Nel 1587 lo scrittore collaborò
alla spedizione che avrebbe dovuto dare alla Spagna il primato sui mari. Il Don Chisciotte nacque dopo il disastro dell'Invencible Armada
Il 12 dicembre 1584, Miguel de
Cervantes sposò a Esquivias, cittadina non lontana da Madrid, Catalina de
Salazar, che forse aveva nelle vene qualche goccia di sangue ebraico. Cervantes
aveva trentasette anni, la fronte liscia, gli occhi vivaci e la barba bionda:
gli amici dicevano che «metteva in tutte le cose una grazia particolare». Se si
guardava alle spalle, scorgeva una vita drammatica e romanzesca. Nella
battaglia di Lepanto (1571), un colpo d'archibugio l'aveva colpito alla mano
destra: questa ferita, che a molti sembrava ripugnante, gli pareva bellissima,
«perché l'aveva ricevuta nella più alta e memorabile occasione che abbiano
visto i secoli passati». Nel 1575, era stato catturato lungo le coste catalane
dai pirati barbareschi, e portato ad Algeri, da cui aveva cercato inutilmente
di fuggire per cinque anni.
La moglie aveva soltanto
diciannove anni, diciotto meno di lui, e «sapeva leggere»: non sappiamo cosa. A
Esquivias, i due Cervantes vissero insieme una vita ordinata e mediocre, con
modeste cene, qualche amicizia, piccole conversazioni, qualche viaggio del
marito a Madrid e a Siviglia: una vita abbastanza simile a quella di Don Chisciotte, prima di partire per le
grandi avventure cavalleresche. Tutto lascia credere che Cervantes volesse bene
alla ragazza che aveva sposato quasi per caso. «Qualcuno vuol fare un lungo
viaggio - disse Don Chisciotte -. Se è prudente, prima di mettersi in strada,
sceglierà una compagnia piacevole e sicura. Perché non dovrebbe fare lo stesso
chi cammina tutto il corso della vita fino al termine della morte, soprattutto
se questa compagnia deve seguirlo a letto, a tavola, dovunque, come fa la donna
con il marito?».
Ma Cervantes aveva una idea
singolare dei lunghi viaggi coniugali. Nel 1587, due anni e mezzo dopo il
matrimonio, abbandonò la moglie. Non spiegò a nessuno, forse nemmeno a sé
stesso, la propria decisione. All'improvviso, chiese un incarico di
commissario a Diego de Valdivia, che stava preparando, a Siviglia,
l'approvvigionamento dell'Invencible Armada. Non attese nemmeno di essere nominato:
il 28 aprile, a Toledo, firmò una procura che accordava alla moglie il potere
di gestire i beni comuni: non gliela portò nemmeno ad Esquivias, come avrebbe
fatto un normale marito, ma incaricò un testimone di fargliela avere. Poi
scappò: attraversò la Mancia come un forsennato, otto o nove leghe al giorno; e
l'8 maggio era già a Siviglia. Era la prima delle sue grandi Fughe.
Negli anni del brevissimo
matrimonio, Cervantes continuò a scrivere: la carta davanti a lui, la penna
sull'orecchio, il gomito sulla tavola, e la mano sulla guancia, pensando a
quello che doveva dire. Abbiamo la testimonianza di un cane, Berganza (sia pure
un cane immaginario, personaggio di una delle Novelle esemplari): «Era occupato a scrivere in un quaderno e, di
tanto in tanto, si mordeva le unghie levando gli occhi al cielo. Altre volte,
non muoveva né piedi né mani e nemmeno le ciglia: tanto era profonda la sua
estasi. Un'altra volta, mi avvicinai a lui senza che se ne accorgesse. Lo
sentii mormorare tra i denti e, dopo un lungo momento, gettò un grande grido:
"Dio sia lodato! Questa è la migliore ottava che abbia mai fatto nel corso
della mia vita". E scrivendo velocissimamente nel suo quaderno, dava i
segni della più viva soddisfazione». Compose venti o trenta commedie, quasi
tutte perdute, dove voleva mostrare «le immaginazioni e i segreti pensieri
dell'animo»; e la prima parte di un romanzo pastorale, La Galatea. Ma erano cose senza genio.
