Il saggio, che a mio avviso
merita lettori non solo specialisti, è piuttosto lungo per un blog, ma ho
preferito non tagliarlo per non saltare passaggi importanti di ragionamento. La
mia fonte è il sito “La letteratura e noi” diretto da Romano Luperini, che lo ha ripreso da un suo
recente volume di critica, Tramonto e
resistenza della critica, Quodlibet, Macerata 2013. (S.L.L.)
Dalla letteratura-identità
nazionale al “popolo che manca”
A lungo, in Italia, per quasi due
secoli, insegnare letteratura ha voluto dire raccontare una grande narrazione
fondata sul nesso letteratura-identità nazionale-storia. Ogni popolo d’altronde
trova la propria identità in una sorta di racconto mitico. In Italia, era la
letteratura, assai più dell’arte o della musica o di una leggenda delle
origini, a garantire un sogno di identità e di unità nazionale. Questa
situazione dava senso tanto alla letteratura quanto a chi la insegnava che si
trovava investito di un ruolo particolare e per qualche verso persino
privilegiato. Il professore di italiano – e soprattutto quello dei licei –
formava una classe dirigente nella cui cultura l’educazione letteraria e il
momento umanistico costituivano ingredienti fondamentali. Da De Sanctis a Sapegno,
Petronio, Muscetta questa visione della storia assumeva la forma di uno
storicismo progressivo e lineare, fondato sulla fede nel progresso e sul
disegno di una evoluzione della civiltà nazionale. I critici letterari e gli
insegnanti di letteratura erano interpreti e mediatori del nesso fra identità
nazionale, letteratura e racconto storiografico dell’una e dell’altra. La
letteratura stessa aveva contribuito in modo decisivo alla elaborazione di
questo racconto mitico e identitario: Dante, Petrarca, Ariosto, Machiavelli,
Foscolo, Manzoni, il giovane Leopardi e poi Carducci, Pascoli e d’Annunzio ne
hanno ordito in modi diversi la trama.
Qualcosa di importante comincia a
rompersi e a cambiare già all’inizio del Novecento, con la stagione del
modernismo. I capolavori di Svevo o di Montale ben poco o nulla hanno a che
fare con l’identità nazionale, e le opere più significative di Pirandello, che
pure ha scritto anche I vecchi e i
giovani, ne restano sostanzialmente estranee. Una ripresa di tematiche
civili e nazionali si ha solo negli anni del neorealismo e di «Officina», ma
dura meno di un paio di decenni e si conclude con la neoavanguardia negli anni
del miracolo economico. Qualche anno fa uno dei più importanti poeti
contemporanei, Gabriele Frasca, ha parlato della difficoltà degli scrittori
italiani ad assumere uno «stile etico» dato che questo sarebbe rivolto a un
popolo che manca. La situazione è paradossale per un paese di antica civiltà
come il nostro: oggi siamo senza racconto, senza mito e senza identità.
Se si aggiunge che la letteratura
e la cultura umanistica hanno perduto il loro posto nella formazione dei ceti
dirigenti, che i giovani nella società digitalizzata avvertono una sempre
maggiore estraneità al testo letterario e che la scuola non è più l’unica
agenzia preposta alla loro formazione e appare progressivamente marginalizzata
rispetto ad altre più potenti agenzie (per esempio, rispetto al mondo delle
comunicazioni e delle informazioni), si può capire perché gli insegnanti di
letteratura vivano una situazione di crescente disagio e di crescente
difficoltà a individuare le ragioni stesse del proprio lavoro.
