Il testo che segue, una
divagazione, fu pubblicato nella rubrica L’inedito
da “l’Unità” con la nota che qui lo segue. L’anno era il 2006 (S.L.L.)
C’è una paura d’ordine estetico, e
ce n’è un’altra, più sottile ancora, di ordine psicologico e metafisico.
Oggi, a dirla schietta, i Mostri
come venivano partoriti dalla mente dell’uomo prima ch’egli avesse inventato la
macchina e la psicanalisi, ci spaventerebbero fino a un certo punto, se proprio
non vogliamo dire che ci farebbero leggermente sorridere.
Erano bestie, dopotutto.
Bestiacce ripugnanti finché vogliamo, ma bestie, appunto perché costruite coi
soli laterizi allora a disposizione: è cioè la materia animale, anche se
orridamente accozzata in un più o meno sapiente photomontage: una testa presa di qui, un corpaccio di là, molto
fumo di zolfo per renderne il fiato e il peto quanto più puzzolenti, alacce
ingigantite di pipistrello e via dicendo, secondo una ricetta, insomma mirante
in primo luogo a offendere tutti e cinque i sensi insieme, nel concetto radicato
che la Bruttezza (l’uomo viveva ancora in un alto concetto di sé e della
propria armonia, anche fisica) fosse il primo segno, e sensibile, del Male.
Se un di tali Mostri - Basilisco
o Pollo infernale alla Bosch - fosse sopravvissuto alla Grande Disinfestazione
operata nel Secolo dei Lumi, siamo certi che le Nazioni oggi farebbero a gara
per impossessarsene, e per dettare leggi speciali di protezione, non fosse che
per dare uno svago di più all’infanzia, permettendo ai bambini di tutte le età,
al Giardino zoologico, di far le boccacce davanti alla grande gabbia.
Ma non si darà il caso. Non
perché quei Mostri siano scomparsi davvero, in quanto di essi pullula più che
mai l’universo, ma semplicemente perché,
scemata nell’uomo la fantasia e
cresciuta la scienza, le gran bestiacce, persa ogni corpulenza fisica, sono
rientrate nella loro naturale dimora, e cioè nella tana del nostro spirito,
donde con tanta baldanza erano scaturite fuori. E acquistata o riacquistata
quella sottigliezza che permette loro di trapassare anche le più solide
muraglie, continuano più che mai libere e scorazzanti (non più visibilmente,
nelle non illuminate vie del Medioevo, ma invisibilmente nell’animo nostro,
dove non puoi certo mettergli il sale sulla coda) a spaventare grandi e
piccini, senza che nessun Prode Cavaliere anche se atomicamente armato, possa
liberare la Bella, del resto tutt’altro che addormentata nel Bosco.
Bel guadagno ci abbiamo fatto.
Bel servizio ci ha reso Kafka, primo o tra i primi a invidiarci l’illusione che
il Gran Disinfestante illuministico fosse riuscito sul serio come un San
Giorgio (del resto anche lui radiato dall'Albo dei Santi, sì che oggi non c’è
più un santo che ci protegga dalle nostre paure), e primo o fra i primi a farci
sentir più che mai vive le mostruose creature dei nostri stessi nervi o nel nostro
stesso sangue, e più che mai terribili perché sconosciute e perché imprendibili,
tanto da aver ormai invaso la medesima vena dei poeti; i quali, dal momento che
una scusa devono pur sempre trovarla, per cantare, hanno finito col sostituire la
Paura (diciamo pure l’Angoscia) alla Ennui,
così come ce monstre délicat, aveva sostituito
a sua volta, ieri l’altro, il Dolore.
Ma a proposito di poeti. Vi
garantisco io, che ho dovuto leggerne tanti fino a farmi passare la voglia, che
ci hanno rimesso anche loro, specie quelli (e sono in troppi) che barando al
divino Gioco per abbandonarsi comodamente alla Moda, nemmen per idea temono di
smentire, davanti a un bel piattone di fettuccine condite coi più salati e
pepati pettegolezzi «in conto di terzi» (e tutti sulle ali d’una fantasia che
all’uopo risparmiano nel loro poemi), il dies
irae o finimondo che invece dicono (ma ci credi?) di soffrir dentro, in
foro (ma forse si tratta d’un buco) consciential.