Dovette aspettare i cinquantotto
anni, quando gli occhi non erano più vivi, la barba non era più bionda, ma la
grazia continuava ad avvolgerlo, per pubblicare la prima parte del Don Chisciotte presso lo stampatore
madrileno Juan de la Cuesta. Nel 1615, mentre ricordava la sua fuga a Siviglia,
Cervantes scrisse semplicemente: «Avevo trovato altre cose di cui occuparmi, e
ho lasciato la penna e le commedie». Per almeno dodici anni non posò la carta
sul tavolo, né la penna sull'orecchio, né la mano sulla guancia; e non sappiamo
cosa abbia pensato, immaginato, o fantasticato. Forse abbozzò una bellissima Novella esemplare, e qualche commedia.
Era sconfortato. Diceva
amaramente di essere «uno spirito sterile e incolto», degno soltanto di abitare
un carcere. Ma, in realtà, aveva bisogno di un'altra Fuga, immensamente più
tragica di quella che lo aveva allontanato dalla moglie. Doveva abolire tutta
la realtà, tutta la letteratura, tutto sé stesso: cancellare ogni cosa dalla
mente; e solo da questa rinuncia definitiva poteva nascere il più grande libro
sulla Fuga che sia mai stato scritto.
Cervantes amava moltissimo
Siviglia: la grande città, il commercio, il movimento, i colori, il vizio, la
miseria, il delitto, il caos, la fame, la disperazione. La cercava e la
fuggiva, egualmente affascinato. Trovava ancora ricordi islamici: la Girauda,
il minareto dell'antica moschea, divenuto campanile della cattedrale, e la
Torre d'oro. Scorgeva l'immagine più splendida e colorita della Spagna
cristiana: quell'immagine che il severo Filippo II, chiuso nel sepolcro vitruviano
dell'Escorial, non amava: i palazzi platereschi e rinascimentali, la Dogana, la
Moneta, la Loggia dei Mercanti, la Fiera dei vini, la Casa de contractación de
las Indias; e il Mattatoio, dove gli abitanti non temevano né religione, né
legge, né giustizia, rubavano e uccidevano, come uccelli da preda carnivori. A
Siviglia, sul corso inferiore del Guadalquivir, giungevano le flotte del Nuovo
Mondo, «come se la mano di Dio le guidasse». Nella prima metà del secolo, le
navi avevano portato soprattutto oro, dopo il 1550, quasi esclusivamente argento:
in Perù erano state scoperte nuove miniere; e a Potosí, a 4.830 d' altitudine,
era sorta una città mineraria di centosessantamila abitanti (più popolosa di
Londra e Parigi). Tra il 1580 e il 1620, le esportazioni dall'America
decuplicarono, permettendo a Filippo II di sviluppare la sua imperiosa politica
estera.
Negli stessi anni, flotte cariche
di vino, di farina, di olio, partivano verso l' America, dove non crescevano né
grano né viti né ulivi. Così, a Siviglia, si formò una rete foltissima di mercanti
e di banchieri: soprattutto genovesi, che si impadronirono della finanza e del
commercio internazionali, fondando grandi monopoli, e dominando il governo di
Filippo II. Tutto era denaro, o si trasformava in danaro: le strade - diceva Mateo
Alemán - erano cosparse d'argento; tutto era venduto e comprato, e poi di nuovo
comprato e venduto, come in un fantastico paese di Cuccagna. Era un singolare
paese di Cuccagna. Verso Siviglia scendeva la folla degli emigranti, che a
tutti i costi voleva raggiungere le Americhe: funzionari senza impiego, miseri
gentiluomini desiderosi di rinobilitare il blasone, soldati a caccia di
ventura, giovani diseredati che volevano far fortuna - e tutta la schiuma di
Spagna, ladri segnati dal marchio, banditi, vagabondi, debitori ansiosi di
sfuggire ai creditori, mariti che fuggivano le mogli litigiose. Per tutti, le
Americhe erano il sogno. Come scrisse Cervantes in una Novella esemplare, le Americhe «erano il rifugio e la protezione
dei disperati di Spagna, il santuario dei bancarottieri, il salvacondotto degli
omicidi, la diversione e il paravento dei bari, il richiamo generale delle
prostitute, la comune illusione del gran numero, il rimedio eccezionale di
qualcuno».
