11.3.14

Il roveto di Edith Stein (di Beatrice Iacopini)

«Se nell’intimo del nostro cuore abbiamo costruito una cella ben protetta in cui ci ritiriamo il più spesso possibile, non ci mancherà mai niente dovunque ci troviamo»: sono parole di Edith Stein, filosofa allieva e assistente di Husserl: ebrea di famiglia ma atea di convinzione fin dall’adolescenza, questa donna straordinaria fu prima di tutto una grande amante della verità, di cui fu sempre alla ricerca e per la quale mise in gioco tutta se stessa, qualunque fosse il prezzo da pagare.
Brillante intellettuale, non si accontentò di sviluppare la filosofia asettica del maestro fenomenologo, che non riusciva a trasformarsi in sapienza per la vita, e nella sua ricerca incontrò la dimensione religiosa, quella interiore che poco ha a che fare con impalcature dogmatiche e credenze e che è piuttosto un’esperienza. Cercò e trovò quello che, con espressione geniale, definì il «punto-cuore» della ricerca intellettiva, il «profondo interiore» dell’uomo, dove l’autentico cercatore della verità vive, situandosi vicinissimo a Dio, ne sia consapevole o meno.
Com’è noto, la Stein finì per convertirsi al cristianesimo cattolico, e non è secondario che la spinta decisiva alla sua risoluzione sia stata proprio la lettura non di un saggio teologico, ma di una biografia: la Vita di Teresa d’Avila dove la filosofa trovò ciò che da sempre cercava, «la verità», appunto. Altrettanto noto è che, dopo alcuni anni dediti alla ricerca e all’insegnamento, Edith Stein approdò al Carmelo di Colonia, dove prese l’abito nel 1934; mandata nel monastero di Echt, in Olanda, per sottrarla alla persecuzione nazista, fu strappata alla clausura dalla Gestapo il 2 agosto del 1942 e deportata prima nel campo di Westerbork e da lì a Auschwitz, dove fu uccisa con il gas il 9 agosto successivo.
La sua attitudine interiore di vera «filosofa» all’incessante ricerca della sapienza emerge bene nella piccola biografia ragionata il cui titolo è Oscuro portone o immenso roveto ardente? Edith Stein nel
mistero della morte, di Cristiana Dobner, che segue, nel dipanarsi dell’esistenza di Stein, gli incontri con la morte di persone a lei care – a partire da quella del padre, avvenuta quando era piccolissima – e l’atteggiamento con cui le affrontò: le considerazioni della Dobner sono arricchite da numerosi brani di Stein e da testimonianze di amici, tratte soprattutto dal materiale raccolto in vista del processo di beatificazione della carmelitana, conclusosi nel 1987.
L’autrice del saggio si preoccupa anche di ricostruire l’ambiente culturale e filosofico in cui si era formata Edith Stein: alcune pagine, in particolare, sono dedicate all’analisi del rapporto con Heidegger che Edith conobbe e da cui prese subito lucidamente le distanze, riconoscendo nelle opere del filosofo un pensiero che si poneva in senso diametralmente opposto al suo, anche per quanto riguarda la concezione della morte: l’immagine della fine come «oscuro portone» è proprio heideggeriana.
Nella ricostruzione di Cristiana Dobner, tuttavia, il tema della morte è soprattutto la chiave per accedere a altri temi, per esempio la storia della conversione di Edith e la sua visione dell’ebraismo, dissonante da quella in uso al suo tempo e profeticamente in linea con il Concilio Vaticano II. Con piglio originale, probabilmente dovuto proprio alla sua formazione ebraica, Stein non accenna infatti mai alla teologia della sostituzione, quella in auge al suo tempo, secondo la quale la Chiesa è venuta a sostituire l’antico Israele, che così perde pressoché ogni significato; piuttosto vede in Gesù Cristo colui che ha «transcondotto» la liturgia e la teologia dell’Antico Patto in quella del Nuovo Patto, ovvero come colui che ha saputo portare dentro alla nuova fede tutta la ricchezza dell’antica; così la chiesa non si sostituisce a Israele, anzi si innesta su di lui ricevendone linfa vitale.


“alias talpa – il manifesto”, 29 settembre 2013

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