L' irradiazione politica e i
sentimenti sociali che promanano da gran parte dell'opera letteraria e poetica
di Victor Hugo rinviano ad una immagine dell'Ottocento che, tra le tante possibili,
sembra ancora la più verosimile. Cioè un secolo che a quanti come Hugo lo
vissero con attenzione, apparve rappresentabile e descrivibile non solo nei
parziali aspetti e nelle tante forme in cui esso si rivelava, ma nella sua
totalità.
Victor Hugo elaborò addirittura
una formula, tra il titanismo poetico e l'empirismo filosofico, "il tutto
nel tutto", che riflette bene l'idea che egli aveva del proprio tempo e
dei suoi problemi più incalzanti (politici o artistici che fossero); ma che
spiega anche le ragioni della grande popolarità di questo scrittore, in Francia
e nel mondo.
Hugo ha costruito su di sé e
sulle proprie opere (fin dai primi versi e dai primi romanzi storici)
l'autoritratto di un secolo e il ritratto della sua nazione, non tralasciandone
alcun segreto: né le fogne di Parigi, né le "contemplazioni" di
paesaggi interiori o di struggenti tramonti normanni; e soprattutto non
privando, queste rappresentazioni, di grandi sfondi ideali, quali la Storia, la
Libertà e l' Eguaglianza, di incitamenti etici alla lotta contro la miseria
sociale e il dolore universale degli uomini. Tutto questo a scapito di uno dei
tratti fondamentali del romanticismo (il movimento del quale Sainte-Beuve lo
aveva addirittura proclamato tra i fondatori in Francia), cioè l'ironia.
Hugo se ne liberò infatti
rapidamente; e non è detto che anche il suo sottrarsi ad essa non abbia
facilitato l'identificazione delle sue opere con i sentimenti medi, bonari e
"popolari" del tempo, anzi con il sentimentalismo interclassista
della borghesia francese ed europea di metà Ottocento.
Solo Hugo avrebbe potuto scrivere
nel 1852: "Proclamiamolo ad alta voce, proclamiamolo nella rovina e nella
disfatta, questo secolo è il più grande dei secoli; e sapete perché? Perché è
il più mite... Questo secolo proclama la sovranità del cittadino e l'inviolabilità
della vita; incorona il popolo e rende sacro l'uomo... Abbiamo fede!
Affermiamo! L'ironia su se stessi è il principio della viltà. E' affermando che
si diventa buoni". E, con i verbi al passato, come un osservatore di un
secolo venturo, aggiungeva: "Sì, l'affrancamento delle intelligenze, e per
conseguenza l'affrancamento dei popoli, era il compito sublime che il
diciannovesimo secolo adempiva in collaborazione con la Francia, poiché il
doppio lavoro provvidenziale del tempo e degli uomini, della maturazione e dell'
azione, si confondeva nell'opera comune, e la grande epoca aveva per centro la
grande nazione".
Queste parole, accresciute dall'esaltazione
delle conquiste della scienza, della cultura e della tecnica ("Questo
secolo sopprime il tempo, la distanza, il dolore"), colpiscono certo per
la loro retoricità, tuttavia appartengono ad un pamphlet, - Napolèon le Petit,
- che ha reso celebre in Europa proprio l'Hugo politico e il critico più severo
degli arbitrii del potere. In quello scritto si denunciava il colpo di Stato
del 2 dicembre 1851, che aveva trasformato il presidente della repubblica
francese Luigi Napoleone in Napoleone III. In altri termini, quelle celebrative
parole di Hugo non sono nel posto giusto: a smentita del proclamato ottimismo
costeranno, tra l'altro, al loro autore diciotto anni di esilio.
D'altronde, è proprio questo l'Hugo
scrittore "sociale": essere spesso (come dire?) fuori posto, non
andare per il sottile nella scelta delle occasioni e dei luoghi per lanciare
messaggi politici e incitamenti avveniristici. Avevano ragione, quindi, due
ironici per eccellenza - per quanto diversissimi -, Manzoni e Marx, a giudicare
così Napolèon le Petit: "Victor
Hugo con quel suo libro sopra Napoleone rassomiglia a uno che si creda gran
suonatore d'organi e si metta a suonare, ma gli manca chi gli tenga il
mantice" (Manzoni); "Victor Hugo si limita a un'invettiva amara e
piena di sarcasmo contro l'autore responsabile del colpo di Stato. L'avvenimento
in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso che l'atto
di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo
invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa
personale che non avrebbe esempio nella storia del mondo" (Marx).
Eppure, era più nel giusto Hugo
dei suoi critici, se è vero che quando, il 2 settembre 1870, Napoleone III
venne sconfitto a Sedan e fatto prigioniero dai prussiani, fu l'autore di Napolèon le Petit a diventare il simbolo
della svolta della Francia e la speranza della nuova democrazia repubblicana.
Lo si vide subito, al suo rientro trionfale in Francia avvenuto tra continue
dimostrazioni di esultanza fino all'ovazione popolare a Parigi. "Siamo arrivati
a Parigi alle 9 e 35", è scritto nel suo diario alla data 5 settembre.
"Una folla immensa mi attendeva. Accoglienza indescrivibile. Ho parlato
quattro volte. Una volta dal balcone di un caffè, tre volte dalla mia
vettura... Ho detto al popolo: "voi mi ripagate, in un'ora, di vent'anni
di esilio". Cantavano la Marsigliese
e il Canto della Partenza. Gridavano
"Viva Victor Hugo!". Il tragitto, dalla stazione Nord a rue de Laval,
è durato due ore".
