8.3.14

I mostri (di Giorgio Caproni)

Il testo che segue, una divagazione, fu pubblicato nella rubrica L’inedito da “l’Unità” con la nota che qui lo segue. L’anno era il 2006 (S.L.L.)

C’è una paura d’ordine estetico, e ce n’è un’altra, più sottile ancora, di ordine psicologico e metafisico.
Oggi, a dirla schietta, i Mostri come venivano partoriti dalla mente dell’uomo prima ch’egli avesse inventato la macchina e la psicanalisi, ci spaventerebbero fino a un certo punto, se proprio non vogliamo dire che ci farebbero leggermente sorridere.
Erano bestie, dopotutto. Bestiacce ripugnanti finché vogliamo, ma bestie, appunto perché costruite coi soli laterizi allora a disposizione: è cioè la materia animale, anche se orridamente accozzata in un più o meno sapiente photomontage: una testa presa di qui, un corpaccio di là, molto fumo di zolfo per renderne il fiato e il peto quanto più puzzolenti, alacce ingigantite di pipistrello e via dicendo, secondo una ricetta, insomma mirante in primo luogo a offendere tutti e cinque i sensi insieme, nel concetto radicato che la Bruttezza (l’uomo viveva ancora in un alto concetto di sé e della propria armonia, anche fisica) fosse il primo segno, e sensibile, del Male.
Se un di tali Mostri - Basilisco o Pollo infernale alla Bosch - fosse sopravvissuto alla Grande Disinfestazione operata nel Secolo dei Lumi, siamo certi che le Nazioni oggi farebbero a gara per impossessarsene, e per dettare leggi speciali di protezione, non fosse che per dare uno svago di più all’infanzia, permettendo ai bambini di tutte le età, al Giardino zoologico, di far le boccacce davanti alla grande gabbia.
Ma non si darà il caso. Non perché quei Mostri siano scomparsi davvero, in quanto di essi pullula più che mai l’universo, ma semplicemente perché,
scemata nell’uomo la fantasia e cresciuta la scienza, le gran bestiacce, persa ogni corpulenza fisica, sono rientrate nella loro naturale dimora, e cioè nella tana del nostro spirito, donde con tanta baldanza erano scaturite fuori. E acquistata o riacquistata quella sottigliezza che permette loro di trapassare anche le più solide muraglie, continuano più che mai libere e scorazzanti (non più visibilmente, nelle non illuminate vie del Medioevo, ma invisibilmente nell’animo nostro, dove non puoi certo mettergli il sale sulla coda) a spaventare grandi e piccini, senza che nessun Prode Cavaliere anche se atomicamente armato, possa liberare la Bella, del resto tutt’altro che addormentata nel Bosco.
Bel guadagno ci abbiamo fatto. Bel servizio ci ha reso Kafka, primo o tra i primi a invidiarci l’illusione che il Gran Disinfestante illuministico fosse riuscito sul serio come un San Giorgio (del resto anche lui radiato dall'Albo dei Santi, sì che oggi non c’è più un santo che ci protegga dalle nostre paure), e primo o fra i primi a farci sentir più che mai vive le mostruose creature dei nostri stessi nervi o nel nostro stesso sangue, e più che mai terribili perché sconosciute e perché imprendibili, tanto da aver ormai invaso la medesima vena dei poeti; i quali, dal momento che una scusa devono pur sempre trovarla, per cantare, hanno finito col sostituire la Paura (diciamo pure l’Angoscia) alla Ennui, così come ce monstre délicat, aveva sostituito a sua volta, ieri l’altro, il Dolore.
Ma a proposito di poeti. Vi garantisco io, che ho dovuto leggerne tanti fino a farmi passare la voglia, che ci hanno rimesso anche loro, specie quelli (e sono in troppi) che barando al divino Gioco per abbandonarsi comodamente alla Moda, nemmen per idea temono di smentire, davanti a un bel piattone di fettuccine condite coi più salati e pepati pettegolezzi «in conto di terzi» (e tutti sulle ali d’una fantasia che all’uopo risparmiano nel loro poemi), il dies irae o finimondo che invece dicono (ma ci credi?) di soffrir dentro, in foro (ma forse si tratta d’un buco) consciential.
Torniamo a bomba. È un fatto che parmi les chacals, les panthéres, les lices, les scorpions, les vautours, les serpentes, les monstres grapissants, hurlants, grognants, rampants (tutta robetta ormai
reperibile a quattro soldi fra i ferrivecchi d’un qualsiasi rivendugliolo di Porta Portese), davvero oggi il en est un plus laid, plus méchant, plus immonde, che non è (eh no, bello mio) la Noia, ma giustappunto la Paura, la quale con tutte le sue zitte campane a martello (Hear the loud alarum bells - brazen bells! - What a tale of terror now, their turbulency tells!),la Noia, vi garantisco, la fa scappare a gambe levate, come topo di albergo sorpreso dall’improvviso scatenarsi della suoneria d’allarme.
Quando mai, infatti, la Paura ha permesso a qualcuno di annoiarsi? La Paura, che una volta era l’effetto voluto attraverso i Mostri corpacciuti appositamente inventati, scacciati questi come gingilli puerili grazie all’improvvisa ascensione dei Lumi, oggi è diventata essa stessa il Mostro, prendendo tutte le più svariate forme possibili (biologiche, psicologiche, politiche, pseudo religiose ecc.), e riuscendo così a dare l’illusione d’un intero popolo di mostri, mentre in realtà ce n’è uno solo, il quale fu quello stesso che all’epoca della Caverna, e dalla Caverna, figliò e liberò qualche milioncino d’anni fa l’orribile Mandria.
S’è fatto del progresso, non se ne dubita. Siamo tornati alle Origini, come no. Ma con questo? Dovremmo proprio per questo spellarci le mani in un bell’applauso, e accender la Tv ch’è fatta apposta per non pensarci troppo?
Io, per mio conto, a chi avesse tanto tanto un appartamentino più grande del mio, e una stanzuccia segreta dove gli fosse possibile farlo, consiglierei piuttosto d’andarcisi a rinchiudere a chiave, e lì di mettersi seriamente a meditare, sicuro che il buon Collodi non mancherebbe di farglici trovare il suo bravo Grillo. E sicuro anche che una brava martellata, al bravo Grillo...
Ma, via. C’è proprio bisogno di continuare?
C’est que notre âme, helas, n’est pas assez hardie...

