Voltaire arrivò a Berlino, alla
corte di Federico II di Prussia, nei 1750. Ne ripartì «profondamente deluso»
tre anni dopo. Aveva creduto di trovare e d'intendersi con un principe
illuminato e raffinato, un poeta, un nemico della superstizione, un uomo di
stato pensieroso del bene dei suoi sudditi. Si trovò di fronte, come poi
ricordò, un Mustafà, un Selim, un Solimano. Per lo scrittore, fu quella che
viene definita «un'amara esperienza», simbolica e ammonitrice: «Cet échec»,
imparano i ragazzi francesi al liceo, «gli fece misurare il fossato tra
filosofia e realismo politico».
Questa storia non convince: non
ha nulla dell'esperienza e ha tutto dell'apologo. Quando Voltaire partì per la
Prussia, aveva 56 anni, dei trascorsi alla Bastiglia e in esilio, ed era 1'ultimo
uomo che si potesse fare delle illusioni su Federico II. Qualche anno prima lo
aveva definito «il Salomone del nord», anche perché «gli epiteti non costavano
niente». Era stato l'inventore del mito del despota illuminato, ma aveva
sufficiente conoscenza degli ambienti delle Corti e degli usi del mondo per
avere un'idea chiara di come sarebbe andata a finire.
Allora? Il fascino di questa
spedizione berlinese sta nel fatto che venne tentata con il cuore, e non con il
cervello, dall'uomo più intelligente d'Europa, sotto la spinta della curiosità,
della vanità, dello snobismo. Lui d'altronde, ne era perfettamente consapevole.
«Federico aveva dello spirito, della grazia», scrisse poi, «e in più era re,
fatto che esercita sempre un gran fascino data l'umana debolezza». Giunto a
Postdam, nel giugno del 1750, venne accolto come Astolfo nel palazzo di Alcina.
«Alloggiare nell'appartamento che era stato del maresciallo di Sassonia, avere
a mia disposizione i cuochi del re quando volevo mangiare in camera, e i suoi
cocchieri quando volevo andare a spasso... lavoravo due ore al giorno con Sua
Maestà; correggevo tutte le sue opere, non mancando mai di molto elogiare
quanto vi era di buono, allorché cancellavo tutto quello che non valeva niente
». Questo voleva Francois Marie Arouet, figlio di notaio: la chiave d'argento
dorato da ciambellano pendente dalla livrea, la grande croce del merito intorno
al collo, giocare al consigliere politico senza pretendere che il re seguisse i
suoi sarcasmi. E poi c'erano i ventimila franchi l'anno di pensione. Si sentiva
arrivato: che carriera!
Vera «avventura» settecentesca, i
tre anni di Voltaire a Berlino sono stati raccontati da lui stesso in molte
lettere a Madame Denis e » un libretto, Mémoires
pour servir à la vie di M. de Voltaire, écrits par lui-mème, pubblicato
anche con il titolo Vie privée du roi de
Prusse. Mai tradotto in italiano, il libro sta ora per venire pubblicato
dalla casa editrice Sellerio (Memorie,
pagg. 100): cento pagine rapide, vivacissime, maliziose, con evidente funzione
apologetica e a futura memoria per i posteri sui rapporti dell'autore con
Federico II. Ma anche autoironiche, disincantate, sul suo mestiere e su quello
più vasto della politica e dei regnanti.
Le Memorie iniziano con brevi
tocchi sul padre di Federico II, Federio Guglielmo, un «vandalo» feroce volgare
e sadico, che trascorreva le sue giornate passando in rivista granatieri alti
un metro e novanta. «Una volta passate in rivista le truppe, Federico Guglielmo
andava a passeggio per la città: tutti se la squagliavano rapidamente: se
incontrava una donna, le domandava perché stava a perdere il suo tempo in mezzo
alla strada: "Vattene a casa, pezzente; una donna onesta deve stare in
seno alla famiglia" ». E accompagnava la ramanzina o con un bel ceffone, o
con una pedata sul ventre, o con qualche bastonata.
Il figlio, ovviamente, era, o
sembrava essere, il suo opposto. Scriveva trattati di metafisica, di storia, di
politica in versi e intratteneva corrispondenza con i letterati di tutt'Europa.