Hugo non ripagò questa sincera
esultanza popolare e rifiutò di far parte del governo provvisorio repubblicano
proclamato nella Parigi assediata dai prussiani; ma la sua presenza era, in
quel momento, una garanzia di innegabile valore e importanza. La sua scelta di
campo politico era d'altro canto ben visibile nelle sue opere. Con I Miserabili (1862), I lavoratori del mare (1866) e L'uomo che ride lo scrittore era entrato
prepotentemente tra i romanzieri sociali (e d'appendice) con l'autorità del
profeta della democrazia e del difensore dei diritti dell' uomo (degradato,
come è detto nella nota che introduce I
Miserabili, nel proletariato), della donna (costretta spesso all' abiezione
per fame), dei fanciulli (resi atrofici "per tenebra" intellettuale).
Il segno di questa sua nuova
posizione ideologica non era avvenuto, però, con la rivoluzione del 1848, ma
solo dopo la delusione provocatagli dal colpo di Stato del 2 dicembre. Fino ad
allora Hugo era stato monarchico, legittimista e Pari di Francia. Dopo le
barricate parigine del giugno 1848 era stato bensì eletto all'Assemblea
Costituente repubblicana, ma in una lista di destra; e all'Assemblea
Legislativa del 1849 era stato eletto in una lista di conservatori. Anche per
questo uno degli episodi centrali de I
Miserabili, le barricate di Parigi, è collocato dall'autore non già nel
1848 (quando l'insurrezione fu una cosa molto seria), ma in un tentativo di
piazza del 1832, quando i grandi temi della democrazia e del socialismo erano
appena visibili. Era facile allora a Hugo far lanciare al capopopolo Enjolras (Libro
Quinto, paragrafo 5) un messaggio all'Avvenire, dove la retorica raggiungeva il
sublime: "E quale rivoluzione faremo? L'ho appena detto, la rivoluzione
della Verità. Dal punto di vista politico c'è un solo principio: la sovranità
dell'uomo su se stesso. Questa sovranità dell'io sull'io si chiama
Libertà".
Ed è certamente autobiografica la
pagina de L'uomo che ride (Libro
Nono, paragrafo 1) dove il protagonista si sente investito della faticosa
responsabilità di fare qualcosa per il popolo ("E quando un uomo ha
un'idea, quando è l'incarnazione di un fatto, quando è uomo-simbolo e al tempo
stesso uomo in carne ed ossa, la responsabilità non turba ancora di
più?").
Già da tempo, d'altronde,
qualcuno si era accorto che Hugo tendeva, sfidando il ridicolo, a identificarsi
con la coscienza del mondo, cosa che accadeva spesso ai borghesi delusi. In una
lettera del 1866 a Paul Lafargue, Marx citava sorridendo il calembour di Heinrich Heine in Lutetia: "Hugo non è soltanto
egoista, ma hugoista". E tuttavia, i romanzi, i trentamila versi della Leggenda dei secoli (un poema-vaticinio
sulla civiltà e la storia dei popoli), gli appelli alla pace tra le nazioni, il
progetto degli Stati Uniti d'Europa, i proclami alla giustizia sociale tra gli
uomini, raggiungevano milioni di coscienze e perfino pieghe misteriose dell'animo
umano, non lasciando indifferenti nemmeno poeti come Baudelaire. In fondo, in
tanto sciame retorico brillava qualcosa di vero: "Il popolo è in silenzio.
Io sarò il suo grande avvocato. Parlerò per i muti. Parlerò dei piccoli ai
grandi e dei deboli ai potenti. Questo è il fine della mia sorte" (L' uomo che ride).
Se nel 1848 tutta l'Europa era
stata scossa dalla rivoluzione, se in quell'anno era apparso lo straordinario Manifesto dei comunisti, vuol dire che
l'Ottocento pieno di meraviglie e di progresso, che tanto piaceva agli
intellettuali come Hugo, coltivava nel profondo un'ansia di democrazia
autentica, di eguaglianza politica e sociale, di libertà vera che solo la
speranza del socialismo, ma anche la spada di Garibaldi e la parola di Hugo
riusciranno a rappresentare. E non a caso Hugo sentiva in Garibaldi l'uomo
capace di realizzare il futuro di giustizia dell'Europa, al punto da dimettersi
nel marzo 1871 dal Parlamento francese per essere stata contestata l'elezione
dell' amico italiano, accorso generosamente in difesa della nuova repubblica di
Francia.
Dalla vita vissuta di Victor Hugo
traspare con chiarezza che con il popolo egli non ebbe, in realtà, alcun
contatto. Anzi, proprio la sua esperienza intellettuale e politica
richiederebbe una ricerca storica sul concetto di popolo nella cultura borghese
europea del secolo scorso. Questo concetto poggiava sul vuoto di tanta
letteratura sociale e sentimentale, pensata nello stile di Hugo.
Eppure, nel 1885, la sua morte
addolorò molti in Europa. La commozione fu magnifica e victorhughiana, ma forse
serpeggiò la sensazione che con lui tramontasse l' Ottocento. "Tutto che
fu gloria di questo secolo", scrisse subito Giosuè Carducci, "tanto
audace e buono nel suo principio... tutto fu raccolto e concentrato nella vita
e nell' opera di Vittore". Ma non possiamo credere che anche allora non ci
fossero persone che, leggendo qualche anno dopo i diari inediti di Hugo, non
sorridessero di brani come questi, scritti durante l'assedio di Parigi:
"17 ottobre 1870. Domani in Place de la Concorde si lancerà un
pallone-posta che si chiama Victor Hugo. Con questo pallone invio una lettera a
Londra. 20 ottobre. I giornali annunciano che il pallone Victor Hugo è andato a
cadere in Belgio. E' il primo pallone-posta che oltrepassa la frontiera".
“la Repubblica”, 9 febbraio 1985
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