Molti di quei vagabondi si
fermavano a Siviglia: storpi, ciechi, ladri, finti o veri sciancati, ragazze di
malaffare, accattoni, formando gruppi organizzati in modo quasi militare, con
capi sospettosi e tirannici. Da decine di secoli, l'Andalusia era stata «il
granaio, il frutteto, la cantina e la stalla della Spagna». Ma quando Cervantes
arrivò a Siviglia, la situazione economica precipitava. Crescevano le imposte
dirette sull'agricoltura: la carne, l'olio, l'aceto e il sale erano tassati; i
piccoli agricoltori venivano strappati dalle loro terre perché non pagavano i
debiti; i mercanti abbandonavano i commerci, gli artigiani i mestieri, i
pastori le pecore. I nobili rovinati, i commercianti falliti, i diplomati senza
lavoro tendevano la mano in tutte le piazze. Intanto lo Stato spendeva le
entrate prima di averle incassate. Nel settembre 1587 Miguel de Cervantes
cominciò a tendere anche lui la mano: per lo Stato, per la Invencible Armada,
con cui Filippo II voleva invadere l'Inghilterra. Le navi spagnole avevano
bisogno di grano, di vino, di olio, di biscotti, per nutrire decine di migliaia
di soldati e di marinai. Ma lo Stato non pagava: requisiva; avrebbe pagato più
tardi, chissà quando, tra sei mesi, due, tre, quattro anni; e i proprietari e i
contadini si rifiutarono di consegnare i viveri nelle mani del commissario
letterato. Cervantes era solo, indifeso, senza appoggi: senza un soldo, perché
lo Stato non gli versava lo stipendio. Con i contadini cercava di usare le
buone parole. Quando mise in prigione un sacrestano recalcitrante, ed espropriò
un ricco canonico, la Chiesa non sopportò l'intollerabile offesa. Prima il
vicario generale di Siviglia, poi quello di Córdoba scomunicarono Cervantes.
Il padre di Filippo II, Carlo V,
aveva raccomandato al figlio di mostrarsi continuamente al suo popolo, di dare
udienze a giorni e ore fisse, di discutere i consigli dei Grandi. Ma non lo
nominò Imperatore. Filippo sentì questa mancanza come una terribile ferita; e
si ritirò sempre più nel suo cuore. Parlava con la cortesia più fine:
ascoltava, rispondeva a voce bassa, spesso con parole inintelligibili, e mai di
sé stesso. Se riceveva cattive notizie, cadeva malato, e soffriva di diarrea
come una pecora o un coniglio: almeno così dice un feroce osservatore. Come un
immenso ragno, Filippo II era felice soltanto se stava seduto al suo tavolo di
lavoro. Gli giungeva un numero infinito di informazioni: dal Perù, dal Messico,
dall'Atlantico, dal Pacifico, dai Paesi Bassi, dall'Inghilterra, dalla
Francia, dalla Germania, dal Portogallo, da Milano, da Napoli, da Tunisi e
Algeri, dalla Turchia, dalla Persia, dall'India, dai territori della penisola
iberica, così diversi tra loro. Il regno di Spagna era il mondo. Le notizie
arrivavano lentissimamente: talvolta naufragavano: impiegavano mesi a
percorrere miglia e chilometri, prima di giungere a Filippo II, immobile al suo
tavolo di lavoro. Filippo II non voleva discutere con i molti ambasciatori, e i
moltissimi funzionari. Non gli piaceva parlare: trovava che era una perdita di
tempo; e poi chi avrebbe capito le sue risposte inintelligibili? Quando
riceveva un testo scritto, cominciava il suo lavoro. Leggeva con una attenzione
estrema: leggeva e rileggeva: poi leggeva ancora: annotava le sue osservazioni
sul margine di ogni foglio; calcolava, soppesava; qualche volta le sue osservazioni
erano futilissime e pedantissime. Ma non si fidava di sé stesso. Domandava il
parere dei suoi subalterni: li faceva discutere; inviava i pareri di un
funzionario all'altro; ognuno doveva rispondere punto per punto, questione per
questione, con precisione assoluta. Soltanto tutti quei pareri potevano
portarlo (forse) vicino alla verità. Il segretario del suo Consiglio di Stato
commentava: «La condizione abituale del re è di non decidere mai».
