Drammaturgo, entomologo e poeta
belga di lingua francese nato a Gand nel 1862, Maurice Maeterlinck ottenne il
premio Nobel per la letteratura nel 1911. Dopo studi di diritto, all'età di
ventisette anni Maeterlinck diede alle stampe la sua prima raccolta di poemi Serres chaudes, a cui fece seguito, a
distanza di pochi mesi, la pièce teatrale Princesse
Maleine. In lui, come scrisse Rémy de Gourmont, convivevano «due uomini, il
poeta e il saggista, entrambi capaci di rinnovare la disciplina a cui si
avvicinavano». Fra le sue opere, oltre a «Serre calde» (a cura di Milo De
Angelis, Mondadori, 1989) e «La principessa Maleine» (Sellerio, 1994),
ricordiamo La vita delle api
(Rizzoli, 2003). Il testo qui postato, tratto dalla raccolta di saggi L'intelligence des Fleurs edito a Parigi
nel 1907, faceva parte dei “ritagli d’autore scelti dal “manifesto” come
lettura per l’estate nell’agosto 2007. (S.L.L.)
Succede che, fra tante preoccupazioni
intellettuali, talvolta capiti di occuparsi delle caratteristiche del nostro
corpo e, in particolare, degli esercizi che più accrescono la sua forza, la sua
agilità e le sue molte qualità di animale sano, temibile e pronto a far fronte
a tutte le esigenze della vita. A questo proposito, mi ricordo che, poco tempo
fa, parlando della spada e del pugno, trascinato dalla discussione, fui abbastanza
ingiusto nei confronti della sola arma specifica che la natura ci ha dato: il
pugno, appunto. Terrei a porre rimedio alla mia ingiustizia.
Spada e pugno si completano a vicenda
e possono fare - anche se non è elegante esprimersi in questa maniera - dei
buoni «traffici» insieme. Ma la spada non è, o non dovrebbe essere, altro che
un'arma eccezionale, una sorta di ultima
et sacra ratio. Non vi si dovrebbe far ricorso che dopo solenni precauzioni
e un cerimoniale equivalente a quelli di cui si contorna un processo che può
concludersi con una condanna a morte. Al contrario, il pugno è l'arma dei
nostri giorni, l'arma umana per eccellenza, la sola che sia organicamente
adatta alla sensibilità, alla resistenza, alla struttura offensiva e di difesa
del nostro corpo.
Aberrazioni fantastiche
In effetti, a osservarci bene, ci
dovremmo schierare senza grandi vanti tra gli essere meno protetti, fra i più
nudi, fragili, vulnerabili e flaccidi della creazione. Compariamo, per esempio,
il nostro corpo a quello degli insetti, formidabilmente attrezzati per
l'attacco e così fantasticamente corazzati. Osservate, fra gli altri, la
formica sulla quale potete caricare fino a dieci o ventimila volte il peso del
suo corpo, senza che ne appaia infastidita. Osservate l’hanneton, il meno robusto fra i coleotteri, e pesate ciò che riesce
a portare prima che gli si schiantino gli anelli del ventre. Quanto alla resistenza
della lumaca, essa non ha, per così dire, limiti. Se confrontati agli insetti, noi
e la maggior parte dei mammiferi siamo esseri non solidificati, ancora allo
stato gelatinoso e vicinissimi al protoplasma primitivo. Soltanto il nostro
scheletro, simile a un abbozzo della nostra forma definitiva, offre qualche
consistenza. Ma com'è miserabile, questo scheletro, quasi fosse stato concepito
da un elefante! Prendete la nostra spina dorsale, base di tutto il sistema,
dove le vertebre mal assemblate non reggono se non per miracolo, e la nostra
gabbia toracica non presenta se non una serie di sporgenze che osiamo sfiorare
a malapena con la punta delle dita. In opposizione a questa macchina molle e
incoerente che è il nostro corpo, quasi una prova malriuscita della natura, e
contro questo organismo dal quale la vita tende a scappare da ogni parte,
abbiamo immaginato armi capaci di annientarci anche qualora possedessimo la
favolosa corazza, la prodigiosa forza e l'incredibile vitalità dei più indistruttibili
fra gli insetti.
