Il monumento per Victor Hugo a Guernesey |
E' inutile nascondersi le
difficoltà in cui viene a trovarsi chi, povero sconsiderato, ancora una volta
deve affrontare un personaggio così ingombrante e massiccio. Come una statua
(che nel nostro caso è una grande statua gotica) Hugo non offre una veduta
unica. Fermo e tranquillo nella sua solitudine, resta sempre in attesa degli
appuntamenti che la storia gli prepara. Ma gli occasionali clangori celebrativi
non mutano il suo volto buono e sdegnoso, e forse non fanno aumentare il numero
dei suoi lettori.
E così questo personaggio che
volle prendersi per sé tutto il secolo, con le sue utopie, le sue battaglie e
l' esilio; questo poeta che percorse, come diceva Valèry, l'universo del
vocabolario, provandosi in tutti i generi, dall'ode alla satira, dal teatro al
romanzo, alla critica, all'alta eloquenza politica, resta ancora oggi, a un
secolo dalla morte, un enigma.
Il ridicolo è più tagliente della
lama della ghigliottina, dice una vecchia canzone francese. E quale poeta è
stato più colpito da questa macchina rivoluzionaria? La stessa grandezza sembra
pesi sul suo destino come una condanna. E' divenuto il luogo d'incontro delle
valutazioni più contrastanti, una comunione dei contrari, e quasi non più un
uomo ma una figura retorica o una delle quattro specie di sillogismo: l'aporema.
Nel momento stesso in cui stiamo per inchiodarlo alla sua betise, ecco che egli con leggerezza, quasi con noncuranza, ci
sfugge. E ad esempio, in alcune memorabili pagine del suo Shakespeare, inventa un procedimento nuovissimo, caro ai critici
contemporanei, che lo hanno usato fino alla nausea: la cosiddetta mise en abime.
Il poeta e il libro
Hugo è un paese troppo vasto, in
gran parte inesplorato. E sarà anche per questo se, per comodità personale,
molti si son fatta della sua opera una piccola antologia. Ma noi, invece di
proporre un piccolo Hugo tascabile, vogliamo rispettare, parlando di lui, l'immensità
della sua produzione, e il senso e il valore di questa immensità. E sarà bene
affrontarlo con un'immagine biblica, che contempla il rapporto del poeta con il
libro.
Hugo non poteva non essere
affascinato dall'idea che il libro aveva agli albori dell'umanità sui
conduttori di popoli, sui fondatori di nuove religioni. In un suo saggio,
Baudelaire ricordava un passo della Bibbia
in cui Dio ordinava a un profeta, che penso fosse Ezechiele, di mangiare un
libro. Si chiedeva in quale modo Victor Hugo avesse mangiato il dizionario
della lingua che era destinato a parlare, così che il lessico francese, uscendo
dalla sua bocca, era divenuto un universo colorato, melodioso e mobilissimo. Ma
quella lingua doveva divenire libro. E nella stessa Bibbia, quando Dio ordinava a Geremia di procurarsi un rotolo dove avrebbe
dovuto scrivere ciò ch'egli aveva detto su Israele e su Giuda, e quelle parole
furono lette al popolo, tutti si guardavano con terrore. Dunque non è soltanto
l'azione che incute paura, ma la parola. Il libro fu considerato da Hugo un
enorme repertorio d'immagini, d'analogie umane e divine, e anche un' arma di
difesa e d' offesa, di esaltazione e di bellezza.
E si nota già la differenza con
Mallarmè. Per Mallarmè, nella sua pazienza d'alchimista, tutto doveva essere
sacrificato al libro unico che racchiuda la spiegazione orfica della terra. Per
Hugo, uomo politico che ha vissuto le sue battaglie, le azioni assumono la loro
piena risonanza nella storia degli individui e del popolo, se il poeta ne canti
il senso e il valore, così da dare all'azione una sua forma d'eternità. Non
basta essere esiliati (come fu Hugo dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone).
Bisogna scrivere il libro dell' esiliato, e non nei toni dell' elegia, come per
Du Bellay o per Ovidio. Non basta vivere e soffrire il colpo di Stato. Bisogna
scriverne la storia, come fece con l' Histoire
d'un crime. I grandi uomini politici sono anche grandi scrittori, da Giulio
Cesare a Churchill. Le idee, i fatti, i sogni e gli incubi, gli ideali del
passato e dell' avvenire e il grande carico del presente, dovevano aprirsi e
chiudersi in libri diversi, secondo le aspirazioni e le circostanze, l'uno nato
dall'altro e anche all' opposto dell'altro, in un'istancabile generazione di
contrari. Il libro tocca tutte le corde dell'umano e della storia. Si nutre del
passato, dell' erudizione, della conoscenza, e si lancia verso l'avvenire.
