion d'Honneur e gioca a domino. Non nutre alcuna ambizione, è
pensionato, ha una governante, ama la gioventù, profetizza grandi successi, ma
si sbaglia sempre.
Il critico mondano, invece,
cammina al passo con il proprio secolo, restando al tempo stesso sbalordito
dall'andatura delle cose. Lo incontrate nella condizione passiva di un uccello
impagliato, procedendo sui boulevard, non comprendendo più niente del
giornalismo, delle sue litanie piene di refusi, delle sue manchevolezze, dei
suoi lapsus plumæ troppo ricorrenti, rivelatori di una ignoranza crassa.
Questo saccente dell'Impero
ingenuamente confessa di essere di una altra epoca, si gigioneggia amabilmente
tra successi dimenticati e conosce ogni aneddoto dei tempi andati. Questo
onest'uomo, metà Schlegel, metà Fontane, ha diretto raccolte di periodici, e
ricoperto funzioni pubbliche perché, un tempo, i governi sapevano bene che non
si può vivere solo della propria penna.
Però non scrive più.
Infine, questo vecchio critico ha
un certo vantaggio su quell'altro a cui abbiamo accennato: non scrive più.
Nasconde il proprio disprezzo per le opere contemporanee sotto una patina di
gentilezza e di formule bonarie: si accusa di poca intelligenza, è ancora un
uomo piacevole, segue il teatro, compra i denti finti più belli e i capelli
posticci migliori del mondo. È tanto affabile e di così buona compagnia che un
qualsiasi borghese lo prenderebbe per un vecchio prefetto imperiale. È troppo ben
vestito, troppo galante, segue troppo le mode del teatro, frequenta troppo le
mostre, per esserne la caricatura. Ha molti vecchi amici e amiche. Rappresenta,
d'altronde, in maniera più che ammirevole ciò che un tempo tutti chiamavano un
«littérateur»!
(traduzione di Marco Dotti)
“il manifesto”, 1° agosto 2007
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