Crisi dell'insegnamento
letterario e della condizione intellettuale
La crisi della critica e
dell’insegnamento della letteratura s’inserisce poi nella crisi della stessa
condizione intellettuale. Per due secoli gli intellettuali hanno fatto sentire
la loro voce legittimati – ha scritto Pierre Bourdieu - da «un’autorità
specifica fondata sulla appartenenza al mondo relativamente autonomo dell’arte,
della letteratura e della scienza, e su tutti i valori associati a tale
autonomia – disinteresse, competenza ecc.» (P. Bourdieu, Per un corporativismo dell’universale, in Le regole dell’arte: genesi e struttura del campo letterario, Il
Saggiatore, Milano 2005, pp. 425-437). Una condizione di autonomia corporativa
garantiva loro un universalismo di valori. L’indipendenza culturale e morale
del loro specifico campo diventava ragione di autorità e di prestigio in ogni
campo. Gli intellettuali funzionavano come indispensabili mediatori della
formazione del senso. Era il grande corporativismo dell’universale, come lo ha
chiamato ancora Bourdieu. Un paradosso, se si vuole, grazie al quale gli
intellettuali potevano parlare a nome di un corpo separato e, insieme, della
totalità dei rapporti umani. Fichte, all’inizio dell’Ottocento, l’aveva
chiamato la «missione del dotto», dando dignità ideologica a comportamenti e
spunti culturali che in realtà si erano andati affermando già dall’età
dell’illuminismo.
Si è sviluppata così una
tradizione che da Zola dell’affaire
Dreyfus, attraverso Freud e Einstein, Russel e Sartre, ha avuto corso anche
in Italia sino agli anni Settanta del Novecento e, se si vuole, sino a un altro
affaire, L’affaire Moro di Leonardo Sciascia. Che si trattasse di una
tradizione ormai in via di estinzione lo aveva intuito uno di questi ultimi
grandi intellettuali complessivi, Franco Fortini. In un saggio del 1971
scriveva infatti che «il processo di distruzione del corpo separato degli
intellettuali è così avanzato che il termine stesso di “intellettuale” è quasi
inutilizzabile» (F. Fortini, Intellettuali,
ruolo, funzione, in Questioni di frontiera. Scritti di politica e di
letteratura 1965-1977, Einaudi, Torino 1977, pp. 68-73). Sempre più, infatti,
l’intellettuale è sostituito «dallo specialista», dal tecnico o dall’esperto
che pone il proprio sapere al servizio di una istituzione – pubblica o privata,
non importa – senza più capacità o possibilità di vedere al di là di questo
orizzonte settoriale. «Ogni attività intellettuale», scriveva allora Fortini,
viene ridotta «alla sua gretta specializzazione e tecnicità». In altri termini:
la forbice, e la contraddizione, fra funzione e ruolo, presente in ogni lavoro
intellettuale, tende a contrarsi, risolvendosi a vantaggio del secondo. Se la
funzione si definisce in un ambito antropologico e storico e coincide con
l’obbedienza alla logica della ricerca, il ruolo si definisce invece in un
ambito immediatamente sociale e coincide con la mansione assegnata dalle
istituzioni, siano esse gli apparati scientifici ed educativi di uno stato, il
sistema delle pubbliche comunicazioni, un ente o una azienda privata, o il
governo stesso di una nazione.
Inoltre, in un mondo come quello
attuale dell’Occidente, in cui il settore-guida in campo industriale è quello
che produce merci immateriali, vale a dire informazioni, pubblicità, spettacolo
e insomma linguaggio, potere e sapere s’incardinano sempre più nel sistema
delle comunicazioni. Il potere del linguaggio e il linguaggio del potere
tendono a unificarsi. Il sapere dei singoli intellettuali e anche degli
intellettuali come ceto o corporazione viene selezionato e filtrato da apparati
tecnologici, da enormi complessi produttivi e anche da istituzioni pubbliche
(quella educativa, per esempio), peraltro sempre più deboli e sempre più
dipendenti dal mondo della produzione. Potremmo dire che il sapere-potere degli
intellettuali si liquefà all’interno di questi apparati, si frantuma in essi
che ne decidono o largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti
in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di
comando integrati, nazionali e multinazionali insieme, gli intellettuali non
hanno reale possibilità di controllo su di essi, né svolgono più la loro
tradizionale attività di mediazione. Si riducono a semplici lavoratori della
conoscenza, costretti a fare i conti con instabilità, mobilità, flessibilità e
dunque a sviluppare una elevata capacità di conversione. Perduta qualsiasi
possibilità di autonomia, non hanno neppure più nulla in comune con la
tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Antonio Gramsci.