Alla fine - per quanto dubbiosa,
incerta, angosciosa - la decisione di Filippo II scoccava. Non veniva affidata
ai Grandi, aristocratici e militari, che il re teneva lontani dalla politica:
ma a una fitta burocrazia di letrados,
piccoli nobili o persino borghesi, che avevano imparato tutto dai libri. I letrados ripetevano il lavoro di Filippo
II: soppesavano interminabilmente il pro e il contro, complicavano inutilmente
le cose, e alla fine, decidevano troppo tardi, quando era già passato il
momento giusto, e gli inesauribili denari della Corona erano esauriti. Il Papa
diceva: «Sua maestà è un uomo mediocre, che si decide ad agire solo quando è
passata l'occasione». A Parigi aggiungevano: «L'arcolaio della regina d'Inghilterra
vale più della spada del re di Spagna».
Attorno al 1566-67, la politica
spagnola verso l'Inghilterra, che fino allora era stata pacifica e quasi
favorevole, diventò minacciosa. Lo diventò ancora di più nel 1580, quando
Filippo II venne nominato re del Portogallo. Ma Elisabetta non poteva
sopportare che Filippo II dominasse con mano di ferro i Paesi Bassi; e
occupasse le due rive dell'Atlantico, trasformandolo in una specie di lago
spagnolo. Allora decise di colpirlo nel cuore. A partire dal 1568, i corsari
inglesi assalirono spietatamente le grandi navi, che portavano a Filippo II l'argento
delle Americhe; e i battelli biscaglini che rifornivano il costosissimo
esercito spagnolo dei Paesi Bassi. Filippo II preparò una spedizione
gigantesca, che avrebbe dovuto assicurare la strada delle Americhe,
riconquistare i Paesi Bassi e invadere la vera nemica: l'Inghilterra di
Elisabetta. La spedizione ricevette un nome pomposissimo: l'Invencible Armada,
nome che avrebbe fatto ridere o sorridere per sempre gli appassionati di
storia.
Il marchese de Santa Cruz pensava
a cinquecento navi e a centomila uomini: prima di invadere l'Inghilterra, le
navi avrebbero imbarcato una parte delle truppe spagnole, che combattevano nei
Paesi Bassi, agli ordini di Alessandro Farnese. Ma non c' erano soldi: l'argento
delle Americhe era già stato sperperato in chissà quale impresa. Così il
progetto si ridusse: soltanto centotrenta bastimenti, undicimila marinai e
diciannovemila soldati, per i quali laggiù, in Andalusia, Cervantes aveva
faticosamente requisito grano, olio, vino e biscotti. Filippo II costruì una
nuova flotta: poiché nell'arida Spagna non c'era legname, comprò, cercò di
comprare, o almeno fece segnare in Polonia una moltitudine di alberi da
abbattere. Poi ordinò di requisire tutte le navi da trasporto, tedesche,
inglesi e olandesi, ormeggiate nei porti spagnoli; e le fornì di cannoni. Per
la maggior parte, erano navi grandissime e lente: di mille, duemila tonnellate;
«immense case a cinque piani che sorgevano in mezzo al mare, con otto o dieci
vele e due grossi alberi di altezza prodigiosa». Filippo II e i suoi consiglieri
non sapevano che il tempo dei galeoni e delle galeazze era finito. Era giunto
il tempo delle piccole navi da cento, duecento o anche settanta tonnellate:
costavano poco, erano più rapide, tenevano meglio il mare e il vento, e
portavano «cannoni più lunghi e leggeri», come l' anno dopo annotò addolorato,
ammirato e invidioso, Filippo II, sui margini dei suoi fogli.
