Nella cultura italiana è
possibile riconoscere una linea di pensiero che ha tratto dalle scienze della
natura le conseguenze più generali riguardo all’uomo (e alla donna) e al
significato della sua esistenza, elaborando una «filosofia dolorosa ma vera»; una
linea di pensiero che può essere definita leopardiana. Leopardi infatti è stato
l’intellettuale italiano che più di ogni altro ha riflettuto sulla nuova
situazione culturale prodottasi nel mondo moderno con l’emergere delle nuove
scienze e del modo nuovo di farle e pensarle e che, in Italia, più si è
interrogato delle scienze e quello della letteratura o della poesia. A questa
linea, importante ma minoritaria, appartengono due tra i più significativi scrittori
e intellettuali della seconda metà del Novecento italiano: Italo Calvino e
Primo Levi.
Se a proposito di Calvino molto è
stato detto riguardo al rapporto tra scienza e letteratura, non altrettanta attenzione
ha ricevuto invece l’importanza della formazione scientifica sul pensiero di
Levi, che prima della guerra aveva studiato chimica e dopo la drammatica esperienza
del lager, a cui sopravvisse lavorando in un laboratorio chimico, fu chimico di
professione in una fabbrica di vernici. Il bel saggio di Antonio Di Meo, Primo Levi e la scienza come metafora
(Rubbettino), ricostruisce la personalità intellettuale complessa ma
profondamente unitaria di Levi scrittore e insieme scienziato, facendo
dell’autore torinese un protagonista di quella linea di pensiero leopardiano di
cui si è appena detto.
Una metafora del vivere umano
Nello scrivere testi come Il sistema periodico, l’intenzione di
Levi non è divulgativa ma «principalmente letteraria», e talvolta «assume
tonalità di tipo morale e filosofico»; i suoi scritti «possono essere
considerati delle vere e proprie operette morali».
Si pensi a racconti come Una stella tranquilla, con quel suo inizio
rassicurante da favola per bambini («In un luogo dell’universo molto lontano di
qui viveva un tempo una stella tranquilla…»), e con quel tono lieve nel narrare
la catastrofe cosmica dell’esplosione di una Nova che annichila il suo sistema planetario,
ma che per l’astronomo terrestre è solo «un puntino appena percettibile» sulla lastra
fotografica.
Oppure allo scritto Il brutto potere, che fa sua la denuncia
leopardiana della «forza, non invincibile ma perversa, che preferisce il
disordine all’ordine, il miscuglio alla purezza, il groviglio al parallelismo,
la ruggine al ferro, il mucchio al muro e la stupidità alla ragione», ed elogia
la capacità del vivente di procrastinare la degenerazione conservando
l’equilibrio, di lottare cioè contro la vita, la quale spesso ci cambia in
peggio. «In generale, sulle lunghe distanze l’omeostasi non regge: ci pensa “la
vita” a fare di te un altro, un pavido, un inerte, un avaro, un vizioso, un
ipocondriaco, perché, a furia di rodere, ha distrutto le tue difese».
E si pensi soprattutto al Sistema periodico, i cui capitoli
prendono il nome dagli elementi chimici, quasi segnavie della vita e
dell’esperienza che di essa ha fatto Levi. Scrivere di scienza, e in modo
privilegiato di chimica, per Levi è quindi molto più che divulgare, perché la scienza,
anzi la pratica della scienza è una metafora del vivere. Di quel vivere umano
che si oppone alla vita e al suo «brutto potere». La chimica praticata da Levi
è una scienza che, al contrario di molte altre scienze naturali ma analogamente
alla medicina, ha mantenuto una relazione positiva con le qualità secondarie
dei corpi (gli aspetti qualitativi, non misurabili ma percepibili dai nostri
sensi): si pensi all’importanza degli odori nel mestiere di chimico, alla
capacità dell’olfatto addestrato di riconoscere sostanze diverse prima ancora la
loro natura sia certificata dall’analisi; una pratica che si fa metafora della
forza evocativa che gli odori conservano e che segnano la vita umana. Ma
soprattutto la chimica è la scienza dell’individuale e della differenza: come
lo stesso Mendeleev ha ricordato, l’atomo è, più che l’indivisibile,
l’individuo. «La chimica, dunque, da questo punto di vista è una scienza della materia
di cui, di necessità, il diverso si trova positivamente collocato all’interno
di forme di relazioni multiple, nelle quali però ne viene salvaguardata
l’individualità e la
cui dinamica dipende proprio da quest’ultima».
L’universo del lager
Il sistema periodico dona ordine
al caos della materia, stabilisce differenze nell’indifferenziato, riconosce il
positivo valore dell’individualità all’interno di un sistema razionale. Per
questo la chimica, sostiene Levi, è intrinsecamente antifascista. «La filosofia
del lager – e del fascismo e del nazismo più in generale – si collocava
all’estremo opposto della filosofia sottostante al sistema periodico, poiché il
fascismo e il nazismo, invece, avevano combattuto (e il lager annichilito)
proprio il diverso e l’individuale».
L’esperienza del lager, centrale
e dominante nella vita di Levi, si iscrive così nel libro di Di Meo all’interno
della più generale concezione che la scienza ha rivelato agli uomini moderni:
diventa un esempio, il più eclatante, di quel «brutto potere» che governa la
natura tutta e che gli uomini possono scegliere o rifiutarsi di imitare. I
libri di Levi sull’esperienza concentrazionaria rivelano «l’ostinata e quasi
ossessiva volontà di capire»; ma dietro tale volontà di trovare un senso
all’accaduto non c’è solo l’abito mentale dello scienziato che sa che se un evento
è accaduto ci deve essere una spiegazione, c’è soprattutto quella che potremmo
chiamare la natura etica del ragionare. La comprensione razionale – l’abbiamo
visto sopra nel passo de Il brutto potere
– è infatti il contrario della stupidità, della brutalità degli aguzzini, e
soprattutto è la condizione di possibilità del soggetto morale, ciò che gli permette
di scegliere di comportarsi all’inverso del «brutto potere», di non imitarne la
forza distruttiva.
Una produzione di senso
La ragione crea la forma. E la
forma si oppone alla vita. Costruire molecole, come scrivere, significa
esercitare la ragione, cioè creare forme dentro e contro la materia informe. È
questo l’aspetto centrale dell’attività intellettuale di Levi, che Di Meo mette
in luce: la scrittura è creazione dal nulla, è produzione di un ordine
intelligibile, è donazione di senso a ciò che di per sé senso non ha. Per
questo soggiace al dovere morale di comunicare, di partecipare agli altri la
propria donazione di senso. Ne I sommersi
e i salvati lo scrittore torinese afferma lapidariamente che «rifiutare di
comunicare è colpa». Per Levi, secondo Di Meo, «l’oscurità di uno scritto rinvia
non solo all’esperienza del lager, dove aveva vissuto con molti altri deportati
“l’incomunicabilità in modo più radicale”, ma anche di una situazione di
angoscia profonda, atavica, senza nome, simile a quell’universo informe e vuoto
– il tohù vavohù – che nel mito biblico
precede la creazione universale; ossia un’angoscia riconducibile al momento che
precede l’esistenza di un mondo realizzato come un discorso dotato di senso che
l’uomo può e deve comprendere, e deve perché può. (…) Il caos delle origini del
mondo, dunque, per Levi è analogo al caos linguistico del lager dal quale era
necessario e vitale strappare frammenti di senso, “ritagliare un senso entro
l’insensato”». E cosa altro sono la scrittura e la chimica, se non «ritagliare
un senso entro l’insensato»?
il manifesto, 7 ottobre 2011
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