Lo si deve ammettere, in tutto
questo c'è una curiosa e sconcertante aberrazione, una follia originaria propria
della specie umana, follia che, ben lontana dall'emendarsi, cresce ogni giorno
di più. Per restare nell'ambito della logica naturale seguita da ogni altro
essere vivente, noi, fra uomini, non dovremmo usare altro mezzo di difesa o di
attacco che non sia quello offerto dal nostro proprio corpo. In una umanità che
si conformasse strettamente ai dettami della natura il pugno – che sta all’uomo
come il corno al toro, o l’artiglio o il dente al leone basterebbe per ogni
nostra esigenza di protezione, di giustizia e di vendetta. Ogni specie, appena
più saggia, interdirebbe ogni altra arma di scontro, pena la punizione che si
riserva a un crimine irremissibile. In capo a poche generazioni si arriverebbe a
diffondere e a rimettere in piedi una sorta di timore panico della vita umana.
E che selezione rapida, nel senso preciso delle volontà di natura, produrrebbe
la pratica intensiva del pugilato, nel quale si concentrerebbero tutte le
speranze della gloria militare! La selezione, dopo tutto, è la sola cosa realmente
importante di cui dovremmo preoccuparci. È il primo, il più vasto e imperituro
dei nostri doveri verso la specie.
Lezioni di umiltà animale
Nell'attesa, lo studio della boxe
ci offre eccellenti lezioni di umiltà e getta una luce inquietante sul declino
di alcuni fra i nostri istinti più preziosi. Ben presto ci accorgiamo che per
tutto quanto concerne l'uso dei nostri arti, l'agilità, la destrezza, la forza
muscolare, la resistenza al dolore, siamo caduti all'ultimo rango dei mammiferi
o dei batraci. Da questo punto di vista, in un gerarchia bene intesa, noi abbiamo
diritto a un modesto posticino fra la pecora e la rana. Il calcio di un
cavallo, così come l'incornata di un toro o il morso di un cane sono
meccanicamente e anatomicamente non perfettibili. Sarebbe impossibile
migliorare, anche attraverso le più dotte lezioni, l'uso istintivo delle loro
armi naturali. Ma noi, gli «ominidi», i più originali fra i primati, non sappiamo
più sferrare un pugno! Non sappiamo neppure quale sia l'arma caratteristica
della nostra specie.
Prima che un maestro ce l'abbia
laboriosamente e metodicamente insegnato, noi ignoriamo totalmente la maniera
di mettere in opera e di concentrare nelle braccia la forza relativamente
enorme che risiede nelle nostre spalle e nel bacino. Osservate due carrettieri,
due contadini che vengono alle mani: niente di più penoso. Dopo avere
rovesciato una copiosa bordata di ingiurie e di minacce, si prendono per i
capelli e per la gola, lottano coi piedi, le ginocchia a casaccio ciò, si
mordono, si graffiano, si invischiano nella loro rabbia immobile, non osano
mollare la presa e se uno dei due libera un braccio, sferra colpi alla cieca e
quasi sempre a vuoto, piccoli colpi alla rinfusa, ridicoli. La lotta non
finirebbe mai se, da una o dall'altra tasca, non uscisse a tradimento un
coltello.
