Le navi antiche, di legno
naturale e senza trattamenti, quando venivano attaccate dai parassiti
non avevano scampo. Così, ridotte a un colabrodo dai vermi, due
caravelle della quarta e ultima spedizione di Colombo nel Nuovo Mondo
furono abbandonate nella baia di Sant'Anna in Giamaica, sul cui fondo
ora giacciono. Per trovarle, il dottor Roger C. Smith e un gruppo di
studiosi dell'università del Texas si immergono in quelle acque
cristalline dall'inizio dell'estate. Se, come sperano, la fortuna li
assiste, ci troveremo di fronte a un ritrovamento importante non solo
per ragioni storiche ma per tutto quello che i relitti,
prevedibilmente bene conservati dalla natura dei fondali, potranno
dirci sul modo in cui erano costruite queste navi, protagoniste di
esplorazioni e commerci durante il Rinascimento. Ciò che
apprenderemo sulla struttura delle caravelle servirà agli artigiani
spagnoli che si apprestano a ricostruire la Nina, la Pinta e la Santa
Maria. Le tre repliche ripeteranno nel 1992, cinquecentesimo
anniversario della scoperta dell' America, il viaggio di Colombo.
Benché immagini d'epoca
non manchino e neppure imitazioni moderne (basti pensare a film e
sceneggiati televisivi) le caravelle rimangono sostanzialmente un
oggetto misterioso. Com'era fatta esattamente la carena? E
l'armamento? Il timone? Snelle e ardite, in grado di solcare il
tempestoso oceano, le caravelle posseggono, tra gli scafi antichi, un
fascino particolare. Come riuscivano a raggiungere, con forte vento,
gli undici nodi, velocità-limite anche per i moderni scafi di
lunghezza comparabile?
Con una delle tante
discontinuità che punteggiano il suo procedere, l'archeologia marina
ha scavato - si dice così nonostante l' improprietà del termine -
più navi classiche, cioè greche, etrusche, romane, che vascelli
recenti. Tra i grandi ritrovamenti d'epoca romana ricordiamo quello
delle due navi di Caligola nel lago di Nemi, prosciugato per l'
occasione tra gli anni 1928- 32. Lunghe ben 71 metri l' una e 73 l'
altra, i vascelli imperiali erano, come si direbbe oggi, navi "di
rappresentanza", scafi d' acqua dolce più adatti a mostrare
opulenza che ad affrontare i flutti. Sul ponte della più piccola
erano costruiti lussuosi ambienti in muratura, coperti da un tetto di
tegole di rame dorato, con pavimenti intarsiati e ornati di mosaici.
Travi di sostegno rivestite di bronzo, balaustrate con teste di
Satiri completavano la decorazione, mentre l' opera viva, cioè la
parte immersa della nave, aveva il fasciame rivestito di lana
catramata, a sua volta coperto di sottili lamine di piombo. Purtroppo
le navi di Nemi andarono distrutte in un incendio nella primavera del
1944.
Dopo questo "colossal",
l'archeologia navale italiana non ha più dato grandi prove di sé.
Ci sono stati, sì, ritrovamenti, ma modesti rispetto alla quantità
di tesori adagiati lungo le nostre coste. Neppure i guerrieri di
Riace sono riusciti a dare l' impulso sperato. L'archeologia
subacquea è da sempre la sorella minore e dimenticata
dell'archeologia di terra ferma, i suoi cultori si contano sulle dita
di una mano, manca un centro di coordinamento a livello nazionale
come pure una università che riesca a dare impulso a questa branca
della scienza. Così quel museo sommerso che sono i litorali della
Penisola viene soprattutto visitato da altri, come alla fine del
secolo scorso gli scavi nelle grotte preistoriche della Liguria
furono appannaggio dello straniero. Gli inglesi dell'università di
Oxford sono appena partiti dall'isola del Giglio dove il mese scorso
hanno recuperato una nave etrusca del quinto secolo avanti Cristo con
la struttura lignea bene conservata. L'isola era sulle rotte
mercantili dell'impero ed è dunque un posto in cui le immersioni
archeologiche possono dare buoni frutti. Un altro relitto, del
secondo secolo dopo Cristo, è infatti stato avvistato e attende di
essere studiato.
Ma se il Giglio è
importante, tutti gli ottomila chilometri di coste italiane sono una
miniera; e i fondali del Mediterraneo in generale. L'anno scorso è
stata annunciata la scoperta di quello che è certamente il più
antico relitto finora identificato. Si tratta di una nave da carico
che raggiunse la sua silenziosa, liquida tomba 3.400 anni fa, quando
sul trono dell'Egitto sedeva Tutankhamen. La scoperta è avvenuta a
Kas, lungo la costa meridionale della Turchia.
Il dottor Smith e il suo
gruppo hanno ancora davanti un mese abbondante per individuare le
navi di Colombo. Il compito non è facile, ci è stato detto in una
intervista telefonica, perché la baia di Sant'Anna è grande e i
relitti colà affondati numerosi. Ma per l'autunno forse ci saranno
novità. Anche per un altro verso. Uno studioso dell'Università
della Florida ha trovato in Spagna un documento di 400 pagine che
descrive la Nina, lo sta esaminando e tra poco rivelerà al mondo ciò
che ha decifrato. Il documento e l' eventuale recupero da parte di
Smith aggiungeranno dettagli fondamentali a quanto già sappiamo
sulle caravelle. La Nina, la preferita di Colombo, era lunga una
ventina di metri e poteva trasportare 60 tonnellate di carico. La
Pinta, un po' più larga, era più veloce della Nina, mentre la Santa
Maria, l'ammiraglia della piccola flotta, raggiungeva i 27 metri di
lunghezza. Più lenta delle altre due, finì in secca e dovette
essere abbandonata nel Nuovo Mondo. Il suo aspetto panciuto ha
portato qualcuno a supporre che non si trattasse di una vera
caravella ma di un nao, un robusto vascello da carico di
origine ispanica. Secondo il dottor Smith, le caravelle avevano
fiocco e randa, cioè la vela anteriore e quella principale,
quadrate, mentre la mezzana, cioè la vela di poppa, era tagliata a
triangolo come le vele latine. Le vele quadrate sono più adatte
all'andatura con vento in poppa, che era poi l'assetto di navigazione
prevalente delle navi antiche. Ma le caravelle dovevano destreggiarsi
con vento di bolina, cioè quasi contrario, altrimenti, dato il
regime prevalente dei venti estivi, sarebbero state loro precluse
molte rotte mediterranee. Le vele latine sono più manovrabili e
adatte a questa andatura sfavorevole. Senza vele in kevlar nè scafi
in lega leggera, le navi di Colombo riuscivano a coprire duecento
miglia al giorno, una media del tutto rispettabile anche oggi.
“la Repubblica”, 5
settembre 1985
Nessun commento:
Posta un commento