15.3.14

Diderot, Seneca e l’assolutismo illuminato (Massimo Rostagno)

L'immagine di Diderot su un francobollo repubblicano
Era il 1782 quando Diderot dava alle stampe l'Essai sur les règnes de Claude et Nèron, et sur les moeurs et les ècrits de Sénèque, pour servir d'introduction à la lecture de ce philosophe. Dietro l'interminabile titolo si celava l'ultima fatica — rielaborazione di un'opera sullo stesso tema, apparsa tre anni prima — del percorso culturale di un autore che aveva spaziato enormemente nei più disparati rami del sapere del suo tempo. Insofferente alle rigide distinzioni disciplinari, Diderot aveva trascorso i lunghi anni — oltre quaranta — della sua frenetica attività a scavalcare disinvoltamente gli steccati che separavano i diversi territori culturali. Dalla filosofia naturale al teatro, dalla politica alla musica, dalle arti figurative alla storia: trasportato dalla sua curiosità di intellettuale onnivoro, Diderot aveva pagato consapevolmente le conseguenze a un'epoca che sempre meno tollerava l'interdisciplinarità e sempre più invece identificava la vera conoscenza con l'assiduo approfondimento di un unico settore.
Consapevole di questo anacronismo, Diderot — che aveva comunque legato la sua vita a un'impresa, l'Enciclopedia, basata su un'idea del sapere in certo modo sintetica anche se illuministicamente rispettosa delle singole specificità disciplinari — così scriveva di sé a pochi mesi dalla morte: «... invero so abbastanza cose, ma non c'è quasi nessuno che nel suo campo non ne sappia ben più di me. Questa mediocrità in ogni campo è il frutto di una sconfinata curiosità unita a sostanze così modeste, che mai ho avuto la possibilità di dedicarmi interamente a una sola branca dell'umano sapere».
Alla estrema ecletticità della sua ricerca corrispondeva lo scintillante stile della scrittura, che risentiva assai più dell'effervescenza delle conversazioni salottiere che del freddo rigore delle costruzioni concettuali.
La dichiarata intenzione dell'autore è di esaminare se Seneca fu responsabile, come afferma una lunga tradizione anti-senechiana, degli orrendi misfatti compiuti alla corte imperiale ai tempi di Claudio e Nerone : una materia congeniale a Diderot che può al tempo stesso intingere la penna nei fiumi di torbido sangue fatto scorrere da Agrippina e Nerone, ergersi a strenuo difensore di Seneca e attaccare i moralisti che lo hanno denigrato. Eppure la apparente affinità tra autore e materiale da trattare non ha impedito a Karl Rosenkranz, biografo diderotiano, di esprimere sull'ultima opera del settantenne filosofo un giudizio assai duro definendolo «prodotto di debolezza senile».
Nella prima parte Diderot ricostruisce le vicende storiche parallelamente alle quali si è svolta la vita di Seneca; nella seconda esamina le opere dello stoico commentandole dettagliatamente. In entrambe domina quello stile colloquiale che, se lo rende gran raccontatore di vicende e personaggi, rischia di condannarlo a una retorica superficialità nell'esame dei concetti. Al di là, comunque, di ciò che Diderot scrive dello scorcio di storia romana esaminata, il vero motivo di interesse dell'opera sta nel modo in cui, attraverso la storia imperiale, affiora il suo rapporto con il proprio secolo. I numerosi riferimenti ai contemporanei rendono evidente che Diderot, attraverso il pretesto imperiale, intendeva parlare anche del suo tempo.
È in particolare sulla figura di Seneca che si addensa l'interesse di Diderot che vede nel filosofo romano l'emblema di un'esperienza simile a quella dei philosophes settecenteschi: Seneca era stato alla corte di Claudio e Nerone, così come Voltaire era stato a quella di Federico II e lo stesso Diderot a quella di Caterina II. La figura di Seneca è attraversata da una problematica che affratella  il periodo giulio-claudio al secolo dei Lumi.
È quindi fondamentalmente l'esperienza del dispotismo illuminato a costituire il vero motivo conduttore del saggio diderotiano. Quale legittimità ha il ruolo dell'intellettuale che agisce in prossimità dei poteri costituiti nella speranza di poterli guidare verso il meglio? Diderot sembra non ave re dubbi. A proposito del rapporto tra l'intellettuale e lo stato scrive: «Forse che ci si rende utile solo presentando candidati, beneficando i popoli, difendendo gli imputati, ricompensando chi è operoso, pronunciandosi per la pace o per la guerra? No di certo; ma personalmente non metterei sullo stesso piano chi medita e chi agisce. Senza dubbio la vita appartata ha maggiori dolcezze, ma la vita attiva è più utile e gloriosa».
E la difesa di Seneca, che non si è ritirato dalla corte e dalla vita pubblica in presenza delle nefandezze che lo circondavano mettendo in pericolo la propria immagine presso i posteri per continuare a testimoniare a stretto contatto con il male la necessità di perseguire il bene; ma ancor più è la difesa dei philosophes settecenteschi logorati dalla estenuante contiguità tra le limpide ragioni delle idee e dei principi e le corrotte necessità della ragion di stato. L'obbligo del filosofo è per Diderot quello di «sporcarsi le mani» affondando e compromettendosi con la realtà politica e con i poteri che essa si è data. E il rapporto tra l'intellettuale e lo stato è inevitabilmente organico: «se è lui (l'intellettuale ) che viene meno allo stato è un cattivo cittadino; se è lo stato che viene meno a lui, lo stato dà prova di insensatezza».
Emerge una visione della cultura e dei suoi protagonisti imprigionata nei limiti angusti del dispotismo illuminato e incapace di pensare alla radicalità di una figura di intellettuale totalmente contrapposto al presente e legato al futuro utopico da un passaggio rivoluzionario. È una visione al tramonto, come la vita di Diderot che morirà nel 1784.

Postilla

L’articolo apparve su “latalpalibri” del “manifesto” come recensione a Denis Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca, Sellerio, Palermo, 1987. Dal mio ritaglio non si può ricavare la data ma l’anno dovrebbe essere il 1987, lo stesso della pubblicazione del volume diderotiano. (S.L.L.)

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