Pour un autre Moyen Age, che è il titolo di una sua raccolta di
saggi del 1977, individua meglio di qualsiasi altra formula l'arco della
prodigiosa opera storica di Jacques Le Goff: liberare l'età di mezzo da
incrostazioni e da facili mitologie - età oscurantista, arretrata, lugubre o,
al lato opposto, da Chateaubriand in poi, tutta nobili ideali e dorature - per
offrirci l'antropologia storica di un Medioevo «altro», fatto di segni e di
gesti, di utopie e di superstizioni, di conflitti e di luminose conquiste. Un
Medioevo drammatico, visto sempre in serrato confronto con la Modernità: «Il
Medioevo mi ha catturato solo perché aveva il potere quasi magico di
trasportarmi altrove, strappandomi alle preoccupazioni e alle mediocrità del
presente e, allo stesso tempo, di renderle più acute e più chiare». Nascono
così, uno dopo l'altro, i grandi saggi sulla dimensione del vivere (Tempo della Chiesa e tempo del mercante,
1977), sulle fantasie dell'Aldilà (La
nascita del Purgatorio, '81), sui miti della regalità (San Luigi, '96), sulle radici medievali dell'Europa (Il cielo sopra la terra, 2003). Le Goff
è anche un formidabile organizzatore di cultura, e ama il lavoro di équipe, ci
arriva ora, da lui diretto, Uomini e
donne del Medioevo (Laterza, pp. 448, € 35,00), che costituisce una sorta
di dittico con il Dizionario
dell'Occidente medievale (1999), curato insieme a Jean-Claude Schmitt e
uscito da noi presso Einaudi. Se il Dizionario era organizzato attorno a voci
tematiche - come «angeli»,
«castello», «stregoneria» ... - questo nuovo volume, splendidamente illustrato,
ci offre delle biografie, è organizzato attorno a delle «persone». Ma, va
subito detto, non sono biografie tradizionali, pigramente costruite, ma
piuttosto degli «emblemi», come chiarisce bene Le Goff nell'Introduzione: «In
questo libro la storia sembra presentarsi in una forma relativamente superata,
dal momento che si basa essenzialmente sui grandi personaggi. In realtà, dopo
il movimento delle Annales della metà del XX secolo, il senso della storia
viene cercato nell'insieme delle società e degli strati sociali. Tuttavia, gli
storici che hanno concepito e composto quest'opera hanno pensato che gli uomini
e le donne famosi potevano essere emblemi assai eloquenti di una società e di
un'epoca. E così gli individui che danno lustro a questo volume collettivo sono
presentati in quanto rivelatori della loro epoca ed eroi della memoria
storica». L'opera mira a presentarci una «civilisation» in tutta la sua
ricchezza, allinea re e regine, papi e uomini di chiesa, santi e sante, ma
anche intellettuali e filosofi (da Alcuino a Boezio, da Averroè a Tommaso
d'Aquino, da Brunetto Latini a Jan Huss, da Alberto Magno a Meister Eckhart),
scrittori e artisti (da Bernart de Ventadom a Chaucer, da Iacopo da Varazze a
Froissart, da Chrétien de Troyes a Dante, da Giotto a Jean Fouquet).
[...] Lo stesso Le Goff ci
presenta il Cid Campeador, Abelardo ed Eloisa, Sugerio, Chrétien de Troyes,
Saladino, Santa Edvige di Slesia, San Francesco d'Assisi e santa Chiara, San
Luigi, Iacopo da Varazze, e, nell'ultima sezione, allarga il quadro a
personaggi immaginari come Artù, come Merlino; come Robin Hood.
Il pericolo che la scrittura cada
in un gergo troppo specialistico è felicemente evitato, gli autori delle voci
riescono a darci, fedeli al programma delineato da Le Goff, proprio degli
«emblemi». Così entra in scena Teodorico il Grande (456 ca.- 526): «Il potere di Teodorico sembra
essere stato duale. Come re dei Goti continua a comportarsi da capo militare
barbaro, non esitando a confiscare una parte delle terre italiane per
distribuirle ai propri guerrieri. Ma quando Teodorico sceglie di presentarsi
come re d'Italia, torna a essere un agente della sovranità romana e la sua
benevolenza abbraccia tutti i sudditi, senza distinzione etnica o religiosa.