Quando Edward Said scrive che il
rischio della nuova tipologia di intellettuale è di scomparire «in una miriade
di particolari» e di diventare una «nuova figura professionale», un ingranaggio
tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere, coglie esattamente il tramonto del
grande corporativismo intellettuale. Tuttavia Said non si limita a questa
constatazione negativa e si spinge a indicare ai nuovi intellettuali un compito
e una funzione molto diversi da quelli proposti da Fichte e rilanciati da
Bourdieu. Egli delinea una figura di intellettuale non molto lontana da quella
di quei nuovi lavoratori della conoscenza che la attuale sociologia va
delineando. Il nuovo intellettuale, inserito nei nuovi complessi produttivi in
posizione subordinata o esterno a essi, si configura come un outsider, un
dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo gli
appare animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione
pubblica, secondo Said, è «di trovare la propria ragione d’essere nel fatto di
rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o
censurate» (E. Said, Dire la verità. Gli
intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 9-27). Si pensi,
in Italia, alla nuova figura di intellettuale che emerge dalle pagine di
Gomorra, al giovane precario che in motoscooter si reca sui luoghi del crimine,
così diverso dall’avanguardia in vagone-letto del Gruppo 63, ma così lontano
anche dai maestri Pasolini e Sciascia, che esercitavano pur sempre un ruolo
ideologico di guide della coscienze. Può essere ripreso allora persino il
modello comportamentale di Sartre, tanto caro a Said, ma attraverso un nuovo
dislocamento che non presuppone più la funzione ideologica della mediazione e
del controllo da una posizione di centralità, ma che fa della marginalità
dell’intellettuale una figura rappresentativa di tutte le altre marginalità
presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete, a suo
tempo teorizzato da Bauman, può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della
conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini,
della traduzione, del dialogo, della interdisciplinarità, della conoscenza
critica della differenza.
Che cosa resta da fare a noi
insegnanti di letteratura?
In questa nuova situazione che
cosa resta da fare a noi insegnanti di letteratura, addetti a un campo ormai
marginale e inseriti nella categoria burocratica del “personale docente” o,
anzi, delle cosiddette “risorse umane”?
Per tentare di rispondere bisogna
forse ripensare i nostri fondamenti. Come diceva Machiavelli, nei momenti di
crisi, per poter risollevarsi e ricominciare, bisogna ritornare alle origini, e
cioè alle ragioni storiche e antropologiche della nostra funzione, e trarre da
lì le ragioni della nostra esistenza e di una nuova identità da conquistare.
Venuta meno la possibilità di
intraprendere una grande narrazione centrata sulla storia letteraria letta come
fulcro della identità nazionale, tramontata la tradizione storicistica che
fondava tale possibilità, per un certo periodo si è pensato che l’insegnante
dovesse chiudersi nel proprio ruolo di esperto di retorica e di analisi del
testo. L’insegnamento della letteratura si è così ridotto a tecnica del
commento fondata sul concetto della autoreferenzialità del testo. Si leggevano
i testi non per interpretarli, ma per descriverli. Anzi l’interpretazione stessa
veniva rifiutata perché sospetta di ideologia. E così i testi, chiusi in gabbie
di schemi e di schemini, diventavano pretesti per esercizi formalistici che
hanno finito per allontanare definitivamente i giovani dal gusto della lettura.
D’altronde, fra persone normali chi è che legge un testo per descriverlo e non
per cercarne il senso?
Negli anni successivi,
soprattutto nelle università americane, si è passati a decostruire il testo,
vedendolo essenzialmente come documento di una grammatica del potere oppure
leggendolo nichilisticamente come indecidibile allegoria della fuga del senso.