Nota
Giorgio Caproni nacque nel 1912 a Livorno, ma a dieci anni si trasferì con la famiglia a Genova dove fece i suoi studi. Successivamente si iscrisse al Magistero di Torino, dove frequentò le lezioni del filosofo antifascista Alfredo Poggi, ma dovette però interrompere. Si dedicò agli studi di violino, che furono fondamentali per la sua educazione e per la musicalità dei suoi versi. Nel 1935 cominciò la sua attività di insegnante in Val Trebbia, poi in provincia di Pavia a quindi a Roma, dove si trasferí nel 1938. Nel 1939 fu richiamato alle armi e dovette tornare a Genova per combattere sul fronte occidentale contro la Francia. L’8 Settembre lo trovò in Val Trebbia, dove rimase fino alla fine della guerra, affiancandosi ai partigiani. Si stabilí quindi definitivamente a Roma insieme alla moglie Rina ed ai figli. Nonostante l’intensa attività di scrittore, poeta e giornalista continuò a fare il maestro elementare. Dal 1951 iniziò un’intensa attività di traduttore. Morí nel 1990.
Lo conosciamo soprattutto per i suoi bellissimi versi, ma Giorgio Caproni ha scritto dal 1933 fino alla morte numerosi racconti, saggi, articoli sparsi su varie testate come “La Giustizia”, “Avanti!”, “Mondo operaio, “l’Unità”, che ospitò molti suoi scritti negli anni Ottanta. La maggior parte dei saggi e dei racconti di Caproni sono stati pubblicati in La scatola nera (Garzanti, 1996), Aeroporto delle rondini (Manni, 2000), La valigia delle Indie (a cura di Adele Dei, Edizioni Via del Vento, 1998), mai nessuno però ha pensato di raccogliere le rubriche che teneva periodicamente su “La fiera letteraria”, un settimanale per il quale Caproni scrisse dal ’58 al ’61, quando litigò con il direttore per motivi politici.

La rubrica si chiamava Il taccuino dello svagato e il testo che pubblichiamo in questa pagina, intitolato I mostri, uscì su “La fiera letteraria il 26 ottobre 1958. Tre anni dopo Caproni stesso lo ripropose sulle pagine de “La Giustizia”, il 14 novembre, ma non fui mai inserito in alcuna edizione dedicata al poeta livornese, romano di adozione. (Francesca De Sanctis)

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