[...]Gli intellettuali di questa generazione cominciano allora a sognare una
rinascita della civiltà romana sotto la protezione dei Goti. [...]La fine del
suo regno è, invece, abbastanza oscura. Nel 525 Teodorico crede, probabilmente
a ragione, che un partito di senatori lo tradisca...».
Così Eleonora d'Aquitania (1124-1204):
«Eleonora d'Aquitania non lascia nessuno indifferente. È la più conosciuta, la
più amata, la più detestata delle regine medievali. Mentre era ancora in vita,
gli scrittori le hanno intrecciato corone di lauro o, al contrario, l'hanno
trascinata nel fango. Alcuni ne hanno lodato la bellezza, la pietas o il mecenatismo;
altri l'hanno trattata da ninfomane e accusata di incesto. [...] Privi di reale
fondamento, questi pettegolezzi di fatto vogliono vendicarsi di una donna che
sconfina dal suo ruolo occupandosi di politica. [...] Nel 1173 la rivolta
congiunta dei figli contro Enrico II è fomentata da Eleonora (Aliénor) che,
secondo il perfido gioco di parole dell'abate di Mont-Saint-Michel,
"alienò" i suoi figli dal re. La ribellione fallisce e la regina
resta prigioniera...».
E così Filippo IV il Bello
(1268-1314): «Questo re non ha avuto un Joinville, un confessore o un cronista
che gli sia stato tanto vicino da lasciarci delle testimonianze sulla sua
personalità profonda. Ma lo studio degli atti ufficiali, dei conti regi, la
critica di numerosi documenti ci dicono molto di più della seguente
osservazione di una delle sue vittime, il vescovo Bernard Soisset: "Non è
né un uomo né una bestia. È una statua". Forse parlava poco e appariva
come di marmo ai suoi visitatori. [„.]In che misura la lettura di Boezio e di
Egidio Romano ha forgiato il carattere del re, imbevuto allo stesso livello di
stoicismo e di orgoglio? [...] Con Filippo il Bello la Francia d'improvviso
sperimenta in tutti gli ambiti un assolutismo monarchico estremo. Una mistica
indissolubilmente religiosa, politica e giuridica che raggiunge il parossismo
intorno al 1300, precisamente quando la monarchia, allo stremo, non può più
tollerare né ostacoli né resistenze. È in questo momento che i suoi giuristi
invocano l'alleanza di Dio e della dinastia capetingia, la superiorità del
regno di Francia "cristianissimo"...».
I personaggi del libro vengono
presentati, nell'Introduzione, sotto
un titolo molto significativo: «I lenti creatori dell'Europa». E un filo rosso
attraversa e lega tra loro, a ben vedere, tutti questi racconti: il farsi e il
disfarsi dell'idea di nazione, la difficile ricerca dell'identità dell'Europa.
Un'Europa, la nostra di oggi che cerchiamo di costruire, che non deve rinnegare
necessariamente l'età di mezzo, ma che può continuare l'esperimento della sua
mescolanza, della sua pluralità. Più delle «radici cristiane», caratterizza il
Medioevo che qui viene raccontato la mescolanza etnica, l'amalgama dei popoli,
e la loro conflittuale ma feconda convivenza: «ai Celti, ai Germani, ai
Gallo-Romani, agli Anglo-Romani, agli Ebrei, si mescoleranno i Normanni, gli
Slavi, gli Ungari, gli Arabi, con processi di acculturazione che annunciano
quella che sarà l'Europa aperta alle ondate di immigrazione: un'Europa della diversità
culturale e della mescolanza delle etnie». Il lettore incontra in questo
volume, rispetto a quello ancora troppo vulgato, davvero «un altro Medioevo».
“alias talpa – il manifesto”, 20 ottobre
2013
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