Il testo è diventato così un pretesto. La riduzione del testo a documento sta
rischiando di vanificare l’insegnamento stesso della letteratura annullandone
la specificità. La complessità di senso che è propria della letterarietà va
perduta, e non si capisce più perché si sta leggendo un testo per l’appunto
letterario. E’ un pericolo che in Italia passa attraverso un uso “selvaggio”
dei cosiddetti “percorsi tematici” quando si faccia ricorso al tema per
illustrare esclusivamente un problema storico e antropologico dimenticando il
modo particolare con cui esso viene formalizzato.
Tornando alle origini, troviamo
che la critica e l’insegnamento della letteratura sono eminentemente atti
interpretativi. Come è noto, la parola stessa “lezione” significa lettura, in
questo caso lettura pubblica di un testo. La critica e l’insegnamento della
letteratura sono momenti di una attività triangolare: chi insegna ha da una
parte il testo, dall’altra degli interlocutori a cui spiegare quel testo e
svolgerne le implicazioni di senso. Ciò comporta due operazioni che andranno
collegate fra loro: il commento, volto a rendere intelligibile il testo e a
renderlo “forte” di fronte al lettore, e l’interpretazione, volta a dare
significato e valore al testo e a rendere “forte” il lettore di fronte a esso.
Attraverso il commento il lettore impara a rispettare l’autonomia del testo, ad
ascoltarlo e a capirlo nella sua diversità – di qui il rilievo etico-pedagogico
di tale operazione -; attraverso l’interpretazione impara ad assumersi la
propria responsabilità ermeneutica e a confrontarla con quella della intera
comunità interpretante di cui fa parte. Da un punto di vista didattico, nel
momento del commento al centro della classe sta il testo; nel momento della
interpretazione è la classe stessa che diventa centro. Nel commento,
protagonista è il testo; nella interpretazione, protagonista è la comunità
ermeneutica formata dalla classe che discute sulle domande di senso da porre al
testo.
Naturalmente ogni interpretazione
è parziale, relativa a una determinata epoca, a un determinato gruppo sociale,
a una determinata persona. Inoltre il testo letterario - a differenza per
esempio di un testo di botanica o di biologia – implica una molteplicità anche
contraddittoria di significati. Interpretare abitua il giovane a misurarsi con
questa complessità testuale e con la varietà di significati individuati dagli
altri interpretanti collocati all’intermo e all’esterno della propria comunità,
e anche in tempi diversi dal proprio; gli insegna dunque che i significati sono
infiniti e che ogni interpretazione è destinata a essere superata. Ma gli
insegna anche ad assumere la parzialità e la relatività del proprio punto di
vista e a inserirla all’interno della costruzione sociale di un senso, che
nasce da un incessante conflitto delle interpretazioni e da una non meno
incessante lotta per l’egemonia. Sta qui ovviamente il nesso che unisce il
problema della interpretazione e quello della democrazia. Più in generale, sta
qui anche il problema dell’orizzonte sociale per cui una determinata
interpretazione assume o non assume significato e validità. La classe come
comunità ermeneutica non può non prefigurare infatti una comunità più ampia.
Il significato per noi
Quando si cerca il significato di
un’opera si cerca sempre un significato per noi. Se insegno letteratura, non
cerco nei testi un significato per me. Questo posso farlo se mi dedico a una
lettura privata di un testo. Ma se ne spiego il significato in pubblico e devo
giustificare perché lo ripropongo oggi all’attenzione, rendendolo così
nuovamente attuale, ne devo indicare un significato per noi, tendenzialmente
valido cioè per la comunità a cui mi rivolgo.