Diventato re, conduceva una vita sempre uguale; sonno spartano, su una branda,
sveglia alle cinque del mattino. «Poi lo stoico concedeva qualche momento alla
setta di Epicuro: egli faceva venire due o tre favoriti a prendere il caffè
insieme. Quello a cui gettava il fazzoletto rimaneva per mezzo quarto d'ora a
tu per tu con lui. Le cose non si spingevano fino alle estreme conseguenze,
visto che il principe, quando suo padre era vivo, aveva subito forti maltrattamenti
a causa dei suoi amori passeggeri, e ne era uscito malconcio. Non poteva andare
a fondo; bisognava che si fermasse agli approcci. Ben presto quei divertimenti
da scolari finivano, gli affari di Stato ne prendevano il posto». Nei pomeriggio,
composizione di versi, lettura e concerto di opere da lui stesso composto. La
sera si cenava su un tavolo dipinto con scene priapee: ninfe sotto satiri,
arieti sopra pecore: «I pasti non erano meno filosofici. Un sopravveniente che
ci avesse ascoltato, vedendo quella pittura, avrebbe creduto di sentire i sette
savi di Grecia al bordello ».
Ma il lieve spirito di sollazzo
svanì molto presto. Voltaire cominciò a scrivere alle sue amiche che gli
intrattenimenti emano deliziosi, «ma...», che le feste erano magnifiche,
«ma...», che le principesse erano deliziose, «ma...». Il piacere di strofinarsi
con il re, l'essere riverito e lodato, lo stare a Corte come un nobile, non
compensavano quel, prima vago, poi sempre più forte senso di disagio.
Aveva sempre capito e saputo che
Federico, « in fondo al cuore si burlava di lui». Sperimentarlo direttamente
era però un'altra cosa. Il re era bizzoso e imprevedibile, protetto da
quell'egoismo che riconduce inevitabilmente ogni cosa, anche la più banale, ai
propri interessi. « Era nella sua natura far sempre giusto il contrario di
quello che diceva o scriveva, non per dissimulazione, ma perché egli scriveva e
parlava con un certo tipo di entusiasmo, e agiva poi con un altro». Sotto le
poesie e le belle maniere francesi, c'era lo stesso dispotismo del padre, la
stessa intolleranza venata di qualche follia. «Mosè», diceva, «guidava gli
ebrei come voleva, e io governo i prussiani come mi pare». Inoltre pretendeva
di essere il primo in tutto: il suo motto, ricorda lo scrittore, era: «Nessun
rumore, se non sono io a farlo ».
Voltaire capì che l'avventura
berlinese stava finendo e che era arrivato il momento di ripartire quando gli
riferirono una battuta di Federico contro di lui: « Si spreme l'arancia, e la
si butta via quando ne è uscito il succo». Il figlio del notaio decise allora
di salvare almeno quelle che chiamava «le bucce»: «Avevo trecentomila lire da
investire. Mi guardai bene dal'impiegarle negli Stati della mia Alcina. Le
piazzai vantaggiosamente nelle terre che il duca di Wurtemberg possiede in
Francia». Sapeva che «la povertà infiacchiva il coraggio» e che, «nato
incudine» poteva non diventare martello, ma evitare di essere battuto, solo con
l'aiuto dei quattrini.
Poi scappò a Parigi «con la
promessa al re di ritornare, e con il fermo proposito di non vederlo più in
vita mia». In effetti non si videro più, ma si scrissero molto. Lontani l'uno
dall'altro, ripresero la loro corrispondenza filosofica al punto in cui
l'avevano lasciata prima del viaggio in Prussia. Federico gli mandò un'epistola
in versi in cui gli annunciava il suo prossimo suicidio, decisione maturata
dopo le disfatte militari. Voltaire, pienamente convinto che lo scopo del re
era solo quello di dimostrare di aver conservato tutta la sua presenza e libertà
di spirito, in un momento in cui gli altri uomini non ne hanno più, gli rispose
scongiurandolo di non farlo: come gli epiteti, anche i consigli — diceva — non
costano nulla.
“la Repubblica” s.i.d.,
probabilmente 1982
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