L'esilio fece certo bene al
poeta, come ad altri uomini d'azione (Dante in testa), per affinare in anni di
solitudine e di meditazione la "gloria della lingua". Proust, come
Valèry, come Baudelaire, era incantato dell'erudizione "libresca" di Hugo,
che si spostava fino all'uso dei termini tecnici. Ammirava ch'egli conoscesse
Quinto-Curzio, Tacito e Giustino a memoria; e se qualcuno contestava la legittimità
dell'uso di una parola, come accadde a Cousin in una seduta dell'Accademia,
Hugo era pronto a stabilirne la diretta filiazione dagli scrittori che l'avevano
preceduto.
La cattedrale e il libro
Assai prima di Ruskin egli
avvertì quale forza collettiva e quale deposito di cultura fossero custoditi
nelle immense cattedrali del Medioevo. La sua fame d'immensità si esaltava in
questo mondo ormai distrutto, come gli accadde quando, per comporre il suo
romanzo, che era Notre-Dame de Paris,
si chiuse come in una prigione. Rimpiangeva la maestà visibile della scrittura
di granito, i giganteschi alfabeti formulati in colonnati, in piloni, in
obelischi, quelle specie di montagne umane che coprono il passato, dalla
piramide al campanile, da Cheope a Strasburgo.
Ma invitando a risfogliare il
libro scritto dell'architettura, egli non dimostrava alcun gusto archeologico.
La fase decisiva nella storia dell'umanità era quella che aveva segnato il
passaggio dalla bibbia di pietra alla bibbia di carta: era l'invenzione della
stampa.
Tutta la modernità di Hugo, la
sua stessa immagine di Parigi, gli stessi cabarets
del Faubourg Saint-Antoine nei Misèrables,
diceva Benjamin, si modellano sull'antichità. Ma quasi a dare più energia a un
moderno istinto di vita, egli fu un ufficiante devoto, fanatico fino alla
grafomania, di quell'altro edificio ch'era stato creato e che aveva avuto nei
secoli, e soprattutto nel suo, una smisurata utilità: la stampa. Si era
stabilito nel mondo moderno un passaggio per così dire di socialità. L'architettura
non sarebbe stata più l'arte sovrana, dominante, trionfante. Il grande edificio
dell'umanità non sarebbe stato costruito, ma stampato.
Ed esso, domandiamo, potrà avere
la tranquilla disposizione delle parti, l'intima armonia, un tempo depositate
nel grande poema architettonico, come nella Divina
Commedia?
Il poema per frammenti
Nell' affrontare questo problema,
che è il problema stesso della poesia moderna, non è forse stato dato il dovuto
rilievo alla modernità di Hugo. Egli riprende certo nella Lègende des siècles il vecchio poema epico. Ma non intende affatto
ricostruire archeologicamente una forma scomparsa. Per Poe, è noto, il poema
epico non può sussistere nella poesia moderna. Anche i grandi poemi epici, al
di là del loro tessuto narrativo, erano un insieme di splendidi frammenti.
Hugo, scrivendo la Lègende, volle comporre un poema epico
per frammenti che racchiudesse episodi e momenti lirici, alcuni dei quali di
grande bellezza, come Booz endormi,
che fece dire a Proust che non trovava nelle Fleurs du mal una poesia di uguale
bellezza e che alimentò le uniche poche pagine che Croce dedicò a Hugo. Era un
poema nato dalla distruzione. Era ciò che rimaneva dopo che la terra aveva
tremato, un fascio di rovine ove si scorgeva, come una vaga aurora, la luce
dell' avvenire, un filo che s' attenuava fino al punto da divenire invisibile,
il grande filo misterioso del labirinto umano: il progresso. E ammassando
quegli spaventosi avanzi di Babele, avrebbe certamente sorriso dei ricorrenti rappels à l'ordre che si sono susseguiti
nel nostro secolo.
L'uomo civile può cercare,
rispettando gli ideali del popolo e della democrazia, di metter ordine nella
società in cui è stato chiamato a vivere, un ordine che non può identificarsi
con l'autorità e la dittatura. Ma non c'era alcuna possibilità di metter ordine
nella storia e nel creato, anche da parte dello scrittore, che avrebbe avuto
nei nostri tempi un volto nuovo. Le sue funzioni, dalla Rivoluzione in poi, si
erano smisuratamente allargate, in una risonanza più complessa. Anche nella
corsa al romanzo, al libro popolare, doveva essere rispettato, nello
sconvolgimento del lessico, un allargamento smisurato dei confini dell'
espressione. Egli respinse sempre vigorosamente il precetto di Boileau: "Qui ne sait se borner ne sut jamais ècrire".