In una nazione dominata dai
lentissimi e complicatissimi letrados,
la Invencible Armada partì
naturalmente in ritardo. Le centotrenta navi si raccolsero a Lisbona. Le nostre
(o mie) notizie sono incerte. Avrebbero dovuto partire il 15 febbraio 1588: ma
qualche giorno prima l'ammiraglio Alvaro de Bazán, capo della spedizione, morì
d'apoplessia: il re nominò uno dei suoi parenti, il ricchissimo duca di Medina
Sidonia, chiamato il «duca dei tonni» per via degli enormi benefici che traeva
dalle sue tonnare andaluse. Non sapeva e non capiva nulla di mare, di navi e di
battaglie navali: ma il cauto Filippo II gli mise accanto due esperti consiglieri.
La partenza venne rinviata al 20 marzo, poi al 30 maggio. Quel giorno, le
centotrenta navi si mossero verso il Nord: ma i venti del golfo di Biscaglia le
obbligarono a rifugiarsi a La Coruña, nell'estremo settentrione della Spagna.
Soltanto il 20 luglio, dopo cinque mesi d'attesa, partirono verso le coste
dell'Inghilterra, dove giunsero due giorni dopo. Quando furono davanti al porto
di Plymouth, dove era ormeggiata la flotta inglese, i due consiglieri del duca
di Medina Sidonia gli suggerirono di attaccare immediatamente le navi e di
distruggerle. Forse la Invencible Armada
avrebbe dimostrato di essere davvero invincibile. Ma il duca di Medina Sidonia
amava le istruzioni scritte di Filippo II, che gli raccomandavano di
congiungersi, nei Paesi Bassi, con le truppe spagnole. Rifiutò la battaglia, e
forse la vittoria. Le sue navi risalirono la Manica, e il 6 agosto approdarono
nel porto di Calais. La notte gli inglesi inviarono dei brulotti, che colarono
a picco alcuni bastimenti.
l giorno dopo, al largo di
Gravelines, avvenne una grande battaglia. Gli spagnoli volevano abbordare le
navi nemiche, balzando sulle plance con i moschetti e gli archibugi, come a
Lepanto. Ma le piccole e leggere navi inglesi rimasero irraggiungibili: si
spostavano e allontanavano velocemente, poi si avvicinavano e di nuovo
fuggivano, colpendo con i cannoni le galere spagnole. «Facevano quello che
volevano», scrisse il 20 agosto un ufficiale, «solo una ventina delle nostre
navi poteva tenergli testa, ma le altre fuggivano appena il nemico si
avvicinava». L'Invencible Armada si
inoltrò nel Mare del Nord, cercando di approdare nei porti controllati dalle
truppe spagnole. Ma i ribelli olandesi bloccavano la maggior parte delle coste:
i porti liberi erano troppo piccoli per accogliere le grandi navi dell'Armada ;
nessuno, a Madrid, aveva mai pensato di controllare questo particolare
insignificante. La stagione peggiorò: i venti soffiavano verso Nord; a Sud,
nella Manica, le navi di Elisabetta impedivano il ritorno in Spagna. Così il duca
di Medina Sidonia, smarrito, confuso e privo di istruzioni scritte, decise di
prendere la via del nord. Risalì le coste dell'Inghilterra e della Scozia, si
insinuò tra le Orcadi e le Shetland, e discese lungo l'Irlanda. A bordo
scoppiarono epidemie: il grano e i biscotti dell'Andalusia erano divorati da
mesi. Le tempeste e le navi inglesi affondarono molte galere. Quando i
superstiti riuscivano a giungere a terra, venivano massacrati dalle
popolazioni. Infine, il 22 settembre 1588, due mesi dopo la partenza da La
Coruña, sedici navi - sedici su centotrenta - giunsero a Santander. Un
sacerdote commentò: «La Spagna ha perso il suo prestigio: siamo diventati lo
scherno dei nostri nemici, che ci hanno visto fuggire senza che nessuno ci
inseguisse».
