Articolo chiaro e comunicazione
efficace, da recuperare e conservare contro i vuoti di memoria. (S.L.L.)
Il 5 ottobre 1911, dopo due
giorni di bombardamento navale, il primo contingente italiano sbarcò a Tripoli,
iniziando l’occupazione coloniale della Libia che, proseguita e rafforzata dal
fascismo, sarebbe durata trent’anni. È una pagina storica definitivamente
chiusa? Non c’è quindi alcuna analogia tra la prima guerra di Libia e quella
attuale?
Certo, in un secolo molte cose sono
cambiate. Ma i meccanismi della guerra sono rimasti sostanzialmente gli stessi.
Gli interessi dell’espansionismo
Agli inizi del Novecento
l’Italia, restata dopo la sconfitta di Adua (1896) una potenza coloniale di
secondo piano con i possedimenti di Eritrea e Somalia, rilanciò la sua politica
espansionista: obiettivo la conquista della Libia, parte dell’impero ottomano
che si stava sgretolando.
A spingere in questa direzione
erano i circoli dominanti finanziari, industriali e agrari, che volevano
penetrare in Nord Africa, e i fabbricanti di cannoni, che volevano una guerra per
accrescere i loro profitti. La conquista iniziò con una aggressiva strategia
economica, attuata dal governo attraverso il Banco di Roma, potente istituto
finanziario legato ad ambienti vaticani e cattolici. Con grossi capitali e
forti contributi governativi, esso cominciò nel 1907 a penetrare in Libia,
aprendo succursali, banchi di pegno e agenzie commerciali. Mise le mani anche
sull’agricoltura, acquistando terreni, impiantando una grande azienda presso
Bengasi e un enorme mulino a Tripoli, e promosse ricerche minerarie. In tre
anni realizzò un giro d’affari di oltre 240 milioni di lire. Ciò suscitò la
crescente ostilità delle autorità turche. L’Italia rispose dichiarando guerra
alla Turchia, nonostante la sua ampia disponibilità a fare concessioni.
Oggi, per le élite economiche e
finanziarie europee e statunitensi, la Libia è ancora più importante. Nello «scatolone
di sabbia» vi sono le maggiori riserve petrolifere dell’Africa, preziose per
l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas
naturale; vi è l’immensa riserva di acqua della falda nubiana, in prospettiva
più preziosa del petrolio. E la Libia è il paese che ha raggiunto in Africa il
più alto livello di sviluppo economico, che ha grossi capitali investiti in
molti paesi. Sulle sue risorse misero le mani soprattutto Gran Bretagna e Stati
uniti, quando il paese ottenne l’indipendenza nel 1951 ma restò dipendente dal
colonialismo che aveva assunto nuove forme. Condizione che terminò quando, nel
1969, gli «ufficiali liberi» di Muammar Gheddafi abolirono la monarchia di re
Idris, strumento del dominio neocoloniale, e fondarono la repubblica,
nazionalizzando le proprietà della British Petroleum e costringendo le
compagnie petrolifere a versare allo stato libico quote molto più alte dei
profitti.
Ora, con la guerra, viene rimesso
tutto in gioco.
Il delirio dell’opinione pubblica
Un secolo fa, la guerra per
l’occupazione della Libia fu preparata e accompagnata da una martellante
propaganda, condotta da quasi tutti i maggiori quotidiani, soprattutto quelli
cattolici legati al Banco di Roma. Si diffuse un vero e proprio delirio: nei
café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d’amore ti giunga dolce questa mia
canzone, sventoli il tricolor sulle tue torri al rombo del cannone». Motivo
conduttore era che l’Italia, nazione civile, doveva liberare la Libia dal
barbaro dominio turco, aprendo la strada al suo sviluppo politico ed economico.
In realtà i libici avevano già conquistato molti diritti politici, che gli
italiani abolirono quando occuparono il paese.