"Intercessori" e
fantasmi
Ogni poeta si crea i propri
"intercessori". E la figura dell' "intercessore", ritenuto
personaggio offensivo per i buoni borghesi, è indispensabile per i grandi
creatori, Dante o Baudelaire. Gli intercessori di Hugo furono una vera folla...
E man mano ch' egli si spinse nella composizione di una sua lunga lirica ad
essi dedicata, il numero di questi personaggi aumentava.
Ai poeti-sacerdoti che leggono
nel grande libro della natura terribile e tempestosa si associano conduttori di
popoli, filosofi, matematici, apostoli, profeti. Ed è una legione che s'ingrossa
e si agita. Dopo aver dato un volto al passato essa ha ancora energia
sufficiente per sconvolgere l' avvenire. Il "magisme", come luce dello
spirito, non è una forza isolata e non si nutre soltanto di poesia, ma, spinta
dal di dentro, riconosce altri focolai d' espressione e l' esistenza d'
insondabili abissi.
Nella sua grandiloquenza Hugo ha
bisogno di testimoni e di attori, di aiutanti e di spettatori che l'assistano.
E tutti insieme stabiliscono le discordanze della sua natura di visionario, in
un paesaggio sconfinato che vibra ai confini dell' ispirazione. E' ciò che
accade in alcuni suoi misteriosi versi virgiliani: "Quand les cicognes du Caystre / S' envolent au souffle des soirs; /
Quand la lune apparat sinistre / Derrière les grands dimes noirs...".
Quegli esseri, "altèrès d'infini",
prendono allora la solenne fissità dei fantasmi. Ogni grande spirito - disse
una volta - compie nella vita due opere: da vivo e da fantasma. Mentre l'uomo
s'accinge a compiere ciò che deve fare, il fantasma pensoso che è in lui, la
notte, durante il silenzio, si sveglia nell' uomo vivo. Non è difficile pensare
che quei validi intercessori, bagnati di un' ombra eterna, fosse l' anima di
Eschilo o quella di Gesù, messaggeri della notte, si accompagnassero agli
spiriti dei morti. L' intercessore diventava il suo doppio, e in questa
comunione con i defunti, nella sua solitudine di proscritto, dinanzi alla immensità
della notte oceanica, non meraviglia che egli fosse come ossessionato dal mondo
degli spiriti. Il poeta notturno Scavando negli aspetti più tenebrosi della sua
poesia, uno studioso ha proposto un buon numero di analogie con i miti dell'
Oriente gnostico. Anche Hugo fu un "voyant" - nel senso rimbaudiano
del termine -: uno che, poeta eminentemente visivo, aveva provato la tentazione
d' intravedere l' invisibile, di esprimere l' inesprimibile. Quel
"doppio" mostruoso, sotterraneo, è stato scritto, egli non lo
scopriva senza una "horreur sacrèe" e lo si ritrova sotto aspetti
multipli, spaventosamente contratti, dalla figura di Quasimodo al sole nero da
dove s' irraggia la notte. Voltaire non vedeva il mistero in nulla. Hugo,
scrisse Baudelaire con assoluta ammirazione, vedeva il mistero dappertutto,
anche in quelle manifestazioni della vita psichica che sembravano le più normali.