Dopo la sconfitta dell'Armada, la navigazione in Atlantico delle
navi spagnole, cariche d'argento, diventò pericolosissima. Attorno alle isole
del Capo Verde, alle Canarie, alle Azzorre, si aggiravano i corsari inglesi,
che talvolta si spingevano fino a Sant'Elena, dove le navi portoghesi, di
ritorno dall'India, rinnovavano le provviste d'acqua. Intanto il
Mediterraneo, il regno di Filippo II, diventò un mare nordico. Le navi inglesi
e olandesi forzavano lo stretto di Gibilterra: specialmente d' inverno, quando
il mare era molto agitato, e i galeoni spagnoli rimanevano alla fonda. Alla
fine del secolo, gli inglesi erano presenti dovunque nel Mediterraneo, e lungo
tutte le vie che vi conducevano. Fino a controllare (nel 1660) il 48 per cento
del commercio. Poi arrivarono le navi olandesi, di solito battendo bandiere
false e servendosi di falsi documenti. Pochi anni dopo, a Siviglia, il cuore
finanziario della Spagna, le ditte olandesi sostituirono i banchieri genovesi:
si introdussero mascherate, nascoste attraverso insospettabili intermediari, e
corrompendo i Grandi spagnoli, come il duca di Medina Sidonia, «il duca del
tonno», l'incompetente capo della Armada.
A poco a poco, come termiti, divorarono dal di dentro Siviglia e la
trasformarono in un nemico pericoloso, commerciando con i ribelli dei Paesi
Bassi, i nemici mortali di Filippo II. Nel 1596, otto anni dopo la sconfitta
dell'Armada, ebbe luogo il disastro
definitivo. Le squadre inglesi e olandesi partirono il 1° giugno da Plymouth, e
raggiunsero la baia di Cadice, dove erano ormeggiate 60 navi spagnole dirette
in America, cariche di undici milioni di merci. Le truppe inglesi sbarcarono,
bruciarono le navi, e per quindici giorni saccheggiarono Cadice.
Ormai era tempo che Filippo II
morisse. Aveva settantun anni: quarantadue anni di regno, quarantadue anni di guerre
ininterrotte. Soffriva d'artrite e di idropisia: il ventre, le cosce e le gambe
si gonfiarono; non riusciva a calmare la sete. Fu portato all'Escorial, la sua
reggia, disteso sopra una lettiga. Il viaggio durò sette giorni. L' agonia
sette settimane. Soltanto Filippo non avvertiva il fetore intollerabile del suo
corpo, perché non possedeva la minima traccia d'odorato - tratto che rivelava
profondamente la sua natura. Si confessò per tre giorni, rivelando i peccati
che aveva commesso e quelli che non aveva commesso; e morì il 13 settembre
1598, alle cinque del mattino. Proprio quell'anno, o l'anno prima, Miguel de
Cervantes, l'oscuro commissario malpagato dell'Andalusia, cominciò a
immaginare o a scrivere il Don Chisciotte.
Non era un libro adatto a Filippo II, e a nessun potente della terra. Ma
piaceva moltissimo a Dostoevskij, che lo lesse e lo rilesse e lo imitò nell'Idiota. Nel marzo 1876, scrisse nel Diario di uno scrittore: «In tutto il
mondo non c'è nulla di più profondo e forte di questa opera poetica. Per ora,
è l'ultima parola detta dal pensiero. E se finisse la terra, e lassù da qualche
parte chiedessero alla gente: "Avete capito la vostra terra, e che cosa ne
avete concluso?". Allora uno potrebbe porgere in silenzio il Don Chisciotte: "Ecco le mie
conclusioni sulla vita: potete per questo giudicarmi?"».
Corriere della Sera,15 agosto
2011
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