Osservate, invece, i pugili: non
una parola fuori luogo, nessun brancolare, niente collera. Soltanto la calma e
molte certezze su ciò che va fatto. Lo stare in guardia, una delle più belle posture
del corpo virile, mette in risalto tutti i muscoli dell'organismo. Dalla testa
ai piedi, nessuna particella di forza può più disperdersi. Ciascuna di esse ha
il suo polo nell'uno o nell'altro dei pugni sovraccarichi di energia. Quanta
nobile semplicità nell'attacco! Tre colpi, non uno di più, frutto di una
secolare esperienza, esauriscono matematicamente le mille, inutili possibilità
in cui si avventurano i profani. Tre colpi essenziali, irresistibili, non si può
fare di meglio. Dal momento in cui si colpisce l'avversario, la lotta ha fine,
con completa soddisfazione del vincitore che trionfa tanto incontestabilmente
da non nutrire alcun desiderio di abusare della propria vittoria, e senza
pericolosi
danni per il vinto, ridotto
all'incoscienza e all'impotenza per il solo tempo necessario a che il rancore
svapori. Ben presto, lo sconfitto si rialzerà, senza danni permanenti, perché
la resistenza delle ossa e degli organi è strettamente e naturalmente
proporzionata alla potenza dell'arma umana che l'ha colpito e buttato a terra.
Può sembrare paradossale, ma è facile constatare che, laddove praticata e
coltivata, l'arte della boxe diventa garanzia di pace e mansuetudine. Il nostro
aggressivo nervosismo, la nostra sensibilità in agguato, la sorte del continuo
“chi va là” in cui si agita una vanità sospettosa, tutto in fin dei conti
deriva dal sentimento della nostra impotenza e della nostra inferiorità fisica
che fatica come può per mettere paura, grazie a una maschera fiera e irritabile,
a quegli uomini il più delle volte volgari, ingiusti e malvagi che ci
circondano. Più ci sentiamo disarmati di fronte a un oltraggio, più ci tormenta
il desiderio di provare agli altri e a noi stessi che nessuno può impunemente
offenderci. Il coraggio è tanto intrattabile che l'istinto spaventato,
ricacciato in fondo al corpo che riceverà il colpo, si domanda con più ansia
come finirà.
Risorse magiche della prudenza
Cosa farà, questo istinto di
prudenza, se la crisi volge al peggio? È su di esso che si fa affidamento
nell'ora del pericolo. A questo è affidata la preoccupazione dell'attacco, la
cura della difesa. Ma così spesso, nella vita quotidiana, lo si è cacciato dalla
luce del giorno. Che parte prenderà? Dove bisognerà colpire, agli occhi, al
ventre, al naso, alle tempie, alla gola? Che arma scegliere? Il piede, i denti,
la mano, il gomito, le unghie... Non lo si sa più. Si vaga in una dimora che si
sta deteriorando, e mentre ci si confonde e si tira l'istinto della prudenza
per la manica, il coraggio, l'orgoglio, la vanità, la superbia, l'amor proprio,
tutti i grandi e magnifici signori, magnifici ma irresponsabili, inaspriscono la
lite che, dopo innumerevoli e grotteschi sviamenti, arriva infine
all'inefficace scambio di botte rumorose, cieche, piagnucolose e ibride, penose
e puerili e indefinitamente impotenti.
Al contrario, colui che conosce
la fonte di giustizia e la tiene stretta fra le sue mani chiuse, non ha bisogno
di autoconvincersi. Una volta per tutte, egli sa e conosce. La longanimità, come
un fiore tranquillo, emana dalla sua vittoria ideale, ma certa. L'insulto più
volgare non può ormai alterare il suo sorriso indulgente. Aspetta, pacifico, le
prime violenze, e può dire con tranquillità a tutto ciò che lo offende: «vi
sbatterò fino là in fondo». Un solo gesto magico, al momento giusto, sa porre
fine all'insolenza. A cosa serve questo gesto? Non ci si pensa neppure più,
tanto è certa la sua efficacia. Con la stessa vergogna che si prova nel colpire
un ragazzo indifeso, ci si risolverà, alla fin fine, ad alzare contro una
persona violenta la propria mano sovrana, una mano che rimpiange in anticipo la
troppo facile vittoria.
“il manifesto”, 2 agosto 2007
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