Nell'Homme qui rit congetturava sulla
dispersione d'esistenze misteriose che si amalgamano con la nostra vita "par ce bord de la mort" che è il
sonno. E siamo d'accordo con chi riconosce in lui quasi due personalità
distinte. Da una parte lo scrittore delle Cose viste, dove l'avvenimento (come
nelle pagine sulla morte di Balzac) veniva registrato con la più grande
circospezione, e dall' altra lo scrittore impegnato nella costruzione di
tenebrosi personaggi: Quasimodo, Valjean, Gilliat, Gwynplaine. Da una parte
l'oratore politico che all'Assemblea Nazionale pronunciava discorsi ammirevoli
sulla libertà d'insegnamento, sulla deportazione, sull'Affaire de Rome, sul suffragio universale, sulla libertà di stampa
e contro la pena di morte; e dall'altra, com'è stato ben definito, un poeta
apocalittico, fratello di un alienato, padre di una demente, un vecchio
rampollo dei ribelli della Vandea, degli ossuti marinai bretoni, dei pescatori
abituati alle tempeste, e che sondavano l'Oceano con "la fixitè calme des yeux". Già Gautier, nel palazzo di Angelo,
tiranno di Padova, riconobbe qualcosa che gli ricordava il romanzo nero di Ann
Radcliffe o di Maturin. Ma penso che quel terrore architettonico fosse più
vicino alle fantasie del Piranesi o al Palazzo degli Spiriti dipinto da
Roderick Usher di Poe, con i suoi sotterranei immensamente lunghi, dai muri
bassi e bianchi, senza alcun ornamento, al di sotto della superficie terrestre,
senza luce eppure con un' effusione di raggi intensi che dava a tutto uno
splendore fantastico incomprensibile. E quale spettacolo più vittorhughiano
della caduta della casa Usher? Opere in prosa e opere in versi si amalgamavano
per rappresentare gli stessi sogni, sempre fissandosi su quella macchia nera
ch'egli esaltò negli inchiostri dei suoi straordinari disegni. E da un punto
nero che il poeta vede sulla sua testa prende l'avvio il poema iniziatico Dieu, che rinunciò a pubblicare, e che
si conclude con l'annientamento dell'io e la sua reintegrazione in Dio. E
lasciando da parte un altro poema incompiuto e anch'esso mai pubblicato, La fin de Satan, in cui canta la
sconfitta del Male e la redenzione dell'umanità, non si può non accennare alla
lunga lirica Ce que dit la Bouche d'Ombre,
in cui parlando con lo Spettro presso il dolmen che domina Rozel, esamina i
problemi della natura dell' anima, e l' origine del male, e la differenza
attuale tra l' uomo e il resto delle creature, e la sorte dell' uomo e del
mondo dopo la fine: l' abbozzo di una vera cosmogonia.
E se non fosse mai esistito
Se, per finire, fingendo di
cedere ai suoi detrattori, immaginiamo di spazzare dalla storia questo cadavere
e facciamo scomparire d' incanto la massa dei libri che scrisse, soltanto
allora potremmo riconoscere, da questo vuoto, da questa assenza, il posto ch'egli
ha occupato nelle lettere francesi. Ci chiederemo allora che cosa sarebbe
avvenuto di una certa Francia se il "bonhomme" Hugo, come lo chiamò
Stendhal, non avesse scatenato le sue battaglie.
Il secolo scorre (almeno fino al
1880) come se Stendhal non esistesse. Hugo lo si ritrova dappertutto, anche
quando è fuori, anche quando vorrebbero farlo tacere. Resta uno dei più
clamorosi responsabili nell' aver trasformato un' idea della Francia, la
Francia cartesiana, insecchita dalle regole, dalla povertà del dizionario, una Francia,
malgrado gli sforzi d'altri poeti (Chènier), senza poesia, e sempre tenace
assertrice della divisione degli stili. Mi domando se tutto ciò che accadde
sarebbe potuto accadere senza le tempeste che quel pazzo che credeva d' essere
Victor Hugo scatenò nel fondo del suo calamaio. Sta di fatto che questo robusto
Papà Natale, come lo chiamava Fargue, ha colmato di doni un po' tutti, anche
coloro che sembravano rifiutarli.
Esiste una Parigi baudelairiana.
E chi può negarlo? Ma quando Baudelaire osserva gli spettacoli parigini delle
acqueforti di Mèryon, è a Hugo che pensa e lo cita, e nel Cygne si permette di rubargli rime e parole. E se la poesia moderna
è la grande vittoriosa storia di un naufragio in attesa del "nuovo",
quanto deve questa vittoria alla grande detestata retorica di Hugo? Per
difendere la libertà egli inaugurò una forma di terrorismo nelle lettere. Fece
sentire che il grande scrittore ha un suo potere anche quando resta solo,
lontano dagli amici, dalla sua terra. Le parole, disse, sono cose. E la satira
nelle sue mani non era più l'elegante esercitazione retorica dedicata, come ai
tempi di Boileau, ai cattivi letterati. Respirava l'indignazione, la collera,
la derisione, l'odio.
"Più di seimila versi di
odio", commentò il casto Lamartine, leggendo gli Chatiments. "E' molto". Ma il suo maestro non era
Lamartine. L'"intercessore" infernale, che non insegnava né la pietà
né la moderazione, era un vecchio poeta del Cinquecento: Agrippa d'Aubignè.
“la Repubblica”, 9 febbraio 1985
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