Il Partito socialista,
sopravvalutando la propria forza e non credendo Giolitti capace di gettare
l’Italia in una avventura coloniale, rimase sostanzialmente immobile. Solo
all’ultimo, sotto pressione dei circoli operai e giovanili, la direzione del
Psi proclamò uno sciopero generale il 27 settembre 1911, raccomandando però che
fosse «dignitoso e composto». In realtà, già da tempo noti esponenti socialisti
erano divenuti sostenitori del colonialismo. «Col mio socialismo – scriveva
Giovanni Pascoli – non contrasta l’aspirazione dell’espansione coloniale». E,
iniziata la guerra per la conquista della Libia, annunciava che «la grande proletaria
si è mossa» per dare lavoro ai suoi figli, per «contribuire all’umanamento e
incivilimento dei popoli». Una enunciazione ante litteram del concetto di
«guerra umanitaria», che oggi è alla base della martellante propaganda
mediatica a sostegno dell’attacco alla Libia. La motivazione è ancora quella di
liberare il popolo libico, in questo caso non dal barbaro dominio turco ma da
quello del dittatore Gheddafi, per aprirgli la strada allo sviluppo politico ed
economico con il contributo del lavoro italiano.
E oggi, molto più che nel 1911,
c’è una «sinistra» che appoggia la guerra. Con un segretario del Pd che
sostiene: «L’articolo 11 della Costituzione ripudia la guerra come soluzione delle
controversie internazionali, ma non certamente l’uso della forza per ragioni di
giustizia».
L’attacco e la resistenza
La guerra del 1911 fu a lungo
preparata, infiltrando agenti segreti in Libia con un duplice compito:
raccogliere informazioni militari e reclutare capi arabi disponibili a
collaborare. Deciso l’attacco, l’Italia usò la sua schiacciante superiorità
militare: oltre 20 corazzate e altre navi da guerra bombardarono Tripoli senza
subire alcun danno, dato che i loro cannoni avevano una gittata molto maggiore di
quella dei vecchi cannoni a difesa della città. Fu usata anche l’aeronautica, che
il 1° novembre in Libia effettuò il primo bombardamento della storia. Ma subito
dopo l’inizio dello sbarco del corpo di spedizione, forte di 100mila uomini,
scoppiò la rivolta popolare, e diversi soldati italiani furono massacrati. Gli italiani
scatenerano una vera e propria caccia all’arabo: in tre giorni ne furono
fucilati o impiccati circa 4.500, tra cui 400 donne e molti ragazzi. Migliaia
furono deportati a Ustica e in altre isole, dove morirono quasi tutti di stenti
e malattie.
Iniziava così la storia della
resistenza libica. Nel 1930, per ordine di Mussolini, vennero deportati
dall’altopiano cirenaico circa 100mila abitanti, che furono rinchiusi in una quindicina
di campi di concentramento lungo la costa. Per sterminare le popolazioni
ribelli, furono impiegate dall’aeronautica anche bombe all’iprite, proibite dal
recente Protocollo di Ginevra del 1925. La Libia fu per l’aeronautica di
Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la luftwaffe di Hitler: il terreno di prova delle armi e tecniche di
guerra più micidiali. Nel 1931, per isolare i partigiani guidati da Omar
al-Mukhtar, fu fatto costruire dal generale Graziani, sul confine tra Cirenaica
ed Egitto, un reticolato di filo spinato largo alcuni metri e lungo 270 km,
sorvegliato da aeroplani e pattuglie motorizzate. Omar al-Mukhtar venne
catturato e impiccato il 16 settembre 1931, all’età di oltre 70 anni, nel campo
di concentramento di Soluch, di fronte a ventimila internati.
Significative analogie si
ritrovano nella guerra attuale. Anche questa è iniziata con l’infiltrazione di
agenti segreti e il reclutamento di capi arabi disponibili a collaborare. Anche
questa viene condotta con una schiacciante superiorità militare: le forze aeree
Usa/Nato, di cui fanno parte quelle italiane, hanno effettuato dal 19 marzo
oltre 10mila missioni di attacco, sganciando circa 40mila bombe, distruggendo
oltre 5mila obiettivi senza subire alcuna perdita. E scopo della guerra resta
quello di occupare un paese la cui posizione geostrategica, all’intersezione
tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente, è di primaria importanza. Oggi
soprattutto per Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, che con la fine della monarchia
di re Idris persero le basi militari che gli aveva concesso in Libia e che ora
cercano di riavere. Resta però ancora da vedere quale sarà la reazione del
popolo libico a quella che si prospetta come una nuova occupazione in forme
neocoloniali.
Chissà se il presidente
Napolitano – convinto che l’Italia, oggi fermo presidio della pace, si è
lasciata alle spalle gli anni bui del bellicismo fascista – celebrerà, dopo il
150° dell’unità nazionale, anche il centenario della prima guerra di Libia. Per
capire non tanto che cosa fosse l’Italia allora, ma che cosa sia oggi.
“il manifesto”, 5 ottobre 2011
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