12.3.14

Togliatti tra Stalin e Cavour (Aldo Natoli)

Nel marzo del 1953, era il suo sessantesimo compleanno, Togliatti tenne un breve discorso in una saletta del palazzo di via delle Botteghe Oscure. Nella sua vita, disse, gli erano toccate "tre fortune", essere stato "allievo" di Gramsci, essere andato a scuola della classe operaia torinese, essere stato "al centro" del lavoro del Comintern, "sotto la guida diretta di Stalin". Su questo punto si fermò a lungo forse anche perché solo tre settimane prima Stalin era morto e l'evento aveva provocato commozione e turbamento nell' animo dei comunisti. Ma, certo, non solo per questo.
E' vero, infatti, che quelle "tre fortune" giocarono in misura diversa e disuguale nel corso complessivo e avventuroso della sua vita e della sua opera. E se l'aver partecipato alla lotta del proletariato torinese nel primo dopoguerra fu decisivo per una scelta di campo irreversibile, se il magistero di Stalin negli anni della maturità lo segnò in modo indelebile, lo stesso non può dirsi, fuori dalla mitologia di partito, del suo rapporto con Gramsci, del quale egli fu "allievo", e solo fino a un certo punto, agli albori dell'Ordine Nuovo e con il quale spartì un breve periodo di feconda collaborazione solo nella elaborazione delle Tesi per il terzo congresso del partito (1924-1925).
Lo storico non deve sottovalutare l'importanza di quel primo tentativo di delineare una strategia antifascista democratica e popolare, in tappe intermedie di lungo periodo. Ma è anche vero che, se Togliatti non dimenticherà quella esperienza, entro i cinque anni successivi egli si scontrerà aspramente con Gramsci, che aveva profeticamente intuito il sorgere dei primi segni della degenerazione staliniana e, poco dopo, accetterà, sia pure costretto, di abbandonare la linea politica gramsciana per schierarsi su quella catastrofica del VI congresso del Comintern e di Stalin. L'arresto e la condanna di Gramsci contribuirono a trasformare un distacco politico in una completa rottura di rapporti, che Togliatti non cercò mai di riallacciare, come forse, non sarebbe stato impossibile. Più tardi, dopo la morte di Gramsci, e ancor più nel dopoguerra, l'immagine dell'eroe occuperà ovviamente il posto d'onore nel pantheon del partito, l'"utilizzazione del suo pensiero" (l'espressione è di Paolo Spriano) sarà largamente promossa come lievito di rinnovamento culturale e Togliatti, per conto suo, gli dedicherà un saggio nel vano tentativo di inquadrarne le idee nell'ambito del marxismo-leninismo.
Ben altrimenti formativo e determinante fu il tirocinio di Togliatti presso il Comintern e Stalin. Non si dimentichi che fu, grosso modo, il decennio degli anni '30, che vide in Unione Sovietica la "costruzione del socialismo" sotto il terrore di massa, in Europa l'ascesa del nazismo hitleriano e che si concluse con la seconda guerra mondiale. Quella mescolanza di epica e di orrori va tenuta nel conto. Che Togliatti sia stato totalmente acquisito alla dottrina e alla pratica staliniana è indiscutibile, del resto lui stesso non mancò di ricordarlo, e con fierezza, anche dopo il 1956. Era la consapevolezza di chi ha contribuito a far maturare eventi che dovevano cambiare la faccia del mondo. Fu allora che fu saldato il "legame di ferro" di cui parlerà più tardi (1956). L'identificazione totale con la causa dell'Urss, centro tolemaico della rivoluzione mondiale, la "cultura" staliniana valsero a spostare il fuoco della sua attenzione dalla dinamica delle forze sociali di classe al ruolo della forza organizzata a livello dello Stato e del partito, all'uso del potere e alla rivoluzione "dall'alto".
Sarà in questo nuovo quadro (dunque assai lontano dal Gramsci del 1925) che egli riprenderà la tematica della rivoluzione democratica antifascista, prima nel Fronte popolare in Spagna, poi nell'unità nazionale al ritorno in Italia. Questo fu tecnicamente preparato dalla diplomazia sovietica e avvenne nel quadro, già in via di comporsi, degli equilibri fra le potenze quale sarà fissato l'anno successivo a Yalta. Togliatti sapeva bene che l'Italia sarebbe rimasta fuori dalla sfera dell'influenza sovietica diretta. Tanto più ardita fu la sua iniziativa e questa, se certamente inscritta nella strategia staliniana di lungo periodo, fu tutt'altro che la ripetizione di una lezione appresa a Mosca. Si potrebbe dire che egli si mosse secondo un modello che lo ricongiungeva non estrinsecamente a un momento chiave della storia nazionale: il modello cavourriano. L'Italia del 1944-45 era vicina ad essere ridotta ad un'espressione geografica, sia la sua indipendenza che la sua unità potevano essere messe in gioco. Bisognava reinserirla nel "concerto internazionale" come nazione indipendente. Di qui l'esigenza primaria della partecipazione alla guerra antifascista, l'esercito partigiano come l'esercito garibaldino, una base politica unitaria in un quadro di rinnovamento moderato, gestito "dall'alto", nel rispetto della continuità dello Stato.
