Epicuro |
Già soltanto il parlarne
non è visto di buon occhio. Tanto più scrivere del tabù per
eccellenza dei nostri giorni, ovvero la morte. Eppure si può,
eccome. A farlo da ultimo è stato il buon Umberto Eco, sempre
stimolante e mai banale. La scorsa settimana, dalle colonne della sua
Bustina di Minerva sull’"Espresso", Eco scriveva della morte partendo
da un dossier che le ha dedicato il mensile francese “Magazine
littéraire”. Il rapporto letteratura-morte è noto e anche
piuttosto scontato. Infatti Eco sottolineava un altro aspetto, che il
magazine francese trascura: «Il problema mi pare piuttosto un altro,
e forse dipende dal fatto che oggi si leggono meno libri: noi
contemporanei siamo divenuti incapaci di venire a patti con la morte.
Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure
sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi
celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe
da Requiem».
È vero: la morte non
esiste più. O meglio, esiste soltanto in quanto spettacolarizzata:
la vediamo dagli schermi dei nostri televisori e dei computer, ma è
una morte lontana, rarefatta, che non ci riguarda realmente. È
scomparsa dal nostro orizzonte di esperienza concreta. Il pilota che
sganciò la bomba di Hiroshima quasi impazzì per questa distanza fra
il suo gesto e la morte che provocò e il filosofo Günther Anders ci
scrisse pagine ancora oggi memorabili definendolo uno “scarto
prometeico”. Su una cosa Eco ha ragione da vendere: noi
contemporanei siamo fondamentalmente impreparati, a differenza degli
antichi, di fronte della morte.
Certo, non si muore mai
come si vorrebbe. Eppure questa constatazione è molto più vera oggi
che nel passato. Un tempo si moriva di morti belle, sincere, magari
costruite e “favolose” come le più belle delle morti classiche.
Invece oggi si muore di orrende morti ospedaliere, dolorose, morti
sempre meno umane. O di morti solo
apparentemente estrose, prese in prestito da immaginari mediatici o
legate alle mode.
Noi subiamo e temiamo la
morte come fosse qualcosa che non ci appartiene. A differenza degli
antichi, che invece sapevano bene che la morte fa parte della vita.
Per comprendere quanto
andiamo dicendo converrà allora prendere in mano uno dei libri più
belli apparsi negli ultimi anni, Morti favolose degli antichi
(Quodlibet). L’ha scritto un filologo classico, Dino Baldi, che ha
appena pubblicato sempre per lo stesso editore anche una “riscrittura
” (ovvero una traduzione non scolastica dal greco ma vivace e viva)
di Senofonte, La spedizione verso l’interno (Anabasi).
Nel libro sulle morti degli antichi Baldi fa sua l’attitudine dei
greci e dei romani in merito alla biografia antica: si trattava di
una categoria interpretativa del reale, che era ben distinta dalla
storiografia perché era, piuttosto, una visione del mondo. Quindi ai
detti e ai fatti memorabili si aggiungevano anche le morti
memorabili. Detta in altre parole, se ai greci e ai romani (grandi
meccanici del mondo con una dose di spregiudicatezza e intraprendenza
invidiabile) una cosa non tornava, la si faceva tornare: se il caso o
la natura erano avversi, procurando una morte non degna della vita
vissuta, eroica o nobile, allora la si correggeva con la parola e la
si raccontava nel modo giusto. Ecco allora la “morte favolosa”,
il culmine di una vita; morte che ne era la somma perfezione nel
senso di perficere, portare a compimento.
Insomma, Baldi fa sue le
parole di Montaigne:«Se fossi un editore, farei un repertorio
ragionato delle varie morti. Chi insegna agli uomini a morire,
insegna loro a vivere». E difatti nel catalogo delle morti
nell’antichità non se ne trova quasi mai una banale. Anzi. E
l’invenzione favolosa di queste morti rappresenta anche la capacità
di dialogare con la morte, che è l’indicatore del livello di
civiltà di un’epoca.
Quindi nell’antichità
si moriva di morti pubbliche, retoriche e crudeli, spesso ironiche,
sempre raffinatissime. Si moriva con disinvoltura e senza rimpianti.
Come Plinio il vecchio, che sorpreso dall’eruzione del Vesuvio cui
si era avvicinato per osservarla meglio, piuttosto di fuggire in
maniera scomposta preferì lietamente stendersi e aspettare il
proprio destino. O Eschilo, il cui cranio calvo e lucente fu
scambiato per una pietra da un’aquila, che volteggiava con una
tartaruga fra gli artigli da scagliare su qualcosa di duro per
romperne il guscio. Ma anche il vecchio e malato Epicuro, che
s’immerse in una vasca di acqua calda e morì bevendo vino
schietto. O il poeta e noto ubriacone Cratino, morto di crepacuore a
novantasette anni vedendo i barbari soldati spartani rompere un orcio
di vino davanti ai suoi occhi.
Il catalogo di queste
morti è vario: dalle morti apparenti (Gesù) agli omicidi selvaggi,
dai suicidi controvoglia a quelli a testa alta. E anche morti
perfette, come quella di Platone nel giorno del suo ottantunesimo
compleanno, suscitando ammirazione per aver raggiunto il numero
perfettissimo: nove volte nove. O il poeta Lucrezio, di cui si può
ammirare «il cerchio perfetto di una vita in cui si nasce, si
impazzisce, si scrive il De rerum natura e ci si uccide» .
Le pagine di Baldi
c’insegnano qualcosa su cui riflettere: gli antichi avevano
elaborato forme classiche e canoni per morire in maniera
significativa, cioè in modo ambizioso e appropriato per la vita di
ciascuno. Quindi la morte era proprio vita, vita in senso vero. Ed
era un fatto sociale. Morire è più facile che nascere, diceva
Seneca, e per questo bisogna approfittarne.
Certo, poi non tutte le
morti degli antichi sono epiche: l’imperatore Claudio, da tutti
considerato un’idiota, fu avvelenato dalla moglie Agrippina per
spianare la strada al figlio Nerone. E Seneca così la descrive:
«Queste furono le sue ultime parole, pronunciate dopo che si fu
espresso a voce piena con quella parte del corpo con la quale parlava
più volentieri: oioi, mi sa che mi sono cacato addosso. Non so se
fosse vero: di sicuro, smerdò tutto».
"pubblico", 9/12/2012
Nessun commento:
Posta un commento