Torniamo a bomba. È un fatto che parmi les chacals, les panthéres, les lices, les scorpions, les
vautours, les serpentes, les monstres grapissants, hurlants, grognants, rampants
(tutta robetta ormai
reperibile a quattro soldi fra i
ferrivecchi d’un qualsiasi rivendugliolo di Porta Portese), davvero oggi il en est un plus laid, plus méchant, plus
immonde, che non è (eh no, bello mio) la Noia, ma giustappunto la Paura, la
quale con tutte le sue zitte campane a martello (Hear the loud alarum bells - brazen bells! - What a tale of terror now,
their turbulency tells!),la Noia, vi garantisco, la fa scappare a gambe
levate, come topo di albergo sorpreso dall’improvviso scatenarsi della suoneria
d’allarme.
Quando mai, infatti, la Paura ha
permesso a qualcuno di annoiarsi? La Paura, che una volta era l’effetto voluto
attraverso i Mostri corpacciuti appositamente inventati, scacciati questi come
gingilli puerili grazie all’improvvisa ascensione dei Lumi, oggi è diventata
essa stessa il Mostro, prendendo tutte le più svariate forme possibili
(biologiche, psicologiche, politiche, pseudo religiose ecc.), e riuscendo così
a dare l’illusione d’un intero popolo di mostri, mentre in realtà ce n’è uno
solo, il quale fu quello stesso che all’epoca della Caverna, e dalla Caverna,
figliò e liberò qualche milioncino d’anni fa l’orribile Mandria.
S’è fatto del progresso, non se
ne dubita. Siamo tornati alle Origini, come no. Ma con questo? Dovremmo proprio
per questo spellarci le mani in un bell’applauso, e accender la Tv ch’è fatta
apposta per non pensarci troppo?
Io, per mio conto, a chi avesse
tanto tanto un appartamentino più grande del mio, e una stanzuccia segreta dove
gli fosse possibile farlo, consiglierei piuttosto d’andarcisi a rinchiudere a
chiave, e lì di mettersi seriamente a meditare, sicuro che il buon Collodi non
mancherebbe di farglici trovare il suo bravo Grillo. E sicuro anche che una
brava martellata, al bravo Grillo...
Ma, via. C’è proprio bisogno di
continuare?
C’est que notre âme,
helas, n’est pas assez hardie...
Nota
Giorgio Caproni nacque nel 1912 a
Livorno, ma a dieci anni si trasferì con la famiglia a Genova dove fece i suoi studi.
Successivamente si iscrisse al Magistero di Torino, dove frequentò le lezioni
del filosofo antifascista Alfredo Poggi, ma dovette però interrompere. Si
dedicò agli studi di violino, che furono fondamentali per la sua educazione e
per la musicalità dei suoi versi. Nel 1935 cominciò la sua attività di
insegnante in Val Trebbia, poi in provincia di Pavia a quindi a Roma, dove si trasferí
nel 1938. Nel 1939 fu richiamato alle armi e dovette tornare a Genova per
combattere sul fronte occidentale contro la Francia. L’8 Settembre lo trovò in
Val Trebbia, dove rimase fino alla fine della guerra, affiancandosi ai
partigiani. Si stabilí quindi definitivamente a Roma insieme alla moglie Rina ed
ai figli. Nonostante l’intensa attività di scrittore, poeta e giornalista
continuò a fare il maestro elementare. Dal 1951 iniziò un’intensa attività di
traduttore. Morí nel 1990.
Lo conosciamo soprattutto per i
suoi bellissimi versi, ma Giorgio Caproni ha scritto dal 1933 fino alla morte
numerosi racconti, saggi, articoli sparsi su varie testate come “La Giustizia”,
“Avanti!”, “Mondo operaio, “l’Unità”, che ospitò molti suoi scritti negli anni
Ottanta. La maggior parte dei saggi e dei racconti di Caproni sono stati
pubblicati in La scatola nera
(Garzanti, 1996), Aeroporto delle rondini
(Manni, 2000), La valigia delle Indie (a
cura di Adele Dei, Edizioni Via del Vento, 1998), mai nessuno però ha pensato
di raccogliere le rubriche che teneva periodicamente su “La fiera letteraria”,
un settimanale per il quale Caproni scrisse dal ’58 al ’61, quando litigò con
il direttore per motivi politici.
La rubrica si chiamava Il taccuino dello svagato e il testo che
pubblichiamo in questa pagina, intitolato I
mostri, uscì su “La fiera letteraria il 26 ottobre 1958. Tre anni dopo
Caproni stesso lo ripropose sulle pagine de “La Giustizia”, il 14 novembre, ma
non fui mai inserito in alcuna edizione dedicata al poeta livornese, romano di
adozione. (Francesca De Sanctis)
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