Il "cavourrismo" di Togliatti agì in senso restrittivo non certo nei confronti di una impossibile rivoluzione socialista, ma, certo, di spinte più avanzate a trasformazioni sociali e all'allargamento dei poteri democratici di base, ma esso, insieme all'originale invenzione del partito nuovo di massa, precostituì la base vittoriosa su cui la sinistra condusse, fra il 1948 e il 1956, la battaglia per la difesa delle libertà democratiche, dopo la sconfitta del 18 aprile 1948 e contro la stretta repressiva democristiana. Di fronte a questo partito democratico e stalinista, nazionale e unito all'Urss da un legame di ferro non ancora sciolto, Togliatti ebbe allora a parlare di "doppiezza", intendendo l'incomprensione della "via italiana al socialismo" e l'attesa di un segnale rivoluzionario da Mosca, l'una e l'altra assai diffuse nel partito. Da parte di Togliatti fu, penso, una "astuzia" propagandistica e pedagogica. Voleva, da una parte, offuscare una complessità e una confluenza provenienti dalla storia, dall'altra stimolare a combattere l'inerzia politica che poteva derivarne.
Fu solo a partire dal 1956 che quel nodo cominciò ad essere sciolto, quando scoppiò la crisi provocata dalla denuncia ufficiale dei crimini di Stalin. Allora Togliatti dimostrò insieme i limiti del suo marxismo (la sua incapacità a mettere in discussione il socialismo sovietico) e la sua grandezza di capo politico nell'avviare risolutamente il partito ad una strategia democratica autonoma dall'ipoteca dell'Urss.
Io non credo che egli avesse intuito che la grande stagione del socialismo sovietico declinava verso il tramonto e che cercasse di assicurare al suo partito lo spazio politico per una lenta mutazione in una lunga marcia attraverso le istituzioni democratiche. Aveva solo scoperto che la vitalità del capitalismo si prolungava oltre i limiti presagiti dai teorici della III Internazionale e che l'Urss, per suo conto, poteva andare incontro a gravi crisi politiche. Confidava che l'Urss fosse capace di autoriformarsi e che il suo partito doveva continuare a coltivare l'unità con essa, accentuando però la propria autonomia. Questo il messaggio del "Memoriale di Yalta", ultimo scritto prima della morte.
Nei 20 anni trascorsi da allora il disegno di Togliatti non si è avverato: l' Urss si è irrigidita in un immobilismo da grande potenza, non suscettibile di riforme, chiusa nel "socialismo reale" ad ogni richiamo ideale. Per contro il partito ha spinto oltre le previsioni di Togliatti la sua capacità di connaturarsi alla realtà sociale del paese, di introdurvi un'esigenza democratica; di spogliarsi di una tradizione comunista vetusta di cui non resta che il nome. Esso è uscito dal sistema tolemaico staliniano, senza compiere una rivoluzione copernicana neocomunista, anzi ha accentuato fino a conferirle una valenza assoluta, nel bene e nel male, la pratica democratica che conduce senza più doppiezza dal 1956. Forse il "più grande tattico del movimento comunista" (così diceva Lukàcs di Togliatti) ne divenne, inconsapevolmente e suo malgrado, uno dei più grandi strateghi con la svolta del 1956, nonché, insieme, il primo esploratore di vie nuove di trasformazione per quel movimento giunto alle soglie dell' esaurimento? La fine dell'epoca staliniana, ovvero della rivoluzione "dall'alto", non portò ad uno scioglimento del tutto imprevisto del dramma che aveva avuto inizio sulla fine degli anni '20 e Togliatti che ne era stato uno dei protagonisti non si trovò di fronte ad un esito che rovesciava l'"hic Rhodus, hic salta", che egli si aspettava almeno dal 1944?
La grandezza dell'uomo deve vedersi nel suo concepire e praticare la politica come storia nel suo farsi e ciò, per non rimanere vuota genericità, ha bisogno almeno di due determinazioni. Prima: il marxismo era per lui, anzitutto, una scelta di campo e solo dopo valse come canone interpretativo, guida per l'azione; non fu mai un ideologo e non ci ha lasciato alcun testo teorico di qualche importanza. Ma talune sue analisi politiche illuminano le epoche diverse in cui visse e rimangono saggi ineguagliati di politica reale, dell'arte machiavelliana di costruire ed usare il potere. Penso al saggio sulla natura del fascismo (1928), alle analisi sulla guerra civile in Spagna (1937-1939), alla sua diagnosi della situazione italiana fra il 1943 e il 1946 e alla sua iniziativa in essa; alla sua incredibile abilità nel rompere l'assedio in cui lo aveva stretto l'inattesa denuncia dei delitti di Stalin nel 1956. In sostanza, aveva colto pienamente nel segno Benedetto Croce quando, all'apparire improvviso di Togliatti nella Napoli del 1944, ne intuì l'intima, rarissima, essenza di totus politicus. Seconda: se questa è la dimensione politico-storica nella quale si muove il personaggio, ne deriva che il giudizio politico su di esso è anche intrinsecamente una valutazione morale, non nel senso del moralistico senso comune per cui è deplorevole ogni pratica in cui il fine giustifica i mezzi; ma ben al contrario, perché è sempre moralmente e politicamente da respingere ogni mezzo che per la sua ignobiltà annulla l'altezza del fine. Così la corresponsabilità di Togliatti in taluni delitti di Stalin (per esempio, lo scioglimento del partito comunista polacco e la distruzione del suo gruppo dirigente, 1938), lo è perché quei delitti contribuirono forse a rafforzare il potere di Stalin, ma alienarono certamente dalla realtà dell'Urss e del movimento comunista e mortificarono per un'intera epoca storica le alte idealità dell'utopia marxiana.


“la Repubblica”, 5 agosto 1984

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