E’ una questione, questa, già
posta da Kant per il giudizio di valore. Nella Critica del giudizio Kant scrive
che chi considera le opere da un punto di vista estetico «non giudica solo per
sé, ma per tutti, e parla quindi della bellezza come se fosse una qualità delle
cose. Non chiede il consenso degli altri, lo esige» (I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari
1974, p. 54). In altri termini, per quanto soggettivo e particolare, il
giudizio è nello stesso tempo universale. Ovviamente Kant parla del giudizio di
gusto, del suo carattere disinteressato e della sua indimostrabilità, dovuta
alla aconcettualità del bello. Oggi non possiamo seguirlo su questa strada sia
perché la categoria stessa del bello si è fatta nel frattempo sempre più
problematica e indefinibile, sia perché nel corso dell’Ottocento e del
Novecento il carattere disinteressato del giudizio è stato posto in questione
troppe volte perché possa essere tranquillamente accettato. E tuttavia resta il
fatto che la tendenza all’universalità fa parte organica del giudizio estetico
e, più in generale, dell’atto critico. Anche oggi chi parla e giudica di
letteratura e di arte non lo fa solo per sé ed esige il consenso di tutti.
E’ questo, d’altronde, il
paradosso della critica. La critica conosce la propria relatività e caducità:
sa di essere particolare e parziale, limitata a un tempo e a un orizzonte
sociale; sa, oggi, di essere priva di un pubblico e di un interlocutore
sociale; ma non può rinunciare a questa esigenza di universalità perché è
implicita nello statuto stesso della propria costituzione. Spetta alla critica
e all’insegnamento della letteratura (due attività fra loro assai più collegate
di quanto si pensi) un incessante rapporto interdialogico di traduzione,
trasmissione, trapianto sia orizzontale (al presente, fra lettori e gruppi
diversi) sia verticale (dal passato al presente). Il paradosso d’altronde si
annida sin qui, alle origini stesse del fatto critico. Da un lato traduzione,
trasmissione, trapianto sono infatti operazioni dialogiche che presuppongono un
universale umano comune, dall’altro investono invece interlocutori specifici,
un tempo e uno spazio concreti, storicamente definiti e continuamente da
ridefinire.
Insomma, a partire da Kant, si
pone un nodo di problemi – particolarmente nel rapporto fra particolarità e
universalità – che è assolutamente attuale. Per quale noi cerchiamo il
significato delle opere? Il «tutti» di cui parla Kant, l’universale umano che
egli presuppone, in quale orizzonte si definisce?
Penso che la critica debba
tornare a porsi queste domande, che d’altronde, in modo implicito e talora
anche esplicito, sono state sempre al centro della riflessione teorica sulla
letteratura e della concreta attività dei critici. La particolarità e il noi di
De Sanctis, per esempio, sono diversi da quelli presupposti da Said e a loro
volta quelli di Said sono assai diversi da quelli del suo collega Harold Bloom.
Quando De Sanctis scrive per i suoi studenti la Storia della letteratura
italiana il proprio punto di vista parziale coincide con quello generale di una
comunità nazionale in formazione: il noi di De Sanctis era quello
romantico-risorgimentale di un popolo particolare (o, se si vuole, del suo
gruppo dirigente borghese) che stava diventando nazione. In nome di questa
parzialità De Sanctis conduceva una lotta contro la vecchia cultura
classicistica e contro le tendenze politiche reazionarie che contrastavano in
Italia il processo risorgimentale. Nel medesimo tempo, però, la sua opera
superò agevolmente i confini nazionali e venne riconosciuta come un capolavoro
in Europa perché seppe interpretare un movimento di riscossa e di formazione
dello spirito nazionale che era largamente condiviso dalla cultura europea. De
Sanctis parla a una comunità, intreccia un dialogo e insieme conduce un
conflitto. Nel suo lavoro particolarità e universalità sono insomma
strettamente intrecciate. E analogamente inseparabili sono dialogo e conflitto.
Neppure un secolo dopo, il noi di
Auerbach è già molto diverso. Basta pensare al processo genetico di Mimesis di Auerbach, scritta a Istambul,
dove il grande critico ebreo si era rifugiato durante la guerra per sfuggire al
nazismo. Auerbach descrive i lineamenti della letteratura occidentale nella sua
vocazione alla rappresentazione del reale stando sulla soglia dell’Occidente,
anzi già fuori da esso e in esilio, comunque, dalla sua cultura. Si trovava
cioè in una situazione che, nonostante la privazione di informazioni e la
mancanza di biblioteche specializzate in studi europeistici, e anzi forse
proprio per questo, si prestava particolarmente ad assumere quella prospettiva
di cui Auerbach stesso parla nel saggio Filologia della Weltliteratur: la
prospettiva che muove sì dalla cultura e dalla lingua nazionali, ma che è
capace anche di separarsi da esse e di trascenderle. Anzi, come scrive
Auerbach, ed è affermazione a mio avviso memorabile, «la nostra casa filologica
è la terra, non può più essere la nazione» (E. Auerbach, Filologia della Weltliteratur, in San Francesco Dante Vico ed altri saggi di filologia romanza, De Donato, Bari 1970, p. 191). Per
Auerbach particolare e universale, ormai, non possono essere più quelli di De
Sanctis.
La situazione odierna è assai più
simile a quella in cui si trovava Auerbach durante la seconda guerra mondiale
che a quella di De Sanctis. Quando Auerbach scrive che Mimesis non sarebbe stato scritto in condizioni normali, e aggiunge
«è possibilissimo che il libro debba la sua esistenza proprio alla mancanza di
una grande biblioteca specializzata» (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella
letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1984 [1956], vol. II, p. 343), non
compie solo una affermazione di modestia, ma getta luce su un processo genetico
non privo di interesse. Il filtro di una biblioteca specializzata è anche
quello di una ottica già compromessa. Quanto sta accadendo oggi nel mondo –
terrorismi contrapposti, guerre per il petrolio e per l’acqua, nuova precarietà
della vita quotidiana dell’Occidente, spostamenti di masse umane e invasioni di
popoli spinti dalla fame – richiede un nuovo sguardo planetario anche sul
nostro stesso patrimonio culturale. Dovremmo ricordarci, con il Benjamin di Tesi di filosofia della storia, che «non
c’è mai un documento di cultura senza essere nello stesso tempo documento di
barbarie» (W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», in Angelus novus, Einaudi , Torino 1982
[1962], p. 79 e cfr. anche W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino
1997, p. 31, con traduzione solo lievemente diversa e testo tedesco a fronte).
E forse non è un caso se l’ultimo Said si è ispirato esplicitamente
all’insegnamento auerbachiano, immedesimandosi in questa figura di esule che
scrive dalla soglia dell’Occidente e che ha visto, per così dire, da fuori, in
una situazione di emergenza e di rischio imminente, l’intera nostra tradizione
letteraria e culturale.
D’altronde il noi in questione
non riguarda solo i critici e gli insegnanti di letteratura; riguarda anche il
loro pubblico, a partire da quello che frequenta le nostre scuole e che in
Italia proviene ormai in misura crescente dal Sud e dell’Est del mondo. Si
tratterà di conservare e trasmettere la nostra determinata identità culturale e
nello stesso tempo di metterla in gioco cogliendone la particolarità attraverso
una visione contrappuntistica delle differenze. D’altronde l’atto stesso della
comprensione ermeneutica sembra richiedere una tolleranza che dovrebbe - ha
scritto Adorno - «pensare la condizione migliore [...] come quella in cui si
può esser diversi senza timori» ( Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino
1979, p. 114)
Può esistere un nuovo racconto
della letteratura?
E’ giunto il momento di
concludere tornando alla domanda implicitamente posta all’inizio. Può esistere
un nuovo racconto della letteratura, e dunque un nuovo senso della storia,
dell’etica e dell’impegno civile, in una epoca in un cui le morali
precostituite sono poste in discussione e il popolo-nazione si dissolve in
unità più vaste ma ancora indistinte?
La grande letteratura moderna non
fa che rendere più evidente e radicale qualcosa che era percepibile anche nella
letteratura antica e medievale: e cioè che il discorso letterario è sempre
aperto, in fieri, e si realizza solo attraverso la collaborazione del lettore
che, dandogli senso, ogni volta torna a ridefinire insieme il significato
dell’opera e quello della vita. Le opere, soprattutto ma non solo quelle
moderne, sono sempre costruzioni da completare. Da questo punto di vista
ridurre la critica a specialismo asettico, a descrizione retorica o
tecnico-formale, è non meno esiziale – per la critica ma anche per il senso
della letteratura – che ridurla ad autobiografismo narcisistico o a una mistica
oracolare. Indossare il camice bianco dello scienziato o il manto del
critico-vate e dell’artifex additus
artifici significa rinunciare alla nostra funzione, e cioè alla produzione
sociale di senso attraverso la lettura, la interpretazione e il ri-uso critico
dei testi letterari.
Insomma il nuovo racconto della
letteratura riguarda un significato da costruire, non qualcosa che è stato già
costruito. D’altronde, per secoli, non è stato così anche per l’identità
nazionale? Non è questa la differenza che separa il Petrarca della canzone All’Italia, il Machiavelli della
conclusione del Principe, il Foscolo
dei Sepolcri – tutte opere che
preparano qualcosa che deve ancora realizzarsi – da Carducci, Pascoli e
d’Annunzio che nelle loro poesie civili si sono ormai trasformati in vati
retoricamente volti a esaltare qualcosa che già esisteva?
Voglio dire che oggi fare i
critici letterari e insegnare la letteratura richiede l’idea di una sua nuova
attualità. A sua volta questa ha a che fare con il modo con cui il significato
della letteratura si è andata concretamente sviluppando e precisando a partire
dal modernismo e poi soprattutto negli ultimi decenni. Nel corso del Novecento,
il senso della vita è sempre più quello della nuda vita, senza più pesanti
diaframmi ideologici. Il momento problematico, riflessivo, etico, emotivo, è
balzato in primo piano. La stessa passione politica e civile ha acquistato,
nell’ultimo mezzo secolo, una dimensione nuova, ricca più di domande che di
risposte, e capace di coinvolgere una prospettiva che va al di là della nazione
per riguardare il destino di ogni uomo o anche del genere umano nel suo complesso.
Si pensi alle conclusioni di scrittori eticamente e politicamente impegnati
come Primo Levi di Se questo è un uomo
e La tregua, o il Pavese di La casa in collina, o il Fenoglio che
intitola il suo capolavoro sulla guerra partigiana Una questione privata.
La grande scommessa problematica, etica ed esistenziale della letteratura moderna, la sua ricerca inquieta e inconclusa di senso, la sua apertura, le sue domande e il suo bisogno di risposte definiscono una prospettiva di significato da elaborare insieme; non raccontano un’identità data, ma scommettono su un’identità futura, da costruire con il lettore. Nello stesso tempo questa letteratura richiede una passione civile di tipo nuovo, volta non già a narrare un mito del passato, ma a delineare un nuovo possibile racconto, non più nazionale, ma planetario. La marginalità del critico letterario, rappresentando il destino di tutti i marginali, può allora diventare una forza e, insieme, una ragione di nuova identità.
La grande scommessa problematica, etica ed esistenziale della letteratura moderna, la sua ricerca inquieta e inconclusa di senso, la sua apertura, le sue domande e il suo bisogno di risposte definiscono una prospettiva di significato da elaborare insieme; non raccontano un’identità data, ma scommettono su un’identità futura, da costruire con il lettore. Nello stesso tempo questa letteratura richiede una passione civile di tipo nuovo, volta non già a narrare un mito del passato, ma a delineare un nuovo possibile racconto, non più nazionale, ma planetario. La marginalità del critico letterario, rappresentando il destino di tutti i marginali, può allora diventare una forza e, insieme, una